Minore adottato all'estero: il difficile rapporto tra rispetto del formalismo delle procedure interne e perseguimento dell'interesse del minore

Giulio Montalcini
17 Maggio 2021

In tema di riconoscimento delle sentenze di adozione all'estero, il giudice italiano pur in assenza del requisito del soggiorno continuativo all'estero da parte della coppia, con residenza da almeno due anni, può discostarsene attribuendo primario valore all'interesse del minore coinvolto.
Massima

Pur in difetto di coincidenza tra il paese straniero in cui la coppia italiana ha risieduto per almeno due anni e quello in cui la competente autorità ha pronunciato l'adozione di un minore, il Giudice italiano può riconoscere l'adozione straniera sulla scorta di una interpretazione sistematica dell'art. 36 l. 184/1983, nel rispetto del superiore interesse del minore a mantenere lo status acquisito.

Il caso

Con istanza presentata al Tribunale dei Minorenni, una coppia di sposi italiani, che aveva ottenuto l'adozione di un minore negli Stati Uniti (Stato della Florida, Tribunale della Contea di Hillsborough), con il consenso dei genitori dello stesso, richiedeva il riconoscimento in Italia di detto provvedimento, ai sensi dell'art. 36, comma 4, l. n. 184/1983. Il Giudice adito rigettava l'istanza, sulla scorta del fatto che i genitori adottivi non soddisfacevano il requisito della residenza continuativa, per il periodo di due anni, nello stato estero che aveva pronunciato l'adozione, richiesto dalla norma citata.

La coppia proponeva reclamo dinanzi alla Corte d'Appello di Milano la quale, con una lettura estensiva della norma citata, in riforma della pronuncia di primo grado, si distaccava dall'interpretazione svolta dal giudice di prime cure, ritenuta eccessivamente “formale”, pronunciando decreto di riconoscimento dell'adozione effettuata all'estero dalla coppia. Veniva per l'effetto ordinata la trascrizione dell'adozione internazionale nei registri dello Stato Civile del Comune di Milano.

La Corte territoriale, infatti, riteneva in concreto soddisfatti i requisiti della Convenzione dell'Aja del 29 maggio 1993, ratificata in Italia, attribuendo particolare rilevanza al diritto del minore alla continuità affettiva. Richiamata giurisprudenza della Corte EDU in materia, la Corte d'appello così concludeva: «la Corte ha il dovere di tenere conto dei legami famigliari de facto».

La questione

Nel riconoscere gli effetti di una sentenza di adozione pronunciata all'estero, da un Paese firmatario della Convenzione de l'Aja del 1993 del 29 maggio 1993, il giudice italiano è sempre vincolato al rispetto del requisito di cui all'art. 36, comma 4, l. n. 184/1983 (soggiorno continuativo all'estero da parte della coppia, con residenza da almeno due anni) ovvero può discostarsene attribuendo primario valore all'interesse del minore coinvolto?

Le soluzioni giuridiche

In tema di adozione di minore pronunciata all'estero dall'Autorità giudiziaria competente di un Paese che abbia ratificato la Convenzione Aja sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale, l'art. 36, comma 4, l. 184/1983 garantisce ai genitori adottivi italiani il diritto di richiedere un provvedimento di riconoscimento nel nostro Paese dell'adozione, al competente tribunale per i minorenni, a condizione che gli stessi dimostrino di aver soggiornato continuativamente nel paese straniero dell'adozione e di avere ivi la residenza da almeno due anni.

Nel caso in esame era accaduto che, nelle more del procedimento avanti il Tribunale statunitense, i genitori adottivi, per motivi di lavoro, si fossero trasferiti insieme con il minore adottato negli Emirati Arabi, ove avevano fissato la loro residenza, rimanendovi per oltre due anni prima di fare rientro in Italia.

Negli Emirati Arabi l'adozione, in base ai precetti coranici, non è consentita, atteso che il legame di sangue con i genitori naturali non può essere rescisso. È consentito, tuttavia, ai genitori stranieri e residenti, i quali abbiano adottato all'estero un minore, intraprendere un percorso, con il sostegno di apposite ed idonee strutture all'interno dello Stato che, se superato fruttuosamente, consente il riconoscimento nel Paese dell'adozione internazionale, con la conseguente trascrizione nei registri dello Stato Civile.

