Le carenze nel ricorso in Cassazione di cui all'ordinanza n. 14358/19: a proposito di compensatio lucri cum damno

Enzo Ronchi
13 Maggio 2021

La giurisprudenza di legittimità dopo il 2014 sembra ormai costante nel vietare il cumulo della somma dovuta per R.C. e della somma percepibile per privata copertura assicurativa contro gli infortuni, con riferimento al medesimo “sinistro”. Diversamente da quanto in Cass. n.13233/14, peraltro, essa non entra mai nel merito di un preciso aspetto medico legale della problematica che, se correttamente considerato, dovrebbe permettere di superare il divieto stesso.
Il ricorso nell'ordinanza n.14358/19

Le ragioni che hanno portato certa giurisprudenza di legittimità al divieto di cumulo della somma dovuta per r.c. e della somma percepibile per privata copertura assicurativa contro gli infortuni, con riferimento al medesimo “sinistro”, sono di natura eminentemente giuridica e le stesse non sempre si coniugano felicemente con quel c.d. buon senso che tendenzialmente regola il ragionamento atecnico, fuori dalla aule di Giustizia: ma delle prime si deve avvalere il Giudice e niente affatto del secondo.

Ne sono prova, ad esempio, le pronunce di Cassazione n. 13233/14, n. 7349/15; le note, quattro sentenze SS.UU. nn. 12564, 12565, 12566, 12567 del 2018; e l'Ordinanza n. 14358/19.

La prima menzionata, la si potrebbe definire “capostipite” (sentenza Rossetti), per aver prodotto una rumorosa deflagrazione nel 2014; e l'ultima, l'Ordinanza, è quella da cui qui si vuol muovere per evidenziare impietosamente quanto possano essere deleterie le carenze nel ricorso.

Nel caso di cui all'Ordinanza n. 14358/19, il ricorrente deduceva “violazione dell'art. 1908 c.c., in relazione al principio di integralità del risarcimento, ritenendosi contra legem sottrarre - dall'ammontare del risarcimento determinato sulla base delle tabelle relative alle lesioni c.d. micro- permanenti, emanate in attuazione dell'art. 139 cod. assicurazioni- , l'indennizzo contrattualmente pattuito in una polizza infortuni, laddove sia stata pattuita la rinuncia alla surrogazione di cui all'art. 1916 cod civ.”; e, pur consapevole che la sentenza impugnata si uniformava al più recente indirizzo della giurisprudenza, il ricorrente reputava che l'indirizzo stesso “sconti un errore concettuale meritevole di essere emendato …”.

Ma, come peraltro ampiamente prevedibile, l'Ordinanza giudicava infondato il motivo del ricorso, argomentando nei seguenti termini.

“L'assicurazionecontrogli infortuni non mortale costituisce un'assicurazione contro i danni ed è soggetta al principio indennitario, in virtù del quale l'indennizzo non può mai eccedere il danno effettivamente patito, sicché il risarcimento dovuto alla vittima di lesioni personali deve essere diminuito dell'importo percepito a titolo di indennizzo da parte del proprio assicuratore privato contro gli infortuni”.

Come evidenziato nella sentenza “capostipite”, nemmeno la rinuncia alla surroga da parte dell'assicuratore privato, “può consentire all'assicurato di cumulare il risarcimento ottenuto dal terzo con l'indennizzo dovuto dall'assicuratore”.

L'aspetto medico legale nella problematica

Le ragioni che vietano il cumulo anche in presenza di rinuncia alla surroga dell'assicuratore privato, sono ampiamente esposte in sentenza e nel merito delle stesse non si vuole e soprattutto non si può entrare per ovvie carenze culturali dello scrivente che ha formazione non giuridica ma medico-legale.

Peraltro, sembra essere sfuggito, non a pochi, che la sentenza “capostipite” presenta anche un aspetto di interesse medico-legale tutt'altro che trascurabile ed anzi essenziale ai fini applicativi della regola di giudizio calata dagli ermellini.

Certamente, l'aspetto medico-legale è sfuggito al ricorrente nel caso di cui alla sopradetta Ordinanza, nella parte in cui ha cercato di far leva unicamente sulla previsione contrattuale della rinuncia alla surrogazione da parte dell'assicuratore privato, trascurando quella che avrebbe potuto rappresentare la carta vincente nel ricorso, e ciò per non essersi avveduto di quanto al punto 6) in Cass.Civ., sez. III, n. 13233/2014, ove nella parte conclusiva è scritto quanto segue: “Resta solo da aggiungere, per completezza, che la detrazione dal risarcimento del danno aquiliano dell'indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni esige che il danno patito e il rischio assicurato coincidano: se l'assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito ebbe soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarà possibile, a nulla rilevando che l'assicuratore abbia, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettano l'indennizzabilità di un danno presunto, pagato ugualmente l'indennizzo”.

