Inutilizzabilità delle intercettazioni disposte in procedimento diverso: osservazioni a margine della recente ordinanza nel processo c.d. “Palamara bis”

30 Agosto 2021

I divieti di utilizzazione ed il concetto di inutilizzabilità appaiono identificativi dell'uso processuale del mezzo di prova, sicché devono essere riferiti al dato probatorio disciplinato dagli artt. 187 e seguenti c.p.p., ma non al corpo del reato...
Massima

Dall'ordinanza in commento sono ricavabili le due seguenti massime:

1) i divieti di utilizzazione ed il concetto di inutilizzabilità appaiono identificativi dell'uso processuale del mezzo di prova, sicché devono essere riferiti al dato probatorio disciplinato dagli artt. 187 e seguenti c.p.p., ma non al corpo del reato. Da ciò consegue che le registrazioni su supporto informatico delle conversazioni intercettate ovvero la relativa trascrizione del dato dichiarativo o comunicativo - costituenti corpo del reato di rivelazione del segreto d'ufficio, caratterizzato dal carattere dichiarativo della condotta - sono utilizzabili, quand'anche le intercettazioni siano state disposte in procedimento diverso;

2) i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per l'accertamento di un reato, in relazione al quale la captazione era stata autorizzata ab origine, non possono essere utilizzati né nello stesso procedimento, né in procedimento diverso - connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p. - qualora per il reato emerso successivamente difettino i presupposti di ammissibilità stabiliti dall'art. 266 c.p.p. con riguardo ai limiti edittali e non sia previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. La sanzione dell'inutilizzabilità non colpisce, però,né le fonti di prova dichiarative, nella parte in cui le risposte dei dichiaranti siano state sollecitate dalla contestazione delle intercettazioni inutilizzabili - trattandosi di autonomi mezzi di prova legittimamente utilizzabili per la ricostruzione del fatto contestato - né gli ulteriori atti di indagine che riportino il contenuto delle intercettazioni inutilizzabili, i quali, in sede di udienza preliminare, possono essere usate ai fini della valutazione della richiesta di rinvio a giudizio. Né i predetti verbali e atti, se fanno riferimento ad intercettazioni inutilizzabili, possono essere considerati nulli ai sensi dell'art. 125, comma 3, c.p.p., atteso che detta sanzione colpisce tassativamente le sentenze e le ordinanze prive di motivazione, nonché i decreti dell'autorità giudiziaria che difettino di motivazione, quando quest'ultima sia prevista dalla legge.

Il caso

Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Perugia, competente a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio nella vicenda giudiziaria di interesse mediatico e nota alla cronaca come il procedimento c.d. “Palamara bis”, ha sollecitato le parti a formulare nel corso della discussione in udienza preliminare le questioni processuali attinenti alle intercettazioni.

Pur muovendo dal presupposto - peraltro avvalorato dalla giurisprudenza di legittimità - che non incombe sul giudice per l'udienza preliminare l'onere di «decidere anticipatamente, rispetto alla trattazione del merito, le questioni riguardanti la utilizzabilità degli atti processuali, neppure al fine di consentire all'imputato di valutare l'opportunità di accedere al rito abbreviato, nella piena conoscenza delle prove utilizzabili, in quanto nessun obbligo in tal senso è contemplato dalle disposizioni processuali» (in questi termini Cass., Sez. III, 29 settembre 2014, n. 40209, in CED n. 260423), il predetto Gup, anche per ragioni di economia processuale, ha ritenuto opportuno decidere sulle questioni preliminari de quibus ai fini della valutazione della richiesta di rinvio a giudizio.

La questione

Le questioni su cui il Gup ha preso posizione, ai fini della valutazione della richiesta di rinvio a giudizio, concernono sia le eccezioni di inutilizzabilità delle intercettazioni in un diverso procedimento, sia la conseguente eccezione di inutilizzabilità derivata o di nullità, ai sensi del comma 3 dell'art. 125 c.p.p., delle fonti di prova dichiarative e degli ulteriori atti di indagine che si basino o riportino i contenuti delle intercettazioni inutilizzabili.

