Patrocinio a spese dello Stato in materia civile

09 Giugno 2021

L'istituto del patrocinio a spese dello Stato, in ambito civilistico, è stato per anni destinatario di applicazioni quantitativamente molto circoscritte. Più recentemente, però, la crisi economica da un lato e la maggiore consapevolezza delle potenzialità dell'istituto dall'altro, hanno portato ad una sua maggiore diffusione.
Inquadramento

L'istituto del patrocinio a spese dello Stato, in ambito civilistico, è stato per anni destinatario di applicazioni quantitativamente molto circoscritte e spesso riguardanti il solo settore del diritto di famiglia. Per diverso tempo, quindi, la giurisprudenza e la dottrina si sono occupate della materia in modo marginale; e per lumeggiare tale limitato interesse basti pensare al fatto che, nella stessa pratica quotidiana, si continua spesso impropriamente a parlare di «gratuito patrocinio», così come lo definiva il r.d. n. 3282/1923 imperniato sull'attività onorifica degli avvocati a favore dei non abbienti, mentre oggi, nel vigore del d.P.R. 115/2002, in tutta evidenza la prestazione legale non è gratuita, ma pagata dallo Stato.

Più recentemente, però, la crisi economica da un lato e la maggiore consapevolezza delle potenzialità dell'istituto dall'altro, hanno portato ad una sua maggiore diffusione, al punto che oggi qualunque giudice civile deve ormai quotidianamente rapportarsi con le problematiche applicative del patrocinio a spese dello Stato. Ed anzi, la preoccupazione del Legislatore è ora quella di evitarne l'abuso, tanto che, con l'introduzione dell'art. 130-bis d.P.R. 115/2002 da parte del d.l. 113/2018 conv. in l. 132/2018, ricalcando quanto già previsto dall'articolo 106 in materia penale, si è previsto che pure in materia civile «quando l'impugnazione, anche incidentale, è dichiarata inammissibile, al difensore non è liquidato alcun compenso. Non possono essere altresì liquidate le spese sostenute per le consulenze tecniche di parte che, all'atto del conferimento dell'incarico, apparivano irrilevanti o superflue ai fini della prova».

Da un punto di vista dell'inquadramento teorico e dogmatico, non ci sono particolari criticità nella ricostruzione dell'istituto, tenuto anche conto che la normativa di riferimento è circoscritta a poche norme, e cioè agli

artt.

74-145 d.P.R. 115/2002. E' quindi forse più utile, rispetto ad un approccio generale e didascalico, un approccio casistico, evidenziando singoli temi oggetto dell'analisi giurisprudenziale.

Nelle pagine che seguono, con gli ovvi limiti connessi alla natura del presente studio, si tenterà quindi di indicare quali sono state le risposte della giurisprudenza di legittimità ai principali problemi applicativi sorti in materia, ed un cenno sarà effettuato anche ad alcune pronunce della Corte costituzionale.

Quale è il termine ultimo per chiedere il compenso?

Ai sensi dell'art. 83, comma 3-bis, d.P.R. 115/2002, introdotto dall'art. 1, comma 783, l. 208/2015, «il decreto di pagamento è emesso dal giudice contestualmente alla pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la relativa richiesta».

La giurisprudenza di merito, a seguito della novella del 2015, si è quindi interrogata sulla sorte del diritto al compenso per il difensore della parte ammessa che non abbia presentato istanza nel corso del processo e non sia stato dunque liquidato contestualmente alla definizione del giudizio.

Tre sono le soluzioni teoricamente possibili: per una prima tesi, vi sarebbe decadenza dal diritto al compenso; per una seconda tesi, occorrerebbe successivamente richiedere il compenso con gli strumenti ordinari, id est procedimento monitorio, citazione o sommario, entro il termine di prescrizione; per una terza tesi, dovrebbe invece essere lo stesso giudice a liquidare la parcella, sul presupposto che il nuovo comma 3-bis introduce una possibilità aggiuntiva e non sostitutiva di quella precedente di richiedere la liquidazione dopo la definizione della controversia.

