28 Luglio 2021

La condanna alla pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa ha dato vita a un forte dibattito dell'opinione pubblica sull'opportunità di mantenere ancora in vita la sanzione detentiva in materia di libertà di espressione giornalistica, soprattutto alla luce di una serie ripetuta di sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno evidenziato come la condanna dei giornalisti a pena detentiva si riveli quanto meno una sanzione sproporzionata, anche se...

La condanna alla pena detentiva per i reati di diffamazione a mezzo stampa ha dato vita a un forte dibattito dell'opinione pubblica sull'opportunità di mantenere ancora in vita la sanzione detentiva in materia di libertà di espressione giornalistica, soprattutto alla luce di una serie ripetuta di sentenze della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo che hanno evidenziato come la condanna dei giornalisti a pena detentiva si riveli quanto meno una sanzione sproporzionata, anche se, in casi eccezionali, la sanzione detentiva può essere giustificata dalla condotta lesiva di altri diritti fondamentali (Corte Europea dei Diritti dell'Uomo sentenza 27 marzo 1996, Goodwin c/Regno Unito; sentenza 06 dicembre 2007 Katrami c/Grecia; sentenza 24 settembre 2013 Belpietro c/Italia; sentenza 08 ottobre 2019 Ricci c/Italia; sentenza 07 marzo 2019 Sallusti c/Italia).

Nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, in ossequio ai principi enunciati dall'art. 10 della Convenzioni EDU la libertà di espressione riveste un ruolo centrale nel sistema della salvaguardia dei diritti dell'uomo.

L'esigenza di garantire un'informazione libera che non subisca condizionamenti, con conseguenze negative sulla collettività, che ha il diritto di ricevere informazioni e opinioni, aveva spinto il nostro legislatore ad affrontare il tema e a rivedere il sistema sanzionatorio soprattutto per quanto riguarda la diffamazione commessa con il mezzo della stampa (v. F. VIGANÒ, Sulle motivazioni della Cassazione sul caso Sallusti, in Diritto penale contemporaneo, 24 ottobre 2012).

Nell'ultima legislatura infatti sono state avanzate una serie di proposte di legge che hanno cercato di fornire un'adeguata risposta all'esigenza da tutti avvertita di riformare il sistema sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa, proponendo, in alcuni casi, di eliminare la sanzione detentiva per questo reato, oppure avanzando proposte particolarmente interessanti quale, ad esempio, la causa di non punibilità del reato di diffamazione a mezzo stampa a seguito di pubblicazione tempestiva e con il giusto rilievo della rettifica (Disegno di legge. Atti Senato 1119, XVII Legislatura. Modifiche alla Legge 08 febbraio 1948, n. 47; Disegno di legge n. 812 XVIII. Modifiche alla Legge 08 febbraio 1948, n. 47).

Le proposte di riforma però non sono andate avanti e si sono tutte arenate tanto da indurre la Corte Costituzionale a sollecitare il legislatore a un intervento di riforma del sistema sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa.

Con ordinanza del 9 giugno 2020, depositata in cancelleria il 26 giugno 2020, la Corte Costituzionale, nel rinviare la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale (art. 13, l. 8 febbraio 1948, n. 47 e art. 595, terzo comma c.p.), sollevate dal Tribunale di Salerno e di Bari, sollecitava il legislatore ad affrontare il tema della sanzione detentiva per i reati commessi con il mezzo della stampa.

In particolare la Corte segnalava come soprattutto l'art. 13 della legge sulla stampa, che punisce con la sanzione della reclusione da uno a sei anni la diffamazione commessa a mezzo stampa, mediante l'attribuzione di un fatto determinato, si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 21 della Costituzione, in ragione del carattere manifestamente irragionevole e totalmente sproporzionato della previsione della pena detentiva rispetto all'importanza della libertà di manifestazione del pensiero, salvo i casi eccezionali, quali la manifestazioni di discorsi di odio o di istigazione alla violenza, per i quali la stessa Corte EDU riconosce legittima tale pena.

La spinta a rivedere il sistema sanzionatorio del reato di diffamazione a mezzo stampa nasce e si sviluppa nell'ambito della Corte Europea dei diritti dell'Uomo a partire dalla sentenza della Corte del 17 dicembre 2004, Cumpana e Mazare c/Romania. In questa decisione la Corte EDU aveva esaminato il ricorso di due giornalisti condannati per diffamazione, in quanto autori di un articolo in cui accusavano il giudice di essere coinvolto in fatti di corruzione.

La Corte osserva che, nonostante le gravi accuse rivolte al magistrato fossero prive di adeguati riscontri fattuali, purtuttavia la condanna nei confronti dei giornalisti ad una pena di sette mesi di reclusione non sospesa, rappresentava un'interferenza sproporzionata con il diritto dei giornalisti alla libertà di espressione, tutelata dall'art. 10 CEDU.

A questa sentenza sono seguite tutta una serie di sentenze della Corte EDU che hanno confermato questo orientamento (v. Sentenza 27 marzo 1996, Goodwin c/Regno Unito; sentenza 06 dicembre 2007 Katrami c/Grecia; sentenza 24 settembre 2013 Belpietro c/Italia; sentenza 08 ottobre 2019 Ricci c/Italia; sentenza 07 marzo 2019 Sallusti c/Italia).

La libertà di manifestazione del pensiero riconosciuta dall'art. 21 della Costituzione, rappresenta un diritto fondamentale riconosciuto, prima che dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo, dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 11/1968 che assegna alla libertà di manifestazione del pensiero il ruolo di “pietra angolare” dell'ordine democratico.

