I provvedimenti del giudice conseguenti alla sentenza di proscioglimento, per infermità di mente, dell'imputato sottoposto a misura cautelare

10 Maggio 2021

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 300, comma 2, c.p.p., sollevata in riferimento all'art. 32 Cost., nella parte in cui, in caso di proscioglimento per infermità di mente dell'imputato in stato di custodia cautelare, subordina (mediante il rinvio all'art. 312 c.p.p.) l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza alla previa richiesta del p.m...
Massima

Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 300, comma 2, c.p.p., sollevata in riferimento all'art. 32 Cost., nella parte in cui, in caso di proscioglimento per infermità di mente dell'imputato in stato di custodia cautelare, subordina (mediante il rinvio all'art. 312 c.p.p.) l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza alla previa richiesta del p.m.

Il caso

Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Cosenza, all'esito del giudizio abbreviato, pronunciava sentenza di assoluzione, per infermità di mente, nei confronti di un imputato che era risultato totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto nonché socialmente pericoloso. Contestualmente alla sentenza – ritenendo che, per effetto del proscioglimento, fosse divenuta inefficace la misura cautere della custodia in carcere fino a quel momento in atto nei confronti dell'imputato – disponeva l'applicazione “immediata” della misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) da eseguirsi in una residenza esterna per l'esecuzione di misure di sicurezza (REMS). Il giudice, nell'applicare la misura di sicurezza, faceva riferimento all'art. 300, 2° comma, c.p.p., che prevede che “se l'imputato si trova in stato di custodia cautelare e con la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere è applicata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, il giudice provvede a norma dell'art. 312 c.p.p.”.

Con successiva istanza depositata in cancelleria, il p.m. (che nel giudizio aveva concluso per la condanna dell'imputato) chiedeva al g.u.p. la revoca del provvedimento di applicazione della misura di sicurezza, poiché adottato in mancanza della necessaria richiesta della parte pubblica, prevista dall'art. 312, comma 1, c.p.p., e, conseguentemente, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. b), c.p.p. radicalmente nullo per inosservanza di una disposizione concernente la partecipazione del p.m. al procedimento.

Il g.u.p. riteneva fondata l'istanza del p.m., ritenendo che gli atti da lui stesso disposti si ponessero in contrasto con due norme: l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., che stabilisce che il giudice, prima di provvedere in ordine alla revoca o alla sostituzione delle misure cautelari coercitive e interdittive deve sentire il p.m.; l'art.312 c.p.p., il quale prevede che l'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza può essere disposta solo su richiesta del p.m.

Sotto il primo profilo, il giudice rimettente rilevava che la precedente misura della custodia cautelare in carcere non poteva essere dichiarata immediatamente inefficace senza aver preventivamente sentito il p.m., poiché l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., nell'interpretazione che costituirebbe diritto vivente, imporrebbe al giudice di sentire il p.m. anche nel caso di perdita di efficacia della misura cautelare, ai sensi dell'art. 300, comma 1, c.p.p., per intervenuto proscioglimento dell'imputato.

Sotto il secondo profilo, osservava che l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza nei confronti dell'imputato prosciolto non poteva essere disposta senza la necessaria richiesta da parte del p.m., in forza dell'integrale richiamo operato dall'art. 300, comma 2, c.p.p. alle disposizioni di cui all'art. 312 c.p.p., compresa quella che prevede l'istanza del rappresentante della pubblica accusa.

Il g.u.p., tuttavia, riteneva che le norme che venivano in questione – e, precisamente, gli artt. 299, comma 3-bis, 300, comma 2, c.p.p. e 222, comma 1, c.p. – ponevano gravi e fondati dubbi di legittimità costituzionale.