E' quest'ultima tesi che merita di essere condivisa.

Infatti, la norma in parola non ha introdotto un onere per il difensore della parte ammessa al patrocinio erariale di depositare la richiesta di liquidazione entro la chiusura della fase, a pena di inammissibilità o di decadenza. Tali conseguenze non sono infatti espressamente previste, risultando quindi palese la differenza rispetto all'istanza di liquidazione del compenso per l'ausiliario del giudice, per la quale l'art. 71 dello stesso d.P.R. dispone che vada presentata «a pena di decadenza» entro il termine di cento giorni dal compimento delle operazioni.

Né può operarsi una applicazione analogica di quest'ultima previsione, atteso che la stessa, prevedendo una ipotesi di decadenza, va interpretata restrittivamente in ragione dell'art. 14 disp. prel. c.c. e stante il pacifico principio della tassatività delle decadenze.

Pertanto, in mancanza dell'espressa menzione di conseguenze processuali anche per l'istanza di liquidazione del compenso dell'avvocato, deve ritenersi che il legislatore abbia semplicemente inteso raccomandare la liquidazione del compenso, al fine di accelerare le procedure di erogazione a favore dei difensori delle parti ammesse al patrocinio.

Oltre che le evidenziate ragioni strettamente giuridiche e di natura processualcivilistica, militano poi a favore della soluzione prescelta anche ragioni di natura pratica, di natura sistematica e di natura logica.

Infatti, dal punto di vista pratico, in alcune situazioni può non sapersi se il provvedimento definirà o meno il giudizio, ad esempio nel caso di decisione su questioni preliminari, ciò che rende non sempre agevole sapere se è necessario o meno presentare la domanda di liquidazione.

Dal punto di vista sistematico, l'unico interesse tutelato dalla norma non può che essere quello del difensore ad una possibile maggiore celerità nella liquidazione, ciò che rende incongrua la sanzione della decadenza nel caso di mancato esercizio della possibilità di ottenere una tale tempestiva liquidazione.

Da un punto di vista logico, poi, non pare revocabile in dubbio che sia più coerente con il sistema che la liquidazione del compenso sia posta in essere dal giudice che ha trattato e deciso la controversia nella quale il patrocinio è stato esercitato, e non già da un giudice diverso e distinto, e ciò anche al fine di meglio calibrare tale liquidazione in relazione alla qualità e quantità dell'attività svolta.

Infine, la diversa ricostruzione, per cui la liquidazione dovrebbe necessariamente essere fatta prima della decisione della controversia, comporterebbe la sostanziale trasformazione del decreto in un atto endo-processuale, mentre difetta qualsivoglia dato letterale che supporti una siffatta mutazione e la collocazione di un simile evento sul piano logico-sistematico si porrebbe in un contrasto con le altre disposizioni che regolano l'istituto del patrocinio a spese dello Stato. Infatti, la norma in esame esige sempre un atto distinto dal provvedimento che definisce il giudizio («il decreto di liquidazione è emesso contestualmente al provvedimento che chiude la fase cui si riferisce la relativa richiesta»); e non è stata apportata alcuna modifica delle altre disposizioni che riguardano il decreto di liquidazione (artt. 83, comma 2, 84-170, 116 e 118), dalle quali si evince che detto provvedimento conserva autonoma esistenza e non risente della disciplina tipica degli atti realmente endo-processuali.

La sopra esposta ricostruzione circa il fatto che il difensore possa chiedere la liquidazione della parcella al giudice del procedimento anche dopo la definizione dello stesso, già seguita da una parte della giurisprudenza di merito, è stata successivamente convalidata prima dalla Circolare Ministeriale 10/1/2018 e poi dalla Suprema Corte con le pronunce di Cass. civ., sez. II, 9 settembre 2019, n. 22448 e Cass. civ., sez. VI-IV, 20 novembre 2020, n. 26507, e va quindi oggi considerata un approdo interpretativo condiviso.