I genitori adottivi si erano adoperati nel senso di seguire il percorso per loro previsto dalla legislazione dello Stato di residenza. Ciononostante, aderendo ad un'interpretazione conforme al dato letterale della normativa in materia, il Tribunale dei Minorenni, come detto, rigettava l'istanza avanzata dai due genitori. Dal punto di vista squisitamente formale per il giudice di prime cure non poteva infatti dirsi integrato l'anzidetto requisito della residenza continuativa, siccome i genitori adottivi non avevano stabilmente risieduto per il periodo di due anni continuativi nel Paese che aveva pronunciato l'adozione.

Nell'accogliere il reclamo proposto, la Corte d'Appello di Milano ha, invece, ritenuto di discostarsi dal precetto contenuto nel quarto comma dell'art. 36 della Legge sull'Adozione, proprio alla luce di un'approfondita analisi del contenuto della valutazione compiuta dall'organismo interno agli Emirati Arabi e incaricato di valutare l'idoneità dei genitori adottivi, che aveva fornito parere positivo all'adozione, giudicando gli stessi “emotivamente e mentalmente sani”, nonché “fisicamente e mentalmente capaci di prendersi cura di un minore”.

Nella lunga disamina della Corte territoriale veniva peraltro accertata la sussistenza, ai fini del riconoscimento della sentenza straniera di adozione, degli ulteriori requisiti richiesti dalla Convenzione internazionale ratificata dall'Italia e, in particolare:

a) la genuinità del consenso all'adozione espresso dalla madre, che aveva rinunciato ai suoi diritti genitoriali (così come aveva fatto il papà), dopo aver preso adeguata contezza della normativa, alla presenza di un legale che aveva dato lei adeguata lettura della stessa;

b) l'ascolto del minore, pur se menzionato tra le condizioni di validità della procedura, era stato escluso in ragione della tenera età del minore, parimenti all'attività di counseling a cui avrebbe dovuto essere sottoposto;

c)l'espresso richiamo, contenuto nella sentenza di adozione statunitense, alla Convenzione dell'Aja e, in particolare, all'art. 29, a tenore del quale «Nessun contatto può aver luogo fra i futuri genitori adottivi ed i genitori del minore o qualsiasi altra persona che ne abbia la custodia, fino a quando non sono soddisfatte le condizioni previste dall'articolo 4, lettere da a) a c), e dall'articolo 5 lettera a), salvo se l'adozione abbia luogo fra i membri della stessa famiglia o se siano osservate le condizioni fissate dall'autorità competente dello Stato d'origine».

Alla luce di tale riscontro, secondo il ragionamento della Corte, nessuna incompatibilità con l'ordine pubblico interno si appalesa nel caso di specie, dovendosi in ogni caso dare assoluta rilevanza e prevalenza al diritto alla continuità affettiva e familiare del minore coinvolto.

La continuità del rapporto esistente tra il minore e la famiglia adottiva viene dunque fatto coincidere con il miglior interesse del minore, da valutarsi preminente sul dato letterale e formale della normativa, atteso che:

1) La norma più volte citata, contenuta al quarto comma dell'art. 36, l. n. 184/1984 trova la sua ratio proprio nella necessità di tutelare i cittadini italiani residenti all'estero per lavoro, i quali trovandosi da tempo apprezzabile e stabilmente fuori dall'Italia, non sono messi nelle condizioni di seguire la procedura stabilita dalla normativa italiana per procedere all'adozione di un bambino, dovendo in tal senso attivarsi in base alle regole della paese ospitante;

2) il medesimo articolo 36 comma 4, l. n. 184/1983 non deve essere letto in chiave meramente formalistica per non incorrere nel rischio di sacrificare l'interesse stesso del minore, da ritenersi prevalente e in funzione del quale «va verificata la tenuta all'interno del sistema di una interpretazione meno restrittiva».