In particolare, l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., nell'interpretazione che costituirebbe diritto vivente, imponendo al giudice di sentire il p.m. anche in caso di perdita di efficacia della misura cautelare personale per intervenuto proscioglimento dell'imputato, si porrebbe in contrasto sia con l'art. 13 Cost., in quanto “l'eventuale ultrattività del titolo cautelare non poggerebbe su gravi indizi di colpevolezza radicalmente esclusi dall'accertato proscioglimento dell'imputato”, sia con l'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 5, paragrafo 1, CEDU, poiché la privazione della libertà personale dell'imputato avverrebbe al di fuori delle ipotesi consentite dalla disposizione convenzionale. La norma censurata si porrebbe in contrasto anche con il canone di ragionevolezza, atteso che:

a) l'imposizione del previo parere del p.m. produrrebbe un differimento non ammissibile degli effetti della decisione giudiziale;

b) non sarebbe possibile acquisire tale parere prima della decisione sulla responsabilità penale dell'imputato, della quale non si potrebbe prevedere l'esito;

c) ove la declaratoria di immediata perdita di efficacia della misura cautelare dovesse essere posticipata rispetto al proscioglimento per consentire l'acquisizione del parere del p.m., l'imputato rimarrebbe sottoposto, ancorché per un breve lasso di tempo, a una misura restrittiva della libertà personale priva di giustificazione.

L'art. 300,comma 2, c.p.p., invece, subordinando (per effetto dell'integrale richiamo alle disposizioni di cui all'art. 312 c.p.p.) l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza nei confronti dell'imputato prosciolto alla richiesta del p.m., si porrebbe in contrasto con l'art. 32, comma 1, Cost.: tenuto conto che la giurisprudenza costituzionale ritiene che la misura del ricovero in REMS abbia un contenuto essenzialmente terapeutico, subordinarne l'applicazione alla richiesta del p.m. violerebbe “il diritto alla cura della salute dell'imputato affetto da grave infermità mentale”, atteso che, in assenza dell'istanza del rappresentante della pubblica accusa, il soggetto sarebbe privato dei trattamenti sanitari adeguati alla sua malattia.

Il giudice rimettente censurava, oltre alle indicate norme del codice di rito, anche l'art. 222 c.p., che impone, nel caso di proscioglimento per infermità psichica, il ricovero dell'imputato in OPG, da eseguirsi in REMS, per un tempo non inferiore a due anni (salvo che si proceda per delitti non colposi o per altri delitti per i quali la legge stabilisce la reclusione non superiore nel massimo due anni). Ebbene, a suo parere, la norma in questione, imponendo al giudice di applicare, in via definitiva, la misura di sicurezza per la durata non inferiore a due anni (misura la cui effettiva applicazione rimarrebbe, tuttavia, sospesa sino all'irrevocabilità della sentenza di proscioglimento), anziché di ordinarne l'immediata applicazione per un tempo non predeterminato, si porrebbe in contrasto con l'art. 32 Cost.: “E invero se, conformemente all'indirizzo interpretativo desumibile dalla giurisprudenza del Giudice delle Leggi, le misure di sicurezza devono essere applicate per il tempo strettamente necessario a contemperare le esigenze di cura del paziente con quelle di tutela della collettività - corrispondente al lasso di tempo nel corso del quale il destinatario può essere considerato «socialmente pericoloso» - nessun automatismo può guidare il giudice nella determinazione del tempo (imprevedibile) necessario ad assicurare le finalità cui esse sono preordinate”.

Il giudice rimettente non si limitava a censurare la norma in questione, ma delineava anche la disciplina che, a suo parere, dovrebbe discendere dall'incostituzionalità dell'art. 222 c.p.: il presunto contrasto con i parametri costituzionali imporrebbe di ritenere “definitivamente, superata la distinzione tra misure di sicurezza applicate in via «provvisoria» ovvero in via «definitiva»”; conseguentemente, nei casi previsti dall'art. 300, comma 2, c.p.p., il giudice dovrebbe, anche in assenza di richiesta del pubblico ministero, applicare immediatamente una misura di sicurezza, senza fissarne in alcun modo la durata, la cui determinazione rimarrebbe legata al perdurare della pericolosità sociale.