È chiaro che avuto riguardo al ruolo la libertà di manifestazione del pensiero, che costituisce un cardine della democrazia, nel confronto con la tutela della reputazione individuale, si viene a trovare in una posizione di preminenza.

Ed è per questo che la sanzione della reclusione si rivela, oggi, inadeguata e al tempo stesso sproporzionata nei confronti di giornalisti che abbiano leso l'altrui reputazione.

Questo compito che avrebbe dovuto assumere e svolgere il legislatore, su cui incombe la responsabilità di individuare le strategie sanzionatorie al fine di evitare da un lato ogni indebita intimidazione dell'attività giornalistica, e dall'altro, di assicurare un'adeguata tutela della reputazione individuale, non è stato portato avanti.

Alla scadenza del termine di rinvio all'udienza del 22 giugno 2021, la Corte Costituzionale, di fronte all'inerzia del legislatore, è intervenuta dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 13 della legge sulla stampa.

La Corte, pur affermando che la sanzione detentiva non possa sempre ritenersi costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, purtuttavia la pena prevista dall'art. 13 della l. 47/1948 porta ad esiti incompatibili con l'esigenza di tutela della libertà di manifestazione del pensiero.

Infatti, secondo la Corte, la funzione dell'art. 13 della legge sulla stampa è solo quella di inasprire il trattamento sanzionatorio in termini incompatibili con l'art. 21 della Costituzione e con l'art. 10 della Legge CEDU, così da giustificarne la dichiarazione di illegittimità incostituzionale.

Viene invece respinta l'eccezione di illegittimità costituzionale dell'art. 595 terzo comma c.p., che punisce con la pena della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore ad euro 516 l'offesa arrecata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità.

In questo caso, secondo la Corte, la previsione, soltanto in via alternativa della pena detentiva prevista dalla norma, non si pone in contrasto con la manifestazione della libertà di pensiero tutelata dagli artt. 21 della Costituzione e 10 della CEDU.

Infatti, la lesione del bene della reputazione compiuta attraverso la stampa o attraverso altri mezzi di pubblicità, cui si riferisce l'art. 595 terzo comma c.p., può ben incidere gravemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale e politica delle vittime.

Del resto, l'applicazione di una pena detentiva nei casi di diffamazione commessa a mezzo stampa o di altri mezzi di pubblicità, può essere giustificata da quei casi in cui la diffamazione si caratterizzi per la sua eccezionale gravità.

La stessa Corte di Strasburgo ritiene che ricorrano casi eccezionali nei casi di discorsi d'odio e di istigazione alla violenza che possono integrare contenuti di carattere diffamatorio (si veda Corte EDU, Grande camera, sentenza 17 dicembre 2004, Cumpn e Mazre contro Romania, paragrafo 115; sentenza 05 novembre 2020, Balaskas contro Grecia, paragrafo 61; sentenza 11 febbraio 2020, Atamanchuk contro Russia, paragrafo 67; sentenza 07 marzo 2019, Sallusti contro Italia, paragrafo 59; sentenza 24 settembre 2013, Belpietro contro Italia, paragrafo 53; sentenza 06 dicembre 2007, Katrami contro Grecia, paragrafo 39).

La Corte si preoccupa quindi di fornire il criterio di eccezionale gravità, tale da giustificare l'applicazione della sanzione detentiva, quando ad esempio la diffamazione consiste in campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzati dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della oggettiva e dimostrabile falsità degli addebiti stessi.

In questi casi chi esercita la funzione giornalistica certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all'opposto, crea un pericolo per la democrazia, combattendo l'avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali.

Fuori da queste ipotesi che caratterizzano i casi di eccezionale gravità, il giudice dovrà limitarsi all'applicazione della multa, graduata secondo la gravità del fatto.

L'indicazione fornita dalla Corte Costituzionale potrebbe interessare direttamente la struttura del reato di diffamazione a mezzo stampa, soprattutto per quanto riguarda l'elemento soggettivo. Sembra che la Corte abbia inteso rafforzare il profilo soggettivo di questo reato, che viene ad incidere direttamente sull'applicazione della pena nel senso che la pena detentiva sarà giustificabile solo in presenza di un vero e proprio dolo intenzionale da parte dell'autore della diffamazione.

Il richiamo fatto dalla Corte alla campagna di disinformazione condotta attraverso la stampa, caratterizzata da addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, nella consapevolezza da parte degli autori della oggettiva falsità delle notizie, fornisce gli indicatori della diffamazione punibile con pena detentiva.

Solo nei casi in cui la notizia si traduca in una vera e propria “macchina del fango”, propalata con l'intenzione di colpire la reputazione di determinati soggetti, si potrà giustificare l'applicazione della pena detentiva prevista dall'art. 595 terzo comma c.p., tutt'oggi in vigore.

Se da un lato il dolo del reato di diffamazione a mezzo stampa consiste – secondo il costante orientamento giurisprudenziale – nel dolo generico, cioè nella coscienza e volontà del contenuto diffamatorio della comunicazione, l'applicazione della pena detentiva richiede, secondo il dettato della Corte Costituzionale, un dolo per così dire rafforzato, che travalica i confini del dolo generico, per trasformarsi in dolo intenzionale.

Ciò del resto corrisponde ai canoni dettati dall'art. 133 c.p. che fa riferimento, nella determinazione che il giudice deve fare della gravità del reato, e quindi della pena da infliggere, anche “all'intensità del dolo”.

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