Tutele azionabili nei confronti del Ministero della Salute per danni da vaccinazione anti Covid (Parte terza)

Maurizio Hazan
Daniela Zorzit
06 Settembre 2021

Esclusa la responsabilità degli operatori che somministrano il vaccino (Parte prima) e quella del produttore (Parte seconda), nel presente contributo si cercherà di indagare la posizione del Ministero della Salute in caso di danni da vaccinazione anti Covid.
La tutela indennitaria in caso di danno da vaccini ed il nesso causale

Nel nostro ordinamento è stato introdotto un sistema di tipo indennitario (L. 210/1992 e L. 229/2005) che prevede l'erogazione di determinati sussidi a favore delle persone che abbiano riportato lesioni o infermità per effetto della vaccinazione. Ci si può chiedere se tale normativa sia applicabile anche nel caso (malaugurato) in cui taluno subisca un danno in conseguenza della somministrazione dei farmaci (Astrazeneca, Pfitzer