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare le questioni inammissibili o manifestamente infondate. In particolare, sarebbero inammissibili, per irrilevanza, le censure sollevate in riferimento agli artt. 299, comma 3-bis,c.p.p. e 222 c.p., comma 1, c.p., in quanto tali disposizioni non dovrebbero essere applicate nel giudizio a quo. Del pari inammissibile sarebbe la questione relativa agli artt. 300, comma 2, e 312 c.p.p., poiché la previsione della richiesta del p.m. quale presupposto inderogabile per abilitare il giudice a disporre l'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza costituirebbe una scelta non solo afferente all'ambito di discrezionalità del legislatore, ma anche pienamente coerente con il modello accusatorio, che informa l'intero sistema della procedura penale e che mira a esaltare il ruolo delle parti e a preservare, correlativamente, la terzietà del giudice.

La questione

La questione attiene ai poteri del giudice in materia di dichiarazione di inefficacia di misure cautelari e di applicazione provvisoria di misure di sicurezza a seguito di sentenza di proscioglimento dell'imputato in stato di custodia cautelare.

Può il giudice che prosciolga l'imputato dichiarare immediatamente l'inefficacia della misura cautelare in atto oppure deve necessariamente sentire prima il parere del p.m.?

Nel caso in cui l'imputato ristretto in custodia cautelare sia prosciolto per difetto di imputabilità e con la sentenza debba essere applicata, in via definitiva, la misura di sicurezza dell'OPG da eseguirsi in REMS, quello stesso giudice può applicare d'ufficio, in via provvisoria, la misura di sicurezza oppure non può disporla senza la preventiva istanza del p.m.?

Il g.u.p. del Tribunale di Cosenza ritiene, in relazione ad entrambe le questioni, che il potere del giudice sia condizionato all'intervento del p.m., ritenendo che l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., nell'interpretazione che costituirebbe diritto vivente, imponga al giudice di sentire preventivamente il p.m. in relazione a qualsiasi fenomeno estintivo di una misura cautelare e che l'art. 300, comma 2, c.p.p., per effetto del richiamo all'art. 312 c.p.p., non consenta al giudice di applicare in via provvisoria la misura di sicurezza senza l'istanza del rappresentante della pubblica accusa.

Il rimettente, tuttavia, ritiene che le norme in questione, interpretate nel senso indicato, si pongano in contrasto con la Costituzione e, conseguentemente, ha sollevato svariate questioni di legittimità costituzionale, chiedendo alla Consulta anche una pronuncia “additiva” che porti a superare la distinzione tra applicazione provvisoria e applicazione definitiva delle misure di sicurezza.

Le soluzioni giuridiche

La Corte Costituzionale ritiene manifestamente inammissibili tutte le questioni sollevate dal g.u.p. di Cosenza.

Con riferimento alla prima – relativa al presunto contrasto dell'art. 299, comma 3-bis, c.p.p. con gli artt. 13 e 117, comma 1, Cost., nonché con il principio di ragionevolezza – la Corte rileva che la questione è palesemente irrilevante rispetto al giudizio a quo: il rimettente deve decidere sulla richiesta del p.m. di revocare la misura di sicurezza e, dunque, non deve applicare l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., che imporrebbe di chiedere il parere al p.m. anche nel caso in cui si debba dichiarare inefficace una misura cautelare a seguito di proscioglimento dell'imputato.

Il rimettente, in altri termini, deve decidere solo sulla misura di sicurezza e non più sulla misura cautelare. E la Consulta evidenzia che le vicende relative alle misure cautelari e quelle che attengono all'applicazione provvisoria delle misure di sicurezza non possono essere trattate indistintamente nell'ambito di un unico sub-procedimento cautelare, ma devono rimanere sempre distinte, attesa la diversità dei presupposti indiziari e funzionali delle due misure.

La questione, sottolinea la Corte, rimarrebbe non rilevante nel giudizio a quo, anche se il g.u.p. accogliesse l'istanza del p.m., poiché non si verrebbe, comunque, a determinare il ripristino della precedente custodia cautelare, venuta meno ex lege, ai sensi dell'art. 300, comma 1, c.p.p., al momento del proscioglimento dell'imputato.

Deve perciò escludersi che il rimettente sia chiamato, nel procedimento a quo, a fare nuovamente applicazione dell'art. 300, comma 1, c.p.p., e del censurato art. 299, comma 3-bis, c.p.p.