In evidenza

In tema di patrocinio a spese dello Stato, l'art. 83, comma 3-bis, del d.P.R. 115/2002, non prevede alcuna decadenza a carico del difensore della parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato che abbia depositato l'istanza di liquidazione del compenso dopo la pronuncia del provvedimento che chiude la fase cui la richiesta stessa inerisce, né impedisce al giudice di potersi pronunziare su di essa dopo aver pronunciato definitivamente sul merito.

Come vengono quantificate le spese in caso di soccombenza della parte non ammessa?

Una questione sulla quale si è a lungo interrogata la giurisprudenza è quella di capire se il soccombente deve rifondere allo Stato ex art. 133 d.P.R. 115/2002 le spese conteggiate in modo pieno o conteggiate in modo dimidiato e secondo i parametri degli artt. 130 d.P.R. 115/2002 e 9 D.m. 140/2012, poiché entrambe le soluzioni sono opinabili.

Infatti: se la rifusione è piena, lo Stato, nel caso concreto, lucra sui compensi, perché paga l'avvocato ammesso al patrocinio con dimidiazione, ma laddove vinca la causa ottiene gli onorari pieni dalla controparte; se peraltro la rifusione è dimidiata, il soccombente che ha un contenzioso con una persona ammessa al patrocinio, paga la metà di quello che pagherebbe nel caso di contenzioso con persona non ammessa.

Ciò posto, dapprima la Cassazione penale ha statuito che la liquidazione a favore dello Stato deve coincidere con quella che si liquida al difensore ammesso al patrocinio, poiché non ci può essere arricchimento dello Stato a scapito di una parte specifica; e poiché le spese di lite hanno mera funzione reintegratoria, non sanzionatoria, e quindi non si pone il profilo del vantaggio dell'abbiente di avere un contenzioso con un non abbiente (Cass. pen., sez. VI, 8 novembre 2011, n. 46537 e Cass. pen., sez. IV, 17 marzo 2015, n. 20044).

Successivamente, la Corte Costituzionale ha avallato tale tesi, per cui la somma «rifusa in favore dello Stato deve coincidere con quella che lo Stato liquida al difensore del soggetto non abbiente» (Corte cost., ord., 28 novembre 2012, n. 270).

Anche la Cassazione civile ha inizialmente aderito alla indicata conclusione, statuendo che «qualora nell'ambito di un giudizio civile risulti vittoriosa la parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato, il giudice è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato, ex art. 133 d.P.R. 115/2002, e quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente, ai sensi degli artt. 82 e 103 del medesimo decreto, al fine di evitare che l'eventuale divario possa costituire occasione di ingiusto profitto dello Stato a discapito del soccombente ovvero, al contrario, di danno erariale» (Cass. civ., sez. VI-II, 16 settembre 2016, n. 18167 e Cass. civ., sez. VI-II, 19 settembre, n. 21611).

Successivamente, però, in consapevole contrasto con i propri precedenti, la Corte ha ribaltato l'orientamento, affermando che «non si vede perché nel processo civile la parte che risulti soccombente nei confronti della parte non abbiente debba essere avvantaggiata, con evidente violazione del principio di uguaglianza, rispetto alle altre parti soccombenti, mentre d'altro canto la circostanza che nella singola causa lo Stato possa incassare più di quanto liquidato al singolo difensore compensa le situazioni in cui lo Stato non recupera quanto versa in favore dei difensori e contribuisce al funzionamento del sistema del gratuito patrocinio nella sua globalità» (Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2018, n. 22017).