Le soluzioni giuridiche

Con l'ordinanza in esame il Gup ha anzitutto confermato il pacifico orientamento della suprema Corte, secondo cui «la conversazione o la comunicazione intercettata costituisce corpo del reato unitamente al supporto che la contiene, in quanto tale utilizzabile nel processo penale, solo allorché essa integri ed esaurisca la condotta criminosa» (in questi esatti termini Cass., Sez. U., 23 luglio 2014, n. 32697, in Cass. Pen., 2014, 12, 4096, seguita da Cass.,Sez. III, 20 settembre 2016, n. 38822, in CED n.267802).

Sulla scia di questo assunto il Giudice dell'udienza “filtro” ha quindi dichiarato la piena utilizzabilità, ai fini della valutazione della richiesta di rinvio a giudizio, dell'intercettazione con cui il dichiarante ha rivelato il segreto d'ufficio, nonché disposto l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento, ai sensi dell'art. 431, lett. h) c.p.p., della registrazione su supporto informatico che contiene l'elemento dichiarativo della condotta di cui agli artt. 110 e 326 c.p.; le stesse, in quanto costituenti corpo del reato, sono sottratte al divieto di utilizzazione in diverso procedimento di cui all'art. 270 c.p.p. ed alle altre ipotesi di inutilizzabilità previste dalla legge. I divieti di utilizzazione ed il concetto di inutilizzabilità - ha sottolineato il Giudice - appaiono infatti identificativi dell'uso processuale del mezzo di prova, sicché devono essere riferiti al dato probatorio disciplinato dagli artt. 187 e seguenti c.p.p., ma non al corpo del reato, che quand'anche fosse costituito dalla documentazione di intercettazioni inutilizzabili ai sensi dell'art. 271, commi 1, 1 bis e 2, c.p.p. sarebbe sottratto alla distruzione, secondo quanto espressamente previsto dal comma 3 della norma testé citata.

Il Gup del Tribunale di Perugia ha invece considerato inutilizzabili, ai fini della valutazione della richiesta di rinvio a giudizio, i risultati delle intercettazioni disposte per tutte le ipotesi di reato di cui agli artt. 323, 326, comma 1, e 615 ter, comma 2, c.p. Ciò in quanto - eccettuate le conversazioni che costituiscono corpo del reato - i predetti delitti non rientrano nei limiti di ammissibilità delle intercettazioni delineati dall'art. 266 c.p.p. col criterio quantitativo, legato al limite massimo di pena stabilito dalla legge, o col criterio qualitativo, che si sostanzia nel riferimento a specifiche figure criminose individuate dalla stessa norma. Ed invero, il Gup ha condiviso i passaggi fondamentali della nota sentenza a Sezioni Unite Cavallo che, tratteggiando i confini del divieto di utilizzabilità disposto dall'art. 270, comma 1, c.p.p., ha offerto un'esegesi costituzionalmente orientata della nozione di “procedimento diverso” ed escluso da detta nozione unicamente le ipotesi di connessione di cui all'art. 12 c.p.p. (Cass., Sez. U., 2 gennaio 2020, n. 51, in questa rivista, 24 marzo 2020).

L'ordinanza in commento ha altresì precisato che i risultati delle intercettazioni disposte per i reati di abuso d'ufficio, di rivelazione ed utilizzazione di segreti d'ufficio e di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, acquisiti al procedimento penale a seguito di riunione di altro procedimento, devono in ogni caso essere considerati inutilizzabili.

La mancanza del presupposto di ammissibilità di cui all'art. 266 c.p.p. renderebbe comunque affetti da inutilizzabilità patologica, ma relativa e parziale (perché limitata, nel caso di specie, alle sole contestazioni di cui agli artt. 323, 326, comma 1, e 615 ter, comma 2, c.p.), i risultati delle intercettazioni disposte per i predetti reati sia qualora il procedimento si reputasse “medesimo”, sia qualora si ritenesse “diverso”. In quest'ultimo caso, infatti, non potrebbe che giungersi alla stessa conclusione, in considerazione del fatto che per i delitti sopra richiamati non è neppure previsto l'arresto obbligatorio in flagranza. In entrambi i casi - ha concluso il Gup - le risultanze dell'attività di captazione non potrebbero essere utilizzati «come elementi di prova ai fini della sostenibilità dell'Accusa e quindi, per quanto qui interessa, di un eventuale rinvio a giudizio».