La Corte ritiene la seconda questione – relativa alla presunta incostituzionalità dell'art. 300, comma 2, c.p.p., nella parte in cui, in caso di proscioglimento dell'imputato in stato di custodia cautelare, subordinerebbe l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza alla previa richiesta del p.m. – rilevante, ma manifestamente inammissibile.

Il rimettente aveva fondato la questione sul contenuto essenzialmente terapeutico della misura del ricovero in REMS: condizionarne l'applicazione alla richiesta del p.m., conseguentemente, violerebbe “il diritto alla cura della salute dell'imputato affetto da grave infermità mentale”.

Ebbene, in questo caso, la Corte ritiene la questione rilevante, in quanto suscettibile di determinare l'esito della decisione del giudice a quo, chiamato a vagliare la richiesta del p.m. di revoca dell'applicazione in via provvisoria del ricovero in una REMS, proprio perché adottata in difetto della previa richiesta della pubblica accusa.

La questione, tuttavia, viene ritenuta palesemente inammissibile, in quanto il parametro costituzionale evocato è inconferente.

La Consulta ribadisce che le REMS sono strutture “a esclusiva gestione sanitaria” e che durante il ricovero deve essere assicurata al soggetto ogni terapia utile alla cura delle sue patologie psichiche, con lo scopo ultimo di assicurarne l'obiettivo della risocializzazione attraverso un trattamento individualizzato volto anche al superamento o al contenimento degli effetti di tali patologie (come già affermato nelle sentenze n. 99/2019 e n. 73/2020); cionondimeno, evidenzia come il ricovero in tali strutture rimanga pur sempre la modalità prevista dall'ordinamento per eseguire la misura di sicurezza dell'OPG, ossia una misura privativa della libertà personale, il cui scopo tipico è il contenimento della pericolosità sociale del soggetto.

La mancata applicazione di essa, in mancanza dell'apposita istanza del p.m., dunque, non potrebbe mai risolversi in una lesione del diritto alla salute del soggetto, che, al contrario, avrebbe un evidente interesse a ottenere, al posto del ricovero in REMS, un trattamento (volontario o obbligatorio) strutturalmente funzionale alla tutela della sua salute mentale ai sensi degli artt. 33 e seguenti della l. n. 833/1978. L'inconferenza del parametro invocato a supporto della questione ne comporta la manifesta inammissibilità.

La Corte ritiene non rilevante la terza questione, relativa alla presunta incostituzionalità dell'art. 222, comma 1, c.p., nella parte in cui dispone che, in caso di proscioglimento per infermità psichica, la misura di sicurezza del ricovero in una REMS sia ordinata per un tempo non inferiore a due anni.

La Consulta evidenzia come, nel procedimento a quo, si discuta unicamente dell'applicazione provvisoria della misura di sicurezza, regolata dagli artt. 206 c.p., 312 e 313 c.p.p., che non prevedono alcuna durata minima, e non del censurato art. 222, comma 1, c.p.

Ad ogni buon conto, la Corte ricorda come, per effetto della sentenza additiva n. 110/1974, la durata minima della misura di sicurezza, nella sostanza, è legata al perdurare dello stato di pericolosità sociale del soggetto, spettando al giudice “il potere di revoca della misura di sicurezza – ove sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità – anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge”.

Osservazioni

Il Giudice delle leggi, con argomentazioni sintetiche ma incisive, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale poste dal g.u.p. del Tribunale di Cosenza.

Gli argomenti trattati nell'ordinanza sono particolarmente interessanti e in relazione ad essi possono svolgersi alcune osservazioni a margine.

La prima questione sollevata non viene proprio trattata dalla Corte Costituzionale, perché irrilevante nel giudizio a quo.

È, tuttavia, interessante rilevare che il presupposto dal quale il g.u.p. era partito per ritenere incostituzionale l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p. era una particolare interpretazione della norma, che, a suo parere, costituirebbe diritto vivente.

Secondo il rimettente “la disposizione di cui all'art. 299, comma 3-bis, c.p.p., costituisce norma di carattere generale, applicabile ad ogni ipotesi di perdita di efficacia di una misura cautelare per effetto di un fenomeno estintivo della privazione della libertà, conseguente a revoca per effetto di una nuova valutazione delle condizioni di applicabilità della misura (art. 299), all'operatività di diritto di altre situazioni (articoli 300, 301 e 302 c.p.p.) ovvero alla caducazione della misura per scadenza del termine massimo di durata previsto dall'art. 303 stesso codice”.

