La c.d. espulsione Bossi-Fini ex art. 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998 e le altre misure alternative alla detenzione

Leonardo Degl'Innocenti
21 Maggio 2021

Con la sentenza in commento la Suprema corte affronta il tema dei rapporti tra espulsione ex art. 16, comma 5,d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i. (istituto che la norma qualifica espressamente come sanzione alternativa) e le misure alternative disciplinate dalla l. n. 354/1975, vale a dire affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà, alle quali deve aggiungersi l'affidamento in prova in casi particolari regolato dall'art. 94 d.P.R. n. 309/1990 e s.m.i., misura alla quale si applica, in virtù di quanto dispone il comma 6 del citato art. 94, la disciplina prevista dalla l. n.354/1975...
La massima

L'espulsione dal territorio dello Stato di cui all'art. 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i. (c.d. espulsione Bossi-Fini) è preclusiva nel merito di istanze di applicazione di misure alternative alla detenzione.

Il caso

Il Magistrato di sorveglianza competente per territorio con decreto emesso in data 4.11.2019 aveva disposto nei confronti del condannato detenuto in carcere in espiazione della pena oggetto del provvedimento di cumulo emesso dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano, l'espulsione dal territorio dello Stato ai sensi dell'art 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i. (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).

L'interessato aveva impugnato detto provvedimento ai sensi dell'art 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998 e il Tribunale di sorveglianza adito con ordinanza emessa in data 21.01.2020 aveva rigettato l'opposizione.

Per effetto di tale decisione il decreto di espulsione era divenuto esecutivo (trovando applicazione la regola generale di cui all'art. 666, comma 7, c.p.p. richiamato, con riguardo al procedimento di sorveglianza, dall'art. 678, comma 1, c.p.p.).

Il Tribunale di sorveglianza competente per territorio con ordinanza emessa in data 9.06.2020 ha rigettato la domanda di misura alternativa avanzata dal condannato anche in ragione del fatto che nei suoi confronti era stato emesso il provvedimento di espulsione di cui al citato art. 16.

Il detenuto ha impugnato l'ordinanza deducendo violazione di legge e vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza assegnato valenza ostativa all'applicazione di una misura alternativa alla detenzione alla adozione del provvedimento di espulsione.

La Corte con la sentenza in commento ha rigettato il ricorso, confermando la propria giurisprudenza in materia di rapporti tra espulsione quale sanzione alternativa alla detenzione e le misure alternative previste dalla l. n. 354/1975 e s.m.i. (c.d. Ordinamento penitenziario).

L'espulsione come sanzione alternativa alla detenzione

Con la sentenza in commento la Suprema corte affronta il tema dei rapporti tra espulsione ex art. 16, comma 5,d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i. (istituto che la norma qualifica espressamente come sanzione alternativa) e le misure alternative disciplinate dalla l. n. 354/1975, vale a dire affidamento in prova, detenzione domiciliare e semilibertà, alle quali deve aggiungersi l'affidamento in prova in casi particolari regolato dall'art. 94 d.P.R. n. 309/1990 e s.m.i. (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), misura alla quale si applica, in virtù di quanto dispone il comma 6 del citato art. 94, la disciplina prevista dalla l. n.354/1975.

L'espulsione prevista dalla norma, appartenente alla categoria dell'espulsione giudiziale in quanto ordinata dal Giudice e non dall'Autorità amministrativa, deve essere tenuta distinta dall'espulsione quale sanzione sostituiva e dall'espulsione a titolo di misura di sicurezza.

La prima è prevista dallo stesso art. 16, comma 1, d.lgs. n. 286/1998 in forza del quale il giudice quando ritiene di irrogare nei confronti dello straniero, che si trovi in taluna delle condizioni indicate nell'art. 13, comma 2,d.lgs. n. 286/1998, una pena detentiva non superiore a due anni, e non ricorrono le condizioni per concedere la sospensione condizionale, può sostituire la pena con l'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.

La seconda (espulsione quale misura di sicurezza) presuppone l'accertamento della pericolosità sociale prima da parte del Giudice della cognizione poi, ai fini della concreta eseguibilità, da parte del Magistrato di sorveglianza, è prevista:

a) dall'art. 235 c.p. nei confronti dello straniero condannato alla pena della reclusione per un tempo superiore a due anni;

b) dall'art. 86 d.P.R n. 309/1990 e s.m.i. nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati previsti dallo stesso d.P.R.