E proprio questo è il punto, l'aspetto medico-legale della questione su cui va richiamata l'attenzione: tutte le private polizze infortuni coprono, per definizione, il danno patrimoniale per riduzione di capacità lavorativa. All'assicurando interessa che l'assicuratore intervenga con beneficio economico in suo favore, laddove sia colpito da un evento lesivo che gli comporti impedimento (temporaneo e/o permanente) nella produzione del reddito da lavoro.

È a tutti noto, poi, che l'assicuratore, per un corretto calcolo del premio e per una positiva gestione del ramo, deve affrontare un rischio per quanto possibile omogeneo; e questo spiega perché non copre la riduzione di capacità lavorativa specifica ed ha preferito definire l'invalidità permanente come diminuzione della capacità della persona allo svolgimento di un qualsiasi lavoro proficuo. D'altro canto anche l'INAIL, per danno biologico permanente di valore superiore al quindici%, liquida anche il danno patrimoniale (secondo criteri predefiniti per legge) per riduzione di capacità lavorativa generica.

Dunque, nelle polizze private contro gli infortuni, l'assicuratore garantisce per la diminuzione di capacità lavorativa generica; ed è da ritenere fuor di dubbio che, secondo lettera della sentenza di Cassazione n.

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2014, danno patito (biologico) e rischio assicurato per polizza infortuni (danno patrimoniale) non coincidono: tale per cui non è possibile detrarre, dal risarcimento del danno aquiliano, l'indennizzo assicurativo spettante alla vittima in virtù di polizza contro gli infortuni.

Le condizioni medico legali per il diritto al cumulo

Sembra che alla Corte non sia consentito supplire a carenze motivazionali dei ricorsi come qui avvenuto, andando a ricercare d'ufficio come meglio gli stessi avrebbero potuto essere proposti.

Ed è parimenti ragionevole ritenere che l'Ordinanza avrebbe avuto esito favorevole al ricorrente se la motivazione si fosse curata di sottolineare soprattutto la radicalmente diversa natura ontologica dei due danni chiesti in liquidazione: l'uno biologico, non-patrimoniale; l'altro patrimoniale per riduzione di capacità lavorativa.

Va pure rimarcato, a questo punto: che nessuna delle sentenze SS.UU. nn. 12564, 12565, 12566, 12567, ha trattato segnatamente della controversa questione del cumulo di risarcimento per r.c. e indennizzo derivante da assicurazione privata infortuni, nello stesso “sinistro”; che la decisione n. 14358/19 si riporta alle stesse ed alla precedente “capostipite”; che nel punto specifico di cui si tratta, fa scuola quest'ultima; e che tuttavia sono note sentenze di merito che censurano la compensatio lucri cum damno peraltro senza scendere nel merito della diversità ontologica dei due beni in gioco come sopra detto

Ciò, ancora, per difetto di motivazione dei ricorrenti.

Così nelle decisioni del Tribunale di Genova (16 maggio 2016, n. 1732); del Tribunale di Bolzano (8 novembre 2018, n. 1183); del Tribunale di Firenze (18 dicembre 2018, n. 3596): ma non nella sentenza del Giudice di Pace di Imola 19 ottobre 2018, n. 296 che ammette il tanto discusso cumulo proprio in ragione di quanto al punto 6) in Cass. Civ. sez. III, n. 13233/2014, come sopra riportato.

Il giudice tirolese vieta il cumulo, nonostante il suo CTU abbia precisato “Che la menomazione non incide sulla capacità lavorativa del soggetto” (danno esclusivamente biologico del 13%); e nulla dice del punto 6), ignorato pure dal giudice di Genova e da quello di Firenze.

Il giudice di Firenze così conclude: “Ciò implica che, al fine di stabilire il quantum indennitario spettante all'attore in forza della polizza infortuni azionata in questa sede, si dovrà tener conto di quanto l'istante ha già percepito dal responsabile civile, a titolo di risarcimento del danno”; e: “Su questi presupposti, l'ammontare dell'indennizzo spettante all'attore in applicazione delle condizioni di polizza ascende ad € 70.000,00, cui si deve aggiungere la somma di € 951,00 per spese mediche. Come prospettato dalla convenuta a pag. 6 delle note conclusive, l'importo risultante dalla CTU e dalle condizioni contrattuali (che, in concreto, ammonta ad € 70.951,00) va ridotto della somma pari ad € 56.500,00, che l'attore ha già percepito dalla compagnia del responsabile civile a titolo risarcitorio e che l'attore non ha contestato.