Occorre, a questo punto, chiedersi se effettivamente l'interpretazione giurisprudenziale della norma, nel senso indicato dal g.u.p., sia così costante da costituire diritto vivente.

Al riguardo, occorre osservare che alcune delle sentenze della Suprema Corte citate nell'ordinanza del g.u.p. non appaiono particolarmente significative, perché attengono a ipotesi di mancata richiesta del parere del p.m. in relazione a istanze di revoca o di sostituzione di misure cautelari, in ordine alle quali non appare dubbio che vada necessariamente sentito il rappresentante della pubblica accusa.

Più pertinenti appaiono altre sentenze citate nell'ordinanza, sebbene esse si riferiscano all'ipotesi particolare della dichiarazione di inefficacia di misure cautelari per decorso dei termini di durata. In tali pronunce, la Suprema Corte afferma, effettivamente, che l'art. 299, comma 3-bis, c.p.p. costituisce una norma di carattere generale, applicabile ad ogni ipotesi di perdita di efficacia di una misura cautelare per effetto di un fenomeno estintivo del provvedimento privativo della libertà. Va, tuttavia, evidenziato che si tratta di pronunce non recenti e che vi è un opposto orientamento che, invece, ritiene non necessario il preventivo parere del p.m.: “Il giudice procedente che ritenga doversi disporre la cessazione della custodia cautelare per intervenuto decorso dei relativi termini non è tenuto ad acquisire preventivamente il parere del pubblico ministero, mancando nel vigente codice di procedura penale una norma corrispondente all'art. 76, comma primo, del codice abrogato, secondo cui il giudice, nel corso del procedimento penale, non poteva comunque deliberare se non sentito il pubblico ministero, salvi i casi eccettuati dalla legge” (Cass. pen., sez. V, 9 novembre 2005, n. 45942).

In presenza di tali opposti orientamenti giurisprudenziali, relativi, peraltro, a una particolare ipotesi di inefficacia, quale quella della decorrenza dei termini di durata della misura cautelare, appare eccessivo parlare di diritto vivente con riferimento all'interpretazione che ritiene necessario il preventivo parere del p.m. anche nell'ipotesi prevista dall'art. 300, comma 1, c.p.p.

Tanto premesso, proprio alcuni dei profili evidenziati dal g.u.p. potrebbero essere recuperati per un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 300, comma 1, c.p.p., che porti a ritenere non necessario il preventivo parere del p.m. Interpretazione che troverebbe anche conforto nella lettera della legge, visto che la norma non solo non prevede espressamente il parere in questione, ma dispone che “Le misure … perdono immediatamente efficacia …”. La diversa disciplina, rispetto alle ipotesi previste dall'art. 299 c.p.p., d'altronde, troverebbe giustificazione nella natura sostanzialmente dichiarativa del provvedimento di inefficacia ex art. 300 c.p.p., ben diversa da quella dei provvedimenti di revoca o sostituzione di misure cautelari, nonché nella considerazione che qualsiasi ultrattività del titolo cautelare, a fronte di una sentenza di proscioglimento, si porrebbe in contrasto con l'art. 13 Cost., con l'art. 273 c.p.p. e con la natura stessa delle misure cautelari, che sono incompatibili rispetto ad un soggetto riconosciuto non imputabile.