La Corte di Cassazione (Cass. pen.,sez. I, 13 gennaio 2021, n.12611) ha affermato che l'espulsione prevista dal citato art. 86 integra una ipotesi di applicazione obbligatoria di tale misura di sicurezza, che, ovviamente presuppone la verifica da parte del giudice della pericolosità dell'imputato”, con la conseguenza che la sentenza che abbia omesso di applicare tale misura di sicurezza è impugnabile con ricorso per cassazione (Cass. pen., Sez. Un., 26 settembre 2019, n.21368), mezzo di impugnazione altrimenti non esperibile (vale a dire nei casi in cui l'applicazione dell'espulsione non è obbligatoria “in relazione al titolo di reato oggetto dell'imputazione”) in forza di quanto dispone l'art. 448, comma 2-bis, c.p.p.

c) dall'art. 15 d.lgs. n. 286/1998 nei confronti dello straniero condannato per uno dei reati indicati negli artt. 380 e 381 c.p.

Ciò premesso, occorre rammentare che l'espulsione dello straniero non avente cittadinanza di uno degli Stati membri dell'Unione europea ha natura sostanzialmente amministrativa e costituisce una misura alternativa “atipica”, finalizzata a ridurre la popolazione carceraria, della quale è obbligatoria l'adozione in presenza delle condizioni stabilite dalla legge (Cass. pen.,sez. I, 18 giugno 2020, n.23750; Cass. pen., sez. I, 12 dicembre 2019, n.6817; Cass. pen.,sez. I, 25 maggio 2018, n.50871).

L'applicazione dell'espulsione, diversamente da quanto accade per le misure alternative vere e proprie, prescinde dalla valutazione della pericolosità del condannato e delle sue prospettive di reinserimento sociale; come statuito dalla Corte di cassazione (Cass. pen., sez. I, 9 aprile 2019), tale particolare natura giuridica comporta che l'espulsione sia esclusa dall'ambito di operatività del divieto triennale di concessione di benefici penitenziari di cui all'art. 58-quater, comma 2, ord.penit. Nel caso di specie il Tribunale di sorveglianza aveva disposto l'espulsione nei confronti del condannato che si trovava detenuto a seguito della revoca dell'affidamento in prova in casi particolari.

La Corte ha affermato che, da un lato, l'espulsione non costituisce un vero e proprio beneficio penitenziario mentre, dall'altro, la disciplina dettata dall'art 58-quater ord.penit. non può essere applicata al di fuori delle ipotesi da essa espressamente previste, tra le quali non figura l'espulsione.

L'applicabilità dell'espulsione presuppone che lo straniero versi nelle situazioni di cui all'art. 13, comma 2,d.lgs. n. 286/1998, che consentono di disporne l'espulsione amministrativa “alla quale si dovrebbe comunque e certamente dare corso al termine dell'esecuzione della pena detentiva, cosicché, nella sostanza, viene solo ad essere anticipato un provvedimento di cui già sussistono le condizioni” (Corte cost. on. 226/2004).

Deve trattarsi, quindi, di persona compiutamente identificata, irregolare, in quanto non munita di un titolo di soggiorno; inoltre occorre che lo straniero si trovi in esecuzione di pena, anche residua, non superiore a due anni imputabile a reati diversi da quelli previsti dall'art. 12, commi 1, 3, 3-bis e 3-ter dello stesso testo unico immigrazione ovvero dall'art. 407, comma 2, lett. a), c.p.p. fatta eccezione per quelli consumati o tentati di cui agli artt. 628, comma 3, e 629, comma 2, c.p.

In caso di concorso di reati o di unificazione di pene concorrenti, l'espulsione è disposta anche quando sia stata espiata la parte di pena relativa alla condanna per reati che non la consentano.

Occorre, inoltre, che non sussistano le ragioni umanitarie indicate dall'art. 19 d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i. che integrano altrettante condizioni ostative all'espulsione.

Tale norma è stata di recente modificata prima dal dl. n.113/2018, convertito con modificazioni nella l. n. 132/2018, poi dal dl. n.130/2020 conv. con mod. in l. n. 173/2020.