I giudici hanno inteso dare continuità all'indirizzo interno alla medesima Corte d'Appello meneghina, risalente ad una pronuncia del 16 maggio 2016, nella quale, a ben vedere, si era financo affermato che «Il minore che …. sia entrato nello Stato a seguito di un provvedimento straniero di adozione, debba godere , dall'ingresso, di tutti i diritti attribuiti al minore italiano in affidamento» precisando che l'interpretazione estensiva del dettato normativo in esame «è conforme ai Principi della convenzione dell'Aja» (si veda, sul punto, Astiggiano, Riconoscimento in Italia di adozione internazionale resa dal giudice di uno Stato diverso da quello di residenza della coppia, in ilFamiliarista).

Osservazioni

Come noto, l'adozione internazionale è disciplinata dalla Convenzione de L'Aja del 29 maggio 1993 e riguarda il caso di minorenni residenti in uno dei Paesi firmatari (Paese di Origine) della Convenzione, che debbano essere, ovvero siano già stati trasferiti all'estero in un altro Stato firmatario (Stato ricevente). La fattispecie è integrata dalla coesistenza di diversi requisiti tra cui: i) lo stato di adottabilità del minore pronunciato dal Paese di origine, sul presupposto che il minore versi in stato di abbandono; ii) il preventivo vaglio da parte del Paese di origine circa ulteriori ed eventuali opportunità di collocazione ed affidamento del minore all'interno del proprio territorio; iii) la verifica, da parte del Paese ospitante, che le persone, le istituzioni e le Autorità coinvolte abbiano ricevuto/offerto preventiva ed esauriente consulenza, in merito agli effetti giuridici dell'adozione; iv) il previo accertamento che il consenso prestato dalla madre all'adozione sia successivo alla nascita del figlio.

Accanto al primo dei requisiti menzionati, la situazione di abbandono e il corrispondente stato di adottabilità del minore, viene solitamente indicata dalla giurisprudenza di legittimità (Cfr. Cass. 14 aprile 2006, n. 8877) in uno stato di privazione e di assenza di cure del minore coinvolto, con caratteristiche di irreparabilità, nel senso che deve ritenersi che l'adozione costituisca l'unica “via di uscita” per il minore da una situazione di abbandono non altrimenti rimediabile.

L'adozione conforme ai requisiti summenzionati deve essere riconosciuta in ogni Paese firmatario della Convenzione e produce l'effetto contestuale del riconoscimento del rapporto di parentela del bambino con i genitori adottivi, dell'insorgere della responsabilità genitoriale di questi, nonché dello scioglimento del preesistente vincolo di parentela con i genitori di origine (a condizione, è precisato, che nello Stato contraente l'adozione produca tale effetto). Si tratta in sintesi di un'adozione formata all' estero produttiva di effetti analoghi a quelli della cd. adozione piena e legittimante, secondo la l. 184 del 1983.

Il caso in esame riguarda, invece, una speciale tipologia di “adozione internazionale” effettuata in un altro Paese firmatario della Convenzione da una coppia di cittadini italiani. L'art. 36, comma 4, l. 184/1983, sancisce che l'adozione pronunciata all'estero nei confronti di genitori, cittadini italiani, è automaticamente riconosciuta in Italia quando questa sia conforme ai precetti della Convenzione de L'Aja. L'effetto dell'automatico riconoscimento è possibile quando la coppia dei genitori adottivi abbia risieduto stabilmente nel Paese in cui viene pronunciata l'adozione, per almeno due anni.

Una volta trasferiti in Italia, la coppia di genitori italiani può fare domanda di riconoscimento al tribunale dei minorenni del luogo di residenza comune, ovvero è messa nella facoltà di decidere se seguire la normativa interna e farsi dichiarare idonei all'adozione internazionale. In difetto del requisito della residenza continuativa, i coniugi richiedenti dovrebbero richiedere al tribunale dei minorenni di ultima residenza di essere dichiarati idonei all'adozione internazionale.

Il caso di specie è singolare: i genitori avevano ottenuta la pronuncia sull'adozione negli Stati Uniti d'America, paese firmatario della Convenzione, dovendosi poi recare, per motivi di lavoro, in un altro Paese, non firmatario, gli Emirati Arabi. Il requisito della coincidenza della residenza abituale nel Paese che aveva pronunciato l'adozione, non sussisteva, tanto che il tribunale dei minorenni aveva rigettato la domanda formulata in primo grado dai genitori. Anzi, gran parte dell'istruttoria sull'idoneità genitoriale all'adozione era stata svolta invero da un organismo interno al Paese arabo, di cui non è chiarita la natura, se pubblica ovvero privata, delle cui conclusioni è stato tenuto approfonditamente conto nel decreto in esame.