Sempre con riferimento alla prima questione di costituzionalità sollevata dal g.u.p., va segnalato che la Corte, nell'argomentare della non rilevanza della questione rispetto al giudizio a quo, nell'ambito del quale si doveva decidere della revoca della misura di sicurezza e non più dell'inefficacia della misura cautelare in precedenza applicata, evidenzia che i due diversi tipi di misura devono esser nettamente distinti tra loro, differenziandosi sia per finalità che per presupposti. Al riguardo, va rilevato che tale affermazione si pone in perfetta coerenza con la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr. Cass. pen., sez. V, 2 maggio 2019, n. 26080; Cass. pen., sez. V, 15 gennaio 2007, n. 5818; Cass. pen., sez. III, 13 giugno 2003, n. 1137) e che la stessa Consulta, in una sentenza risalente (n. 228/1999), aveva evidenziato come le misure si basino su presupposti diversi, anche nel caso in cui la misura cautelare trovi fondamento nel pericolo di reiterazione del reato: la pericolosità sociale, che è la pericolosità criminale generica, cioè la probabilità che la persona commetta nuovi fatti di reato, deve essere infatti distinta dal concreto pericolo di reiterazione di gravi delitti della stessa specie di quelli per i quali si procede, richiesto dall'art. 274, lett. c), c.p.p.

La delineata diversità delle misure rende evidente che non è consentito al giudice di trattarle indistintamente nell'ambito di un unico sub-procedimento cautelare, in modo tale da poter tranquillamente scegliere tra loro con l'unico limite della minor afflittività per il reo.

La seconda questione – relativa al presunto contrasto dell'art. 300, comma 2, c.p.p. con l'art. 32Cost. – appare interessante per il presupposto interpretativo dal quale muove e, cioè, che sarebbe necessaria la richiesta del p.m. per l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza all'imputato contestualmente prosciolto per vizio di mente, atteso che: l'art. 300, comma2, c.p.p. dispone che “se l'imputato si trova in stato di custodia cautelare e con la sentenza di proscioglimento è applicata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, il giudice provvede a norma dell'articolo 312”; quest'ultima disposizione richiede il parere del p.m. per l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza. Si tratta di un'interpretazione che è ritenuta dalla Consulta “in sé non implausibile” e che, indubbiamente, è fondata su un solido dato letterale: l'integrale rinvio che l'art. 300, comma 2, c.p.p. fa all'art. 312 c.p.p.

La Corte Costituzionale, come detto, considera la questione rilevante, ma manifestamente infondata, ritenendo che la norma, interpretata nel senso prospettato dal remittente, non si ponga in contrasto con l'art. 32 Cost.

Il g.u.p. di Cosenza aveva ritenuto che la norma, subordinando il provvedimento di applicazione della misura di sicurezza all'istanza del p.m., potesse portare, in caso di inerzia del rappresentante della pubblica accusa, a lasciare il soggetto privo delle cure conseguenti al suo inserimento in una REMS.

Al riguardo, va osservato che con l'istituzione delle REMS si è sicuramente spostato il baricentro delle misure di sicurezza dal controllo sociale alla cura e alla risocializzazione della persona: si tratta di strutture residenziali nelle quali il soggetto viene avviato a percorsi prettamente terapeutici e riabilitativi, ad opera di personale medico e sanitario, inquadrato nel SSN; la vigilanza è esterna. Ma è altrettanto indiscutibile che il ricovero in una REMS rimane una misura di sicurezza detentiva; ossia una misura privativa della libertà personale, finalizzata anche al contenimento della pericolosità sociale dell'internato, in conseguenza della previa commissione di un fatto di reato.

Quanto al paventato pericolo che la mancata istanza del p.m. lasci il soggetto privo delle cure conseguenti all'applicazione della misura di sicurezza, va rilevato che, come evidenziato dalla Consulta, il soggetto potrà ottenere il necessario trattamento sanitario (obbligatorio o volontario) ai sensi delle vigenti norme sul sistema sanitario nazionale.

Non vi è dunque alcuna violazione del diritto alla salute del soggetto prosciolto, visto che questo potrebbe essere adeguatamente curato facendo ricorso alle strutture del servizio sanitario nazionale, senza, peraltro, subire alcuna limitazione alla sua libertà personale.

In altri termini, l'inerzia del p.m. si risolverebbe a tutto favore del soggetto prosciolto.

Semmai, la mancata istanza del p.m. e la conseguente mancata applicazione della misura di sicurezza potrebbero pregiudicare le esigenze di tutela della collettività rispetto alla pericolosità sociale del soggetto: si tratterebbe, però, di una situazione “patologica”, dovuta all'ingiustificata inerzia del p.m., del tutto analoga a quella che si determinerebbe nel caso di una mancata istanza di misura cautelare del p.m. rispetto al pericolo di reiterazione del reato da parte di un indagato.