Senza citare il precedente difforme, in inconsapevole contrasto con il recentissimo precedente, un mese dopo la stessa Cassazione è ritornata al pregresso orientamento, argomentando che «deve esservi identità delle spese fra quella liquidata al difensore della parte ammessa al gratuito patrocinio e quella posta a carico della parte soccombente e dovuta da quest'ultima allo Stato. Tanto all'evidente fine di impedire, con una artificiosa ed ingiustificata differenziazione delle somme, una indebita locupletazione da parte dello Stato» (Cass. civ., Sez. VI-II, 4 febbraio 2018, n. 28538).

Tuttavia, con le sentenze di Cass. civ., sez. IV, 26 marzo 2019, n. 8387, Cass. civ., sez. VI-IV, 3 maggio 2019, n. 11590 e Cass. civ., sez. II, 3 gennaio 2020, n. 19, la Suprema Corte ha nuovamente invertito la rotta, tornando a ribadire che «la circostanza che nella singola causa lo Stato possa incassare più di quanto liquidato al singolo difensore compensa le situazioni in cui lo Stato non recupera quanto versa in favore dei difensori e contribuisce al funzionamento del sistema del gratuito patrocinio nella sua globalità».

Il contrasto quindi continua, ed auspicabilmente dovrà essere composto dalle Sezioni Unite.

QUANTIFICAZIONE DELLE SPESE IN CASO DI SOCCOMBENZA DELLA PARTE NON AMMESSA AL BENEFICIO: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

La liquidazione a favore dello Stato ed a carico della parte abbiente soccombente, deve coincidere con quella, dimidiata, posta a favore del vittorioso difensore ammesso al patrocinio.

Cass. civ., sez. VI-II,16 settembre 2016, n. 18167; Cass civ., sez. VI-II, 19 settembre 2017, n. 21611; Cass. civ., sez. VI-II, 4 ottobre 2018, n. 28538.

La liquidazione a favore dello Stato ed a carico della parte abbiente soccombente, deve essere piena e non dimidiata come quella a favore del vittorioso difensore ammesso al patrocinio.

Cass. civ., sez. II, 11 settembre 2018, n. 22017; Cass. civ., Sez. IV, 26 marzo 2019, n. 8387, Cass. civ., sez. VI-IV, 3 maggio 2019, n. 11590; Cass. civ., sez. II, 3 gennaio 2020, n. 19.

La parte appellante ammessa può essere condannata al raddoppio del contributo?

Solo recentemente la giurisprudenza ha composto il contrasto in ordine alla necessità o meno di condannare la parte ammessa al beneficio, al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l'impugnazione, ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater,d.P.R. n. 115/2002, in caso di rigetto, inammissibilità o improcedibilità del gravame.

Una posizione giurisprudenziale aveva infatti offerto una risposta negativa al quesito (Cass. civ., sez. V., 11 settembre 2019, n. 22646; Cass. civ., sez. I, 30 ottobre 2018, n. 27699; Cass. civ., sez. IV, 5 giugno 2017, n. 13935; Cass. civ., sez. VI-V, 22 marzo 2017, n. 7368).

La Sezioni Unite della Suprema Corte, chiamate a comporre il contrasto, hanno invece optato per la risposta positiva, già seguita da Cass. civ., sez. I., 30 ottobre 2019, n. 27867 e Cass. civ., sez. I., 5 aprile 2019, n. 9660.

Confermando detta ricostruzione, si è così statuito che il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato ha natura di obbligazione tributaria ex lege, volta a ristorare l'amministrazione della Giustizia dei costi sopportati per la trattazione della controversia; che il provvedimento giurisdizionale che dà atto di tale obbligo ha natura meramente ricognitiva di una situazione oggettiva, ed il giudice è tenuto a renderlo anche nel caso la parte soccombente sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato; che tuttavia, spetta poi all'amministrazione giudiziaria controllare la debenza in concreto del contributo, verificando la situazione soggettiva della sussistenza di cause che precludono l'esperimento l'azione di recupero (Cass. civ., sez. un., 20 febbraio 2020, n. 4315).

Può il difensore della parte ammessa domandare la distrazione delle spese?