La Corte territoriale milanese, investita del reclamo, ha ritenuto di discostarsi dal dato letterale contenuto nel comma 4 dell'art. 36 l. 184/1983, per una serie di ragioni specifiche, tra le quali, vale la pena soffermarsi, la ratio della norma anzidetta, ritenuta coincidere con la tutela dei genitori italiani che non possano seguire, per ragioni di lavoro ed essendo collocati all'estero, la procedura interna al nostro Paese per ottenere l'idoneità all'adozione internazionale. Sotto l'egida del primario interesse del minore, ha in ogni caso attribuito rilevanza al requisito temporale richiesto dalla norma ai fini del riconoscimento automatico della sentenza straniera di adozione (la coppia in effetti era residente all'estero da più di due anni), prescindendo dall'accertamento del requisito spaziale, ritenuto, peraltro, ininfluente, alla luce del fatto che l'adozione non poteva dirsi contraria allo spirito e ai precetti della Convenzione internazionale. La non contrarietà all'ordine pubblico delle sentenze straniere è del resto requisito dell'automatico riconoscimento delle stesse nel nostro ordinamento ai sensi dell'art. 41, l. 218/1995.

L'interpretazione offerta a proposito della ratio della norma dalla corte territoriale, benché coerente con il quadro giurisprudenziale milanese già consolidato, alla luce del principio del favor minoris, non pare del tutto scevra da dubbi. È lecito chiedersi se davvero debba ritenersi che il quarto comma dell'art. 36 della l. 183/1984 sia posto a tutela dei genitori lavoratori transfrontalieri, ovvero, piuttosto, che la sua ratio debba rintracciarsi altrove.

La contiguità temporale e spaziale tra il Tribunale dell'adozione e la famiglia richiedente sembrerebbe invero posta a presidio di principi costituzionali differenti, come la tutela della minore età e il principio del giudice naturale precostituito per legge. Sicché i due anni di residenza nel Paese di origine dell'adozione sembrano piuttosto diretti ad assicurare che il procedimento adottivo si svolga, secondo regole procedurali di assoluta trasparenza e dinanzi ad un giudice territorialmente prossimo ai richiedenti, che assuma il rango di giudice naturale precostituito per legge.

È senz'altro vero, come osserva la Corte, che il rischio di un'interpretazione eccessivamente “formalistica” della norma potrebbe condurre a vanificare il diritto del minore alla continuità affettiva con la famiglia adottiva, ma è altresì opportuno evitare situazioni assimilabili al cd. turismo delle adozioni, ove i genitori siano messi nella facoltà di scegliere la normativa di maggiore favore, potendo derogare a quell'interna.

È noto che, anche a livello transazionale, il best interest of the child abbia assunto rango primario e costituisca il “faro” della normativa in materia minorile, ivi inclusa, come quella dell'adozione. A ben vedere, tuttavia, nel caso di specie l'indagine giudiziale sulla conformità dell'adozione alle regole della Convenzione dell'Aja, svolta dalla Corte, avrebbe, a mio avviso, dovuto concentrarsi, in via principale, sul Paese di origine dell'adozione, che non sono certo gli Emirati Arabi (Paese a cui peraltro non si applica la Convenzione), ma piuttosto gli Stati Uniti d'America, tenuto conto che “la destinazione finale” della famiglia era quella di fare rientro in Italia e trasferirvisi, in via definitiva, con il minore. Ciò per maggiore coerenza al diritto pattizio o convenzionale, che in ogni caso richiede l'adempimento di particolari formalismi, comunque rivolti al perseguimento del best interest of the child (cfr. art. 1 della Convenzione), ossia di un principio cui devono ispirarsi tutte le decisioni giudiziali.

Riferimenti

Astiggiano F., Riconoscimento in Italia di adozione internazionale resa dal giudice di uno Stato diverso da quello di residenza della coppia, in ilFamiliarista;

Astiggiano F., Adozione internazionale, in ilFamiliarista.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.