Con riferimento alla terza questione sollevata, relativa alla presunta incostituzionalità dell'art. 222 c.p., nella parte in cui predetermina la durata minima della misura di sicurezza in due anni, va osservato che con essa il rimettente pone in discussione l'intero “meccanismo” procedurale delle misure di sicurezza, che non dovrebbe più esser basato sulla distinzione tra misure applicate in via provvisoria e in via definitiva e che dovrebbe consentire al giudice, nei casi previsti dall'art. 300, comma 2, c.p.p., di applicare, immediatamente e anche in assenza di richiesta del p.m., la misura del ricovero in REMS, senza fissarne in alcun modo la durata, la cui determinazione rimarrebbe legata al perdurare della pericolosità sociale.

Al riguardo, va rilevato che non appaiono pienamente fondate le preoccupazioni che dovrebbero indurre a realizzare una così significativa “riforma” delle norme in questione con una pronuncia di incostituzionalità.

Il g.u.p. paventa il pericolo di possibili lesioni al diritto alla salute che potrebbero essere causate, da un lato, dalla durata prefissata della misura di sicurezza e, dall'altro, dalla possibile inerzia del p.m.

Ebbene, quanto, al primo profilo, va rilevato che, come evidenziato dalla Corte nell'ordinanza in commento, per effetto della sentenza additiva n. 110/1974, la durata minima della misura di sicurezza, in sostanza, già ora è legata al perdurare dello stato di pericolosità sociale del soggetto, spettando al giudice “il potere di revoca della misura di sicurezza – ove sia accertata la cessazione dello stato di pericolosità – anche prima che sia decorso il tempo corrispondente alla durata minima stabilita dalla legge”. Al riguardo, va ricordato che, anche in pendenza di applicazione provvisoria della misura di sicurezza, il giudice deve periodicamente verificare il perdurare della pericolosità sociale, proprio al fine di un'eventuale revoca della misura.

Quanto all'altro profilo, come già detto, non si pone in pericolo il diritto alla salute subordinando l'applicazione della misura di sicurezza all'istanza del p.m., poiché l'eventuale inerzia del rappresentante della pubblica accusa pregiudicherebbe non la possibilità di prestare le necessarie cure al soggetto, ma, semmai, l'esigenza di tutela della collettività.

Va, in conclusione, osservato che l'attuale sistema delle misure di sicurezza va sicuramente migliorato (appare, ad esempio, opportuno un intervento legislativo che disciplini la misura della libertà vigilata da eseguirsi in strutture residenziali, attualmente in gran parte basata sull'elaborazione giurisprudenziale) e anche le stesse norme procedurali andrebbero riformate: esse appaiono troppo “rigide”, essendo state elaborate “guardando” troppo a quelle previste per le misure cautelari, mentre, in materia di pericolosità sociale, appaiono più adeguate le più snelle ed elastiche procedure a cui può ricorrere il magistrato di sorveglianza.

Appare, però, evidente che il superamento dell'attuale disciplina difficilmente potrà avvenire con pronunce di incostituzionalità, essendo invece necessaria una profonda riforma legislativa non solo delle norme sulle misure di sicurezza, ma anche di quelle sulla capacità processuale e sull'imputabilità.

Guida all'approfondimento

BALBI, Infermità di mente e pericolosità sociale tra OPG e REMS, in DPC, 20.7.2015;

CIRILLO, Il giudice del dibattimento di fronte alla pericolosità sociale: come orientarsi con la sospensione del processo, le misure di sicurezza e le misure cautelari, in Il Penalista, 17.1.2020;

DI NICOLA, La chiusura degli OPG: un'occasione mancata, in DPC, 13.3.2015;

GATTA, OPG e REMS: a che punto siamo? Le relazioni del commissario unico per il superamento degli OPG, Franco Corleone, in DPC, 27.12.2016;

POTETTI, Nota a Cassazione penale, 9 aprile 2014, n.26589, in Cass. Pen., fasc. 7-8, 2015, 2767 e ss.

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