Una questione delicata sulla quale si è interrogata la giurisprudenza è quella della compatibilità del beneficio del patrocinio a spese dello Stato con la domanda del difensore di distrazione delle spese a suo favore.

La maggioritaria giurisprudenza, inizialmente formatasi nella sezione lavoro (cfr. Cass. civ., sez. IV, 3 ottobre 1978, n. 4379), ha per anni argomentato che il sistema esclude ogni rapporto fra il difensore della parte meno abbiente assistita e la parte soccombente non assistita, e pertanto è incompatibile con la distrazione delle spese, la quale crea in via eccezionale un rapporto obbligatorio tra il difensore della parte vittoriosa e la parte soccombente, in forza del quale il reddito sorge direttamente a favore del primo nei confronti della seconda: consegue che l'eventuale richiesta di distrazione delle spese giudiziali ex art. 93 c.p.c., pone in essere un'implicita rinuncia al patrocinio a spese dello Stato (tra le ultime, cfr. Cass. civ., sez. VI-II, 6 marzo 2018, n. 5232).

Tuttavia, un diverso indirizzo ha in contrario avviso evidenziato che la rinuncia al patrocinio può provenire solo dalla parte, e dev'essere certa ed univoca, con la conseguenza che non può essere desunta dalla richiesta del difensore di distrazione (Cass. civ., sez. IV, 21 novembre 2019, n. 30418).

Chiamate a comporre il contrasto, le Sezioni Unite hanno aderito a quest'ultima impostazione, argomentando che la revoca dall'ammissione è possibile solo nelle tassative ipotesi di cui all'art. 136 d.P.R. 115/2002; che il difensore non può disporre del diritto soggettivo della parte in ordine al patrocinio, tanto più che esso è finalizzato a garantire l'effettività del diritto di difesa ex art. 24 Cost. e garantisce ulteriori benefici oltre al pagamento del compenso legale, quali le spese per gli ausiliari del giudice e la prenotazione a debito del contributo unificato; che quindi non è possibile desumere la rinuncia all'ammissione dal comportamento del difensore che ha presentato istanza di distrazione delle spese (Cass. civ., sez. un., 26 marzo 2021, n. 8562).

In evidenza

La richiesta di distrazione delle spese non comporta la rinuncia implicita al patrocinio a spese dello Stato, dovendo la rinuncia provenire, in modo certo ed univoco, dal titolare del beneficio e non dal suo difensore, che è privo di qualsiasi potere dispositivo in proposito, anche considerando che l'art. 136 del d.P.R. 115/2002 prevede specifiche ipotesi di revoca del beneficio, diverse dalla richiesta ex art. 93 c.p.c.

Quali sono le altre più rilevanti pronunce della Corte di cassazione in materia?

Con una posizione sempre ribadita senza mai alcuna esitazione, la giurisprudenza ha chiarito che l'ammissione al patrocinio comporta che siano a carico dello Stato solo le spese difensive, non anche quelle che il beneficiario sia eventualmente condannato a rifondere alle altre parti del processo, perché gli onorari e le spese di cui all'art. 131 d.P.R. 115/2002 «sono solo quelli dovuti al difensore della parte assistita dal beneficio, che lo Stato si impegna ad anticipare» (ex pluribus, cfr. Cass. civ., sez. VI-I, 13 novembre /2020, n. 25653; Cass. civ., sez. VI-III, 31 marzo 2017, n. 8388; Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2013, n. 25295).

A seguito della riformulazione dell'articolo 170 da parte del d.lgs. 150/2011, è stato abrogato il termine di venti giorni previsto per l'opposizione, e quindi si è posto il problema di capire quale fosse il nuovo termine per opporre il decreto di liquidazione, ovvero per opporre i provvedimenti di diniego o revoca della concessione del beneficio, in assenza di una chiara indicazione normativa: Cass. civ., sez. II, 21 febbraio 2017, n. 4423, confermando quanto già indicato da Corte cost., 12 maggio 2016, n. 106 e Corte cost., 10 novembre 2016, n. 234, ha ritenuto che il termine sia di trenta giorni, così come previsto dall'articolo 702 quater c.p.c. per il rito sommario, le cui disposizioni regolano ora il giudizio di opposizione.