L'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, però, non si propaga alle fonti di prova dichiarative (sommarie informazioni, interrogatori e dichiarazioni spontanee) nella parte in cui le risposte dei dichiaranti siano state sollecitate dalla contestazione di alcune intercettazioni poi dichiarate inutilizzabili, costituendo le predette autonomi mezzi di prova per la ricostruzione del fatto contestato e ben potendo il risultato probatorio inficiato dalla sanzione di inutilizzabilità delle intercettazioni essere ottenuto con altro mezzo di prova previsto dall'ordinamento (di questo avviso anche Cass., Sez. VI, 13 gennaio 2020, n. 1007, in CED n. 277586 e Cass., Sez. V, 25 marzo 2015, n. 12697, in CED n. 263031).

Detto assunto muove dalla considerazione che il principio sancito dall'art. 185 c.p.p. - secondo cui la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi, che dipendono da quello dichiarato nullo - «non trova applicazione in materia di inutilizzabilità, riguardando quest'ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite» (di questo avviso anche Cass., Sez. V, 25 marzo 2015, n. 12697, cit. e Cass., Sez. II, 2 dicembre 2011, n. 44877, in CED n. 251361). Il Giudicante ha richiamato in merito anche la pronuncia del Giudice delle leggi che ha avvallato detto orientamento giurisprudenziale, ritenendo che non possa trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall'art. 185, comma 1, c.p.p. e ciò in quanto «derivando il divieto probatorio e la conseguente “sanzione” della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi “estensione” di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa» (Corte Cost., 3.10.2019, n. 219, in Giur. Cost., 2019, 5, 2581, e, nello stesso senso Cass., Sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 4119, in CED n. 278196; Cass., Sez. V, 29 ottobre 2019, n. 44114, in CED n. 277432 e Cass., Sez. VI, 4febbraio 2019, n. 5457, in CED n. 277432).

Analoga sorte - ha proseguito il Gup nel provvedimento de quo - è riservata agli altri atti di indagine ed alle informative che riportano il contenuto delle intercettazioni inutilizzabili, le quali, pur non potendo essere poste a fondamento della decisione, possono comunque essere valorizzate come fonti della notizia di reato o semplici spunti per nuove e diverse investigazioni. Detto assunto trova avvallo nella giurisprudenza della suprema Corte, secondo cui, in ragione dell'autonomia di ciascun decreto autorizzativo - che può ricevere impulso da qualsiasi notizia di reato ancorché desunta da precedenti intercettazioni inutilizzabili - non è inutilizzabile la prova che non sarebbe scoperta senza l'utilizzazione della prova inutilizzabile.

Non è neppure ravvisabile - ha concluso il Gup - alcuna ipotesi di nullità, eccepita ai sensi dell'art. 125, comma 3, c.p.p., avuto riguardo alla motivazione degli atti in esame, che la difesa ha reputato “apparente” per aver fatto riferimento ad intercettazioni inutilizzabili. La norma invocata, infatti, annovera i soli provvedimenti dell'autorità giudiziaria tra gli atti che debbono essere motivati, a pena di nullità, e non include affatto le informative, le fonti di prova dichiarative e, più in generale, gli atti posti alla base dell'eccezione difensiva.

Osservazioni

L'ordinanza in commento è particolarmente interessante perché affronta diverse questioni in materia di inutilizzabilità delle intercettazioni di comunicazioni ed offre numerosi spunti di riflessione. Il provvedimento è peraltro sui generis, atteso che i profili di inutilizzabilità dei risultati dell'attività di captazione assumono rilievo non ai fini di una decisione definitoria di un grado del processo - come quasi sempre accade - ma in relazione alla valutazione della richiesta di rinvio a giudizio.

Per assumere la propria decisione sulla sostenibilità o meno dell'accusa in dibattimento, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Perugia si è, infatti, soffermato sulle questioni processuali sollevate dai difensori degli imputati attinenti, in particolare, alle intercettazioni ed ha esaminato compiutamente le stesse sotto più profili.

Con riferimento alla questione di inutilizzabilità dei risultati dell'attività di captazione disposta in un procedimento diverso, il giudice dell'“udienza filtro” ha certamente fatto buon governo dei principi sanciti dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione (Cass., Sez. U., 2 gennaio 2020, n. 51, cit.). Il supremo Consesso nella sua massima composizione, nella sentenza Cavallo, ha risolto un annoso contrasto interpretativo sul significato da attribuire alla nozione di “procedimento diverso”, chiarendo come i risultati delle intercettazioni disposte per l'accertamento di un reato, in relazione al quale l'autorizzazione alla captazione era stata emessa ab origine, possono essere utilizzati anche per il reato emerso successivamente, sia nello stesso, sia in un diverso procedimento, purché connesso ai sensi dell'art. 12 c.p.p. La connessione processuale è un riflesso della connessione sostanziale, peraltro indipendente dalla vicenda procedimentale; la connessione teleologica di cui all'art. 12, lett. c), c.p.p. (cioè «se dei reati per i quali si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri») si fonda infatti su un «legame oggettivo tra due o più reati», come ricordato da Cass., Sez. U., 26 ottobre 2017, n. 53390, in CED n. 271223). Altrettanto deve dirsi per la connessione monosoggettiva di cui all'art. 12, lett. b), c.p.p. - cioè le ipotesi di concorso formale e di reato continuato - che postulano necessariamente una connessione sostanziale, dovendosi l'autore del fatto reato, al momento della commissione del primo reato della serie, programmare i successivi almeno nelle linee essenziali. Nondimeno, anche nella connessione plurisoggettiva di cui alla lett. a) dell'art. 12 c.p.p. - ipotesi in cui i procedimenti sono connessi «se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento» - la regiudicanda oggetto di uno dei procedimenti coincide, anche in parte, con quella oggetto degli altri. Proprio questo stretto legame sostanziale, prima che processuale, tra i diversi fatti reato consente di non considerare “diverso” il procedimento relativo al reato accertato in virtù dei risultati dell'attività di captazione rispetto a quello nel quale detta attività è stata disposta e autorizzata e scongiura pertanto il rischio che l'autorizzazione giudiziale possa assumere la fisionomia di un'“autorizzazione in bianco”.

La latitudine applicativa della norma di cui all'art. 270 c.p.p., come ha correttamente ricordato il Gup nel provvedimento in commento, prevede, però, che anche nell'ipotesi di connessione dei procedimenti debbano essere rispettati per entrambi i reati i limiti di ammissibilità delle intercettazioni previsti dall'art. 266 c.p.p. con riguardo ai limiti edittali, salvo che i risultati dell'attività di captazione risultino rilevanti e indispensabili per l'accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l'arresto in flagranza. In piena aderenza ai dettami della richiamata sentenza, il Gup ha, dunque, giustamente escluso che i risultati delle intercettazioni disposte con riferimento ai reati di cui agli artt. 323, 326, comma 1, e 615 ter, comma 2, c.p. possano essere utilizzati. Indipendentemente dall'inquadramento del procedimento (cioè se lo stesso debba reputarsi “medesimo” o “diverso”), invero, gli esiti dell'attività di captazione sarebbero in ogni caso affetti da inutilizzabilità patologica, in quanto acquisiti in violazione di un divieto probatorio (attinente, per l'appunto, ai limiti edittali di autorizzazione). I reati sopra richiamati, infatti, sono estranei all'elencazione di cui all'art. 266 c.p.p. - il quale, come è noto, prevede un catalogo tassativo di fattispecie criminose per cui è ammesso il ricorso all'attività intercettativa - e non rientrano tra i delitti per i quali l'arresto in flagranza è obbligatorio.

Ferma l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per l'accertamento dei reati di cui agli artt. 323, 326, comma 1, e 615 ter, comma 2, c.p., l'ordinanza in commento si è confrontata, altresì, con il tema dell'inutilizzabilità “derivata”, che attiene al rapporto tra la prova inutilizzabile e le prove acquisite successivamente, il cui reperimento sia stato in qualche modo “influenzato” dalla prova illegittimamente acquisita.

E' certamente vero che per la prova inutilizzabile non opera il principio della estensione del vizio agli atti consecutivi dipendenti, previsto dal codice di rito per gli atti affetti da nullità; la sanzione processuale de qua scatta, infatti, solo per le ipotesi tassative previste dalla legge e non è, quindi, suscettibile di applicazione analogica. E' altrettanto vero, però, a giudizio di chi scrive, che è necessario distinguere l'ipotesi in cui si voglia veicolare all'interno del procedimento mediante un canale probatorio legittimo un elemento di prova che è già stato oggetto di una precedente prova vietata, dall'ipotesi in cui vi sia un rapporto di connessione causale tra due prove; solo in quest'ultimo caso può parlarsi di inutilizzabilità derivata. Nel primo caso, che si verifica ad esempio quando si introduce all'interno del processo una testimonianza indiretta sulla conversazione oggetto di intercettazione, nell'ipotesi in cui l'intercettazione sia stata effettuata fuori dai casi consentiti e sia, quindi, affetta da inutilizzabilità, l'autonomia tra i due mezzi di prova non consente di ritenere affetto dal vizio il risultato probatorio conseguito in modo legittimo.

Una maggiore cautela interpretativa imporrebbe, invero, di effettuare, caso per caso, l'esegesi della ratio che ha spinto il legislatore a prevedere quella specifica regola di esclusione del risultato probatorio e l'interesse tutelato da quest'ultima, al fine di verificare se, ed in che misura, la violazione della predetta regola possa avere inciso oltre che sulla prova acquisita in maniera “diretta”, anche sulle altre ulteriori. Nell'affrontare questo iter logico-argomentativo, dunque, al fine di ritenere affette da inutilizzabilità anche le eventuali prove successivamente acquisite, sarebbe opportuno scrutare la natura del divieto violato ab origine e conseguentemente valutare se, anche a fronte di una posteriore acquisizione probatoria secundum legem, possa comunque apprezzarsi un permanere dell'illegittimità. Dovrebbe utilizzarsi, dunque, quale parametro valutativo il criterio del «perpetuarsi della violazione».

Nel caso di specie i difensori degli imputati hanno eccepito che l'inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni si trasmette anche agli elementi di prova successivi rispetto all'attività di captazione, contaminando d'inutilizzabilità sia le fonti di prova dichiarative, nella parte in cui le risposte dei dichiaranti siano state sollecitate dalla contestazione delle intercettazioni inutilizzabili, sia gli altri atti di indagine e le informative che riportino il contenuto delle intercettazioni inutilizzabili.

Il giudicante ha recisamente escluso la fondatezza dell'eccezione così formulata, in piena adesione all'orientamento giurisprudenziale secondo cui «in tema di intercettazioni, l'inutilizzabilità ex art. 270, comma 1, c.p.p. degli esiti dell'attività di captazione, in procedimenti diversi da quello in cui è stata disposta, riguarda i risultati probatori conseguiti con tale specifico mezzo di prova, ma non esclude che i medesimi risultati possano essere ottenuti con un mezzo di prova diverso, sicché non sono affette da invalidità derivata le deposizioni rese dagli interlocutori, cui sia stata data lettura delle conversazioni intercettate in ausilio alla memoria, in quanto essi, nel riferire quanto personalmente detto o ascoltato, diventano fonte di sommarie informazioni testimoniali» (di questo avviso Cass., Sez. VI, 13 gennaio 2020, n. 1007, cit.).

Lo stesso Giudice delle leggi ha poi ritenuto costituzionalmente legittima la possibilità di «dedurre “notizie di reato” dalle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di altro procedimento» (Corte cost., 23 luglio 1991, n. 366, in Cass. pen. 1991, 914). Anche la giurisprudenza della suprema Corte riconosce pacificamente sia che l'inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni non preclude la possibilità di condurre indagini per l'accertamento dei fatti di reato eventualmente emersi dalle stesse (Cass., Sez. V, 29 ottobre 2019, n. 44144, in CED n. 277432), sia che possano essere disposte anche nuove intercettazioni all'esito di quelle inutilizzabili (Cass., Sez. VI,22 gennaio 2016, n. 3027, in CED n. 266496).

Né si ritiene colga nel segno - come sostenuto anche nell'ordinanza in esame - l'eccezione difensiva secondo cui gli atti di indagine sarebbero comunque affetti da nullità ai sensi del comma 3 dell'art. 125c.p.p., poiché ancorati ad una motivazione “apparente”, che poggia su intercettazioni inutilizzabili. Il richiamo non pare infatti pertinente, atteso che la littera legis include tra gli atti nulli per difetto di motivazione unicamente la sentenza, l'ordinanza e il decreto (quest'ultimo nei soli casi in cui la legge prevede che debba essere motivato).

Seguendo il solco tracciato nel tempo dalla giurisprudenza di legittimità e percorso anche delle Sezioni Unite (Cass., Sez. U., 23 luglio 2014, n. 32697, cit.), il Gup ha inoltre considerato pienamente utilizzabili, ai fini della propria valutazione della richiesta di rinvio a giudizio, la conversazione intercettata nella quale uno degli interlocutori ha rivelato il segreto d'ufficio, integrando la condotta prevista e punita dall'art. 326 c.p. Detto assunto trova conforto sia nel dettato normativo, e precisamente nell'art. 271, comma 3, c.p.p. - secondo cui «in ogni stato e grado del processo il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni previste dai commi 1 e 2 sia distrutta, salvo che costituisca corpo del reato», dal quale può inferirsi che lo stesso legislatore abbia ipotizzato che la conversazione stessa, di per sé immateriale, imprimendosi sul supporto magnetico o informatico contenente l'elemento dichiarativo della condotta delittuosa renda quest'ultimo corpo di reato - sia nella ermeneutica della giurisprudenza (Cass., Sez. U., 23 luglio 2014, n. 32697, cit. e Cass., Sez. III, 16 giugno 2016, n. 38822, cit.).

L'orientamento sposato in materia dalle Sezioni Unite della suprema Corte (Cass., Sez. U., 23 luglio 2014, n. 32697, cit. e ribadito di recente, ex plurimis, anche da Cass., Sez. VI, 9 luglio 2021, n. 26307, in Dir. & Giust., 12 luglio 2021) stabilisce, però, che per poter essere considerata corpo del reato, in quanto tale soggetto al disposto di cui all'art. 235 c.p.p., la conversazione (rectius le espressioni linguistiche impresse nel supporto magnetico o digitale su cui la dichiarazione è registrata) deve essere di per sé lesiva di un precetto penale e dunque deve integrare ed esaurire la condotta delittuosa. Deve essere escluso, invece,«che sia tale una comunicazione o conversazione che si riferisca a una condotta criminosa o che ne integri un frammento, venendo portata a compimento la commissione del reato mediante ulteriori condotte rispetto alle quali l'elemento comunicativo assuma carattere meramente descrittivo» (in questi esatti termini Cass., Sez. U., 23 luglio 2014, n. 32697, cit.).

Questa precisazione, a giudizio di chi scrive, non è di poco conto, attese le implicazioni sostanziali che regolano l'uso processuale del “corpo di reato”, e cioè l'acquisizione dello stesso al fascicolo per il dibattimento, secondo quanto espressamente previsto dall'art. 431, lett. h), c.p.p., con conseguente utilizzabilità del medesimo come prova ai fini del giudizio.

Il presente lavoro è frutto di una ricerca dal titolo “L'Inutilizzabilità della prova nel processo penale”, finanziata dalla Fondazione Banco di Sardegna.

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