Ora, secondo l'interpretazione tecnico-giuridica che porta al divieto di cumulo, laddove il terzo responsabile risarcisce la vittima prima che questa percepisca l'indennizzo per polizza infortuni, quest'ultimo non sarà dovuto “per la semplice ragione che non vi è più alcun danno da risarcire” , e lo stesso ove il danneggiato percepisca l'indennizzo prima del risarcimento. Ma quale è il vero danno subito dalla vittima: quello calcolato secondo polizza infortuni o quello stimato secondo responsabilità civile?

Si direbbe che il giudice fiorentino riconosca il vero danno nella somma indennitaria di € 70.951.00 dovuta per polizza infortuni, posto che vi ha sottratto la somma risarcitoria per r.c. di € 56.500,00: per altro verso, se l'avesse ravvisata in questa seconda, avrebbe dovuto negare qualsiasi integrazione.

Ma in ipotesi di indennizzo dovuto, ad esempio, di un milione (a fronte di micro-permanente per effetto di massimale assicurato assai elevato); e, nello stesso sinistro, risarcimento stimato in soli € 10.000,00 secondo tabelle della r.c., come si sarebbe comportato il giudice di Firenze (o chi per esso)?

Forse che il vero danno è quello misurabile coi criteri di polizza (l'indennizzo) se la domanda proposta è in ambito contrattuale; o è quello accertabile coi criteri della r.c. se la domanda è proposta in ambito extra-contrattuale? Non si rilevano motivazioni di tal genere nella sentenza del giudice di Firenze né altrove; e per un'altra volta ci si cimenta nel portare argomentazioni medico legali, auspicando possano meritare maggior attenzione rispetto a quelle ispirate al censurato, volgare buon senso.

Sembra potersi escludere, anzitutto, che al punto 6) di Cass. n. 13233/14, il giudice, trattando di danno da perdita della capacità di lavoro coperto dall'assicuratore privato, si riferisca alla capacità lavorativa specifica delle persona. Se avesse voluto introdurre tale distinguo lo avrebbe fatto: o meglio avrebbe dovuto farlo adeguatamente motivando, posto che questi contratti assicurativi si riferiscono, senza eccezioni, alla capacità lavorativa generica; e delle ragioni tecniche (anche medico legali) per cui gli assicuratori privati abbiano fatto questa scelta già si è detto più sopra. Va da sé che anche le altre sentenze consultate (di merito e legittimità) non introducono tale distinguo: e non poteva essere diversamente, atteso che nemmeno sfiorano la regola di giudizio di cui al punto 6) della sentenza Rossetti.

Al di là della proposizione della domanda in ambito contrattuale o aquiliano, sembra allo scrivente che debba essere fugato ogni dubbio circa il “vero danno” su cui ci si è interrogati.

Vero è che sono parimenti assicurazioni-danni quella nella r.c. e quella nella polizza privata infortuni, ma, di fatto, non hanno la medesima finalità. La prima “mira” alla reintegrazione della stato patrimoniale preesistente e deve considerare ogni possibile voce di danno; la seconda prevede la liquidazione di somme correlate alle sole garanzie pattuite, mai prevede coperture per il “danno morale” e per il “danno esistenziale” e solo in via eccezionale contempla forme di indennizzo per il pregiudizio estetico (confluente nel “biologico”) proprio perché ritenuto sostanzialmente ininfluente sulla capacità lavorativa generica.

Ne deriva che la non-congruenza fra risarcimento e indennizzo è quasi la regola, a volte con discrepanze enormi come sopra evidenziato (euro diecimila vs un milione), per cui sarebbe irragionevole chiedere al giudice di stabilire quale dei due sia il “vero danno”, schierandosi dall'una o dall'altra parte.

Il “vero danno”, in conseguenza del medesimo evento lesivo della persona, è solo quello stabilito nel contesto del procedimento per r.c. che tiene conto di tutte le poste nell'obbligo di integralità del risarcimento: ben diversamente, l'indennizzo per polizza infortuni segue un percorso assai differente, in funzione delle garanzie prestate e delle somme assicurate, che a conti fatti può risultare di valore economico anche di gran lunga superiore o inferiore a quello dovuto nel primo caso.

E queste grossolane dissonanze, ad avviso dello scrivente possono trovare un accordo proprio attraverso la corretta applicazione della regola di giudizio di cui al punto 6) della sentenza Rossetti.

In conclusione

Avremo finalmente una decisione della S.C. focalizzata sul punto cruciale, preceduta da specifica motivazione in ricorso?

Se ne avverte il bisogno nell'attualità stragiudiziale, in cui primarie Società di Assicurazioni rifiutano il cumulo mostrando di ignorare i chiari aspetti medico legali di cui al punto 6) della più volte citata sentenza Rossetti.

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