Nel caso di opposizione al decreto di liquidazione del compenso, parte necessaria è il Ministero della Giustizia, non già l'Agenzia delle Entrate (giurisprudenza consolidata a seguito di Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2012, n. 8516; tra le ultime, cfr. Cass. civ., sez. VI-II, 6 marzo 2018 n. 5314).

Sempre nel giudizio di opposizione, il giudice non può rigettare l'istanza dell'avvocato per la mancata documentazione dell'iscrizione nell'elenco dei difensori ex art. 81 d.P.R. 115/2002, e ciò per la natura pubblica dell'elenco, l'inesistenza di un obbligo del difensore di indicare tale iscrizione ed il potere del giudice di acquisire le relativa informazione (Cass. civ., sez. VI-II, 7 maggio 2015, n. 9264).

Laddove il provvedimento di revoca dell'ammissione sia erroneamente adottato con sentenza e non con separato decreto così come previsto dall'art. 136 d.P.R. 115/2002, l'opposizione ex art. 170 resta l'esclusivo mezzo di impugnazione del provvedimento stesso (Cass. civ., sez. I, 12 agosto 2020, n. 16968; Cass. civ., Sez. I, 3 giugno 2020, n. 10487; Cass. civ., sez. I, 11 dicembre 2018, n. 32028; Cass. civ., sez. III, 8 febbraio 2018, n. 3028).

La disciplina sul patrocinio a spese dello Stato è applicabile in ogni procedimento civile, pure di volontaria giurisdizione e anche quando l'assistenza tecnica del difensore non è prevista dalla legge come obbligatoria (Cass. civ., sez. II, 4 giugno 2019, n. 15175).

Quali sono le principali pronunce della Corte Costituzionale in materia?

La Corte costituzionale è stata più volte investista relativamente a dubbi di legittimità sulle norme di cui al d.P.R. 115/2002.

E' stato così chiarito che la dimidiazione del compenso ex artt. 82 e 130 non è costituzionalmente illegittima (cfr. Corte cost., ord. 28/11/2012, n. 270), e ciò è stato ribadito anche dalla Suprema Corte con la pronuncia di Cass., Sez. II, 21/10/2015, n. 21461, nonché con la pronuncia di Cass., Sez. II,23/4/2013, n. 9808, quest'ultima in riferimento ai parametri posti dalla CEDU. Ed ora il Legislatore, introducendo l'articolo 106 bis, ha previsto una riduzione, di un terzo pur se non di un mezzo, anche con riferimento ai compensi per il difensore penale.

La Corte ha poi ritenuto non costituzionalmente illegittimo il fatto che, in base al combinato disposto dagli articoli 76 e 92, il numero dei famigliari conviventi contribuisce ad alzare la soglia del reddito rilevante ai fini della concessione del beneficio, solo per il processo penale: l'introduzione di soglie reddituali differenziate a seconda del tipo di processo non è infatti irragionevole, potendosi privilegiare le esigenze di tutela connesse alla giurisdizione penale; e come più volte affermato anche in altri settori del diritto, l'intrinseca diversità dei modelli del processo civile e penale non consente significative comparazioni fra le discipline ad essi applicabili (Corte cost., 19/11/2015, n. 237).

Invece, rimeditando le proprie precedenti pronunce, la Corte ha dichiarato incostituzionale l'articolo 131, comma 3, nella parte in cui prevede che onorari ed indennità del CTU e dell'ausiliario del giudice, nel caso di ammissione al patrocinio, sono prenotati a debito, e quindi pagati solo in caso di realizzazione del credito erariale, e non direttamente anticipati dall'Erario (Corte cost., 15/6/2019, n. 217).

(Fonte: Il Processo Civile)

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