I divieti di espulsione

Nella giurisprudenza di legittimità è andato emergendo l'orientamento proclive ad affermare il carattere non tassativo delle predette condizioni ostative. Si è così affermato che l'espulsione non può essere disposta:

- in caso di stabile convivenza more-uxorio (Cass. pen., sez. I, 27 giugno 2016, n.44182);

- in caso di concessione allo straniero della c.d. “protezione sussidiaria” a fronte di minaccia grave alla vita derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale (Cass. pen., sez. I, 4 aprile 2018, n.41949); nel caso in cui sussista il fondato pericolo che lo straniero sia sottoposto alla pena di morte o a trattamenti disumani o degradanti (Cass. pen.,sez. I, 18 maggio 2017, n. 49242, relativa ad un caso di espulsione quale misura di sicurezza). La protezione sussidiaria costituisce, unitamente allo status di rifugiato, una delle forme nelle quali si attua, ai sensi del d.lgs. n.251/2007, emanato in attuazione della direttiva 2004/83/CE, una delle forme di protezione internazionale.

Giusto il disposto dell'art. 2, lett. e), del predetto decreto delegato, per rifugiato s'intende lo straniero che non intende fare rientro nello Stato di cui è cittadino per il fondato timore di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o di appartenenza ad un determinato gruppo sociale. Si tratta di ipotesi previste anche dall'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 286/1998 ai fini dell'operatività del divieto di espulsione dal territorio dello Stato. Mette conto segnalare che il dl. n. 130/2020, sopra richiamato, ha introdotto tra i casi divieto di espulsione anche il pericolo che lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di orientamento sessuale e di identità di genere.

Il riconoscimento dello status di rifugiato comporta la concessione del permesso di soggiorno con validità quinquennale (art. 23, comma 1, d.lgs. n. 251/2007).

L'art. 2, lett. g), d.lgs. n. 251/2007, stabilisce che può chiedere la protezione sussidiaria, il riconoscimento della quale si traduce nella concessione di un permesso di soggiorno avente durata quinquennale (art. 23, comma 2,d.lgs. n. 251/2007 come modificato dall'art. 1, comma 1, lett. p),d.lgs. n. 18/2014), eventualmente rinnovabile, lo straniero che non possiede i requisiti per ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, ma nei confronti del quale sussistono fondati motivi di ritenere che, in caso di ritorno nel paese di origine, sarebbe esposto al rischio effettivo di subire un grave danno.

A tal fine l'art. 14 del decreto delegato considera grave danno:

a) la condanna a morte o all'esecuzione della pena di morte;

b) la sottoposizione a tortura o ad altra forma di trattamento disumano o degradante (ipotesi prevista dall'art 19, comma 1.1., d.lgs. n. 286/1998, introdotto dalla l. n.110/2017, poi modificato dal dl. n. 130/2020).

c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

Mette conto segnalare che in forza di quanto dispone l'art. 20 d.lgs. n.251/2007, lo straniero ammesso a beneficiare della protezione sussidiaria può essere espulso:

a) quando sussistono motivi per ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato;

b) nel caso in cui rappresenta un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, quando è stato condannato con sentenza definitiva per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni.

Resta ferma, in ogni caso, l'operatività dei divieti di espulsione previsti dall'art. 19, comma 1, d.lgs. n.286/1998, nonché la conformità agli obblighi internazionali ratificati dall'Italia.

In particolare si è affermato che il Giudice di sorveglianza non può limitarsi alla verifica di una delle condizioni impeditive all'espulsione di cui al citato art. 19, “dovendo invece operare - acquisendo, ove occorra, le necessarie informazioni - un giudizio di contemperamento tra le esigenze poste a fondamento del provvedimento e quelle di salvaguardia delle relazioni familiari, con particolare riguardo alle necessità di cura dei figli minori conviventi, ancorché di nazionalità non italiana: invero, trattandosi di una forma di espulsione comunque amministrativa, la stessa è soggetta alle medesime garanzie, in particolare quelle previste dall'art. 13, comma 2-bis, del citato d.lgs., che accompagnano l'omologa fattispecie espulsiva (Cass. pen.,sez. I, 10 dicembre 2020, n.5066; Cass. pen., sez. I, 7 novembre 2019, n.48950).

L'art. 13, comma 2-bis, introdotto dal d.lgs. n.5/2007, dispone che nell'adottare il provvedimento di espulsione nei confronti dello straniero che ha esercitato il diritto al ricongiungimento familiare, ovvero del familiare ricongiunto, “si tiene anche conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il Paese di origine”.

L'asserito carattere non tassativo dei divieti di espulsione previsti dall'art. 19 d.lgs. n. 286/1998 apre dunque la possibilità alla interpretazione estensiva o integrazione analogica delle fattispecie delineate dalla citata norma alla luce di principi costituzionali o sovranazionali.

Con riguardo a quest'ultimo aspetto, che concerne l'adempimento degli obblighi internazionali dello Stato, garantito dagli artt. 11 e 117 Cost., occorre tener presente la Direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione, e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

Tale Direttiva è stata recepita nell'ordinamento interno dal d.lgs. n.30/2007.

Il decreto si applica al cittadino di uno Stato dell'Unione europea e ai suoi familiari “che accompagnino o raggiungano il cittadino medesimo” (art 3, comma 1, d.lgs. n. 30/2007).

Ai sensi dell'art. 2, comma 1, lett.b), d.lgs. n. 30/2007, per familiare deve intendersi:

a) il coniuge;

b) la persona che abbia contratto con il cittadino di uno Stato membro una unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, qualora la legislazione dello Stato membro ospitante equipari l'unione registrata al matrimonio”;

c) i discendenti diretti di età inferiore a 21 anni e quelli del coniuge o della persona convivente

d) gli ascendenti diretti a carico e quelli del coniuge o della persona convivente.

L'art. 20 d.lgs. n. 30/2007 prevede che il diritto di ingresso e di soggiorno del cittadino di uno Stato dell'Unione (e di un suo familiare nei termini sopra indicati) possa essere limitato, con apposito provvedimento, solo per motivi di sicurezza dello Stato, per motivi imperativi di pubblica sicurezza o per altri motivi di ordine pubblico o di sicurezza pubblica.

La norma (comma 4) aggiunge che i provvedimenti di allontanamento “sono adottati nel rispetto del principio di proporzionalità” e non possono essere motivati “da ragioni estranee ai comportamenti individuali dell'interessato che rappresentino una minaccia concreta, effettiva e sufficientemente grave all'ordine pubblico o alla pubblica sicurezza” con la precisazione che “l'esistenza di condanne penali non giustifica di per sé l'adozione di tali provvedimenti”.

Il citato art. 20 stabilisce inoltre (comma 5) che nell'adottare il provvedimento di allontanamento occorre tener conto “della durata del soggiorno in Italia dell'interessato, della sua età, della sua situazione familiare e economica, del suo stato di salute, della sua integrazione sociale e culturale nel territorio dello nazionale e dell'importanza dei suoi legami con il Paese di origine”.

In giurisprudenza si è affermato che tali requisiti e garanzie devono operare anche con riguardo all'espulsione giudiziale di cui all'art 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998.

Si è infatti statuito che ai fini dell'espulsione di un condannato extracomunitario che vanti legami familiari con un cittadino dell'Unione europea regolarmente soggiornante in Italia, il Giudice di sorveglianza “non può limitarsi a verificare che non ricorra una condizione ostativa prevista dall'art 19 del citato decreto, ma è tenuto ad accertare in via incidentale, con valutazione discrezionale assoggettata all'ordinario controllo di legittimità, la sussistenza delle rigide condizioni alle quali l'art. 20 d.lgs. n.30/2007 di attuazione della Direttiva 2004/38/Convenzione Europea del 29 aprile 2004, subordina la misura dell'allontanamento del cittadino europeo o del familiare con lui convivente” (Cass. pen., sez. I, 17 ottobre 2019, n.915; nel caso di specie l'espulsione era stata disposta nei confronti di uno straniero extracomunitario, ma coniugato, e convivente, con una donna di nazionalità bulgara, stabilmente residente in Italia; nello stesso senso Cass. pen.,sez. I, 14 luglio 2020, n.23399).

Quanto alla convivenza more-uxorio, la Corte di cassazione (Cass. pen., sez. I, 11 marzo 2021,n.13052) ha puntualizzato che essa consiste in una situazione di fatto, da accertare nella sede di merito, caratterizzata da stabile condivisione delle condizioni di vita e di interessi fra il condannato straniero e il soggetto che sia cittadino italiano o di altro Paese dell'Unione Europea regolarmente presente nel territorio dello Stato”; deve pertanto ritenersi irrilevante, ai fini dell'operatività del divieto di espulsione, un mero legame sentimentale.

In senso contrario si è affermato (Cass. pen., sez. I, 29 settembre 2015, n. 48684; Cass. pen.,sez. I, 5 dicembre 2019, n. 136) che ai fini dell'espulsione non rilevano i legami familiari diversi da quelli espressamente contemplati dal citato art. 19: dalla natura amministrativa della misura non può discendere l'automatica applicabilità dei parametri di valutazione dettati da altre norme disciplinanti l'immigrazione a fini differenti, quali, ad esempio, dall'art. 13, comma 2-bis, d.lgs. n. 286/1998, trattandosi di norma che riguarda l'espulsione amministrativa di coloro che si trovano nelle situazioni indicate dalla norma (comma 2) e non già di soggetti stranieri condannati e sottoposti ad esecuzione, destinatari dei provvedimenti specificamente regolati dall'art. 16, comma 5, cit..

Tale norma, come lucidamente puntualizzato dalla Suprema Corte, contiene “la regolamentazione specifica dell'istituto e la relativa disciplina costituisce essa stessa un contemperamento tra esigenze contrapposte – quella dello Stato all'allontanamento del condannato straniero sulla base di norme di ordine pubblico e quella dello straniero a trattenersi per conservare i legami familiari e personali – tanto da aver previsto per esigenze umanitarie una serie di esenzioni dalla soggezione all'espulsione che, fatte salve praticabili vie di interpretazione estensiva integratrice, conservano, pur sempre, un carattere tendenzialmente eccezionale, come tale insuscettibile di interpretazione analogica, e ciò al fine di scongiurare facili scappatoie che renderebbero il regime di regolamentazione dell'immigrazione facilmente aggirabile e che costituiscono un ragionevole bilanciamento tra gli interessi in giuoco, frutto di valutazioni discrezionali del legislatore” (Cass. pen., sez. I, 5 dicembre 2019, n. 136).

Occorre tuttavia ricordare che in forza di quanto prevede il nuovo testo dell'art. 19, comma 1.1., a seguito delle modifiche introdotte dal dl. n. 130/2020, non può essere disposta l'espulsione dello straniero quando sussistono fondati motivi per ritenere che l'allontanamento del territorio nazionale comporti la violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare.

A tal fine occorre tener conto della “natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale, nonché dell'esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese di origine”.

In ogni caso il pericolo di violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare non può integrare una causa ostativa all'espulsione quando tale misura sia necessaria per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”, fermo restando il rispetto della Convezione di Ginevra sullo status di rifugiato.

Sarebbe pertanto errato considerare il “diritto all'unità del nucleo familiare” come una condizione di per sé ostativa all'espulsione.

Sul punto, cfr. anche Cass. pen., sez. I, 11 marzo 2021, n. 13054, che nel rigettare il ricorso proposto avverso l'ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Torino (che, a sua volta, aveva rigettato l'appello proposto dal condannato avverso l'ordinanza con la quale il Magistrato di sorveglianza di Cuneo aveva dichiarato eseguibile la misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato), ha osservato: “non ritiene il Collegio che sul punto siano fondate le censure mosse in ricorso quanto all'omessa considerazione del diritto all'unità del nucleo familiare, che il Tribunale ha preso in esame in modo specifico, ma ritenuto non costituire una remora efficiente in grado di neutralizzare i motivi che possono indurre Ali a violare nuovamente la legge penale e comunque non tali da realizzare una delle condizioni ostative all'espulsione di cui all'art. 19 d.lgs. n. 286 del 1998, posto che il condannato è convivente con genitori e fratelli non cittadini italiani(il Tribunale aveva valorizzato, oltre alla gravità dei reati commessi, “la radicata dedizione al traffico anche internazionale di droga in quantità ingenti”, la mancata concessione di benefici penitenziari, la presenza di un contesto familiare poco rassicurante per la presenza di padre e fratelli gravati da plurimi precedenti di polizia, l'assenza di occupazione e di fonti di reddito, la negazione della condizione di tossicodipendenza, pur affermata durante la detenzione, e poi negata, appunto, una volta riacquistata la libertà).

Il dl. n. 113/2018 conv. con mod. in l. n.132/2018 aveva esteso il divieto di espulsione allo straniero che versa in condizioni di salute di particolare gravità (art. 19, comma 2, lett. d-bis,d.lgs. n.286/1998).

Il dl. n. 130/2020 ha riformulato la predetta norma che, nella formulazione attuale, vieta l'espulsione dello straniero che versa in gravi condizioni psicofisiche o derivanti da gravi patologie.

A prescindere dal fatto che, al di là delle finalità ideologiche che hanno caratterizzato l'intervento legislativo del 2020, non sembra agevole comprendere in che cosa consista la differenza tra la vecchia e la nuova formulazione del comma 2, lett. d-bis), occorre tener presente che in argomento si è affermato che la generica allegazione della sottoposizione del condannato a un programma terapeutico finalizzato al superamento della tossicodipendenza non consente di configurare, in caso di rimpatrio, l'esposizione a gravi e irrimediabili pregiudizio per la propria salute in quanto l'interessato ha l'onere di dimostrare che ,nel Paese di provenienza, “non potrebbe giovarsi di analoghi interventi di recupero sociale e che, dunque, l'interruzione del percorso riabilitativo in atto comporterebbe, definitivamente, un vulnus assoluto delle sue legittime aspettative di cura e riabilitazione” (Cass. pen., sez. I, 9 aprile 2019).

La soluzione della Corte

Quanto ai rapporti tra espulsione ex art. 16 e misure alternative, la sentenza in commento, valorizzando il carattere obbligatorio dell'espulsione e la finalità di ridurre la popolazione carceraria, ha affermato che una volta disposta l'espulsione si determina una condizione ostativa “all'introduzione o alla prosecuzione del procedimento inteso alla ammissione ad una delle altre misure alternative alla detenzione (cfr. anche negli stessi termini: Cass. pen., Sez. I, 25 settembre 2020, n.36082; Cass. pen.,sez. I, 14 dicembre 2018, n.15887; Cass. pen.,sez. I, 7 maggio 2008, n.20949).

Tale principio è stato esteso anche alla liberazione anticipata (Cass. pen., sez. I, 8 gennaio 2014, n.4752), che, come noto, non appartiene in senso stretto, al genus delle misure alternative. La Corte ha affermato che con l'applicazione dell'espulsione “la pena irrogata dal giudice viene meno essendo riversata nella sanzione (amministrativa) dell'espulsione, sicché perde giuridicamente la sua autonomia penale. Il nuovo punto di riferimento per il condannato diviene infatti il decreto espulsivo e il relativo divieto di reingresso” in Italia, che se violato, comporta non solo la reviviscenza della pena detentiva sostitutiva, ma anche, l'integrazione dell'autonomo reato di cui all'art. 13, comma 13-bis e ter, d.lgs. n. 286/1998 e s.m.i..

La Corte ha inoltre evidenziato che nel caso di specie la concessione della liberazione anticipata “verrebbe a costituire, in concreto, in capo al richiedente, la tesaurizzazione di una sorta di credito di pena che consentirebbe al condannato, che ha ottenuto la sostituzione della pena detentiva con l'espulsione ai sensi dell'art 16, comma 5, d.lgs. n.286/1998, e che dovesse rientrare illegittimamente” in Italia prima del termine previsto per l'estinzione della pena “di poterlo invocare al fine scontarlo sulla pena espianda. Ciò si pone in contrasto col principio della deterrenza della norma e la puntuale disciplina dell'art. 657 c.p.p., la quale prevede, per la sua concreta applicazione, il requisito temporale dell'anteriorità della consumazione del reato oggetto della condanna da espiare (e il rientro in Italia entro il periodo di interdizione costituirebbe pur sempre una violazione successiva al bonus di pena e l'avveramento della condizione sospensiva utile ai fini della revoca della sanzione sostitutiva ai sensi dell'art 16, comma 4, d.lgs n. 286/1998). Il principio di infungibilità per altro trova la sua giustificazione, a un tempo logica e giuridica, nella fondamentale esigenza sistematica di non creare una sorta di impunità per future condotte illecite che avrebbe il solo effetto di integrare un inammissibile incentivo alla realizzazione di altri comportamenti criminosi con evidente e palese pregiudizio delle ragioni connesse alla sicurezza collettiva”.

Viceversa, qualora l'ammissione ad una misura alternativa preceda l'adozione del provvedimento di espulsione, quest'ultimo non potrà esser emesso dovendosi riconoscere preminenza alla risocializzazione del condannato (Cass. pen., sez. I, 25 settembre 2019, n.43855, relativa al caso di uno straniero ammesso ad espiare la pena in regine di detenzione domiciliare). Ed invero le misure alternative sono concedibili anche agli stranieri privi del permesso di soggiorno.

Occorre tuttavia segnalare che Cass. pen., sez. I, 13 ottobre 2005, n.39781, ha affermato che “l'ammissione alla misura alternativa della semilibertà non è ostativa all'emissione del decreto di espulsione… dato che tale misura comporta comunque la permanenza del condannato in un istituto penitenziario, sebbene limitatamente a determinati orari”.

La semilibertà costituisce infatti non tanto una vera e propria misura alternativa alla detenzione, quanto piuttosto una modalità di espiazione della pena detentiva connotata da un significativo affievolimento della componente afflittiva della carcerazione.

Lo stesso principio (non ostatività all'espulsione dal territorio dello Stato) è stato affermato con riguardo all'ammissione al lavoro esterno ex art. 21 ord. penit. ed i permessi premio ex art. 30-ter ord.penit. (Cass. pen., sez. I, 16 febbraio 2016, n. 44143), né la pendenza del ricorso per cassazione avverso il provvedimento di diniego della richiesta di concessione di una misura alternativa (Cass. pen., sez. I, 15 maggio 2019, n. 33153).

Per concludere mette conto segnalare Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2020, n. 23750, secondo cui “il provvedimento di espulsione dello straniero dal territorio nazionale, adottato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. 16, comma 5, d.lgs. n. 286/1998 quale misura alternativa alla pena detentiva inferiore a due anni, se emesso nel ricorso delle condizioni legittimanti e successivamente non annullato in sede di opposizione o non revocato dall'autorità che lo ha emesso, è valido ed efficace e può essere portato ad esecuzione anche se nel frattempo l'espiazione della pena detentiva sia terminata”. Ed invero in “assenza di esplicite previsioni normative che depongano in tal senso, non può rinvenirsi una causa sopravvenuta di invalidità o di inefficacia dell'espulsione, già legittimamente disposta, in conseguenza della successiva conclusione dell'esecuzione della pena, che può rilevare soltanto sotto il profilo della inapplicabilità del comma 4 dell'art 16, nel senso di impedire il ripristino dell'espiazione della pena residua, nonostante il rientro anticipato ed illegale.

Sul punto occorre rammentare che in caso di espulsione giudiziale Bossi-Fini il divieto di reingresso nel territorio dello Stato ha durata decennale (Cass. pen., sez. I, 18 giugno 2020, n. 23750), e che la violazione di tale divieto integra il reato di cui all'art. 13, comma 13-bis d.lgs. n. 286 del 1998.

Il predetto reato non resta escluso in ragione del ripristino dell'esecuzione della pena, ma concorre con essa (Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2020, n. 9921).

Come puntualizzato da Cass. pen., sez. I, 20 ottobre 2011, n.8181, “il reato di reingresso non autorizzato nel territorio dello Stato dello straniero espulso ha natura permanente, perché è diretto ad impedire l'illegale rientro e l'illecita permanenza del territorio dello Stato, e dunque la continuità della condotta antigiuridica protratta nel tempo”; ne consegue, continua la Corte, che in caso di modificazioni legislative in pejus, la disciplina applicabile non è quella vigente al “momento di inizio della condotta che, perdurando, legittimamente ricade sotto il regime meno favorevole della normativa sopravvenuta”.

Viceversa, la decorrenza del termine decennale comporta, giusto il disposto dell'art. 16, comma 8, d.lgs. n. 286/1998, l'estinzione del reato sanzionato con la pena detentiva che lo straniero stava espiando quando è stato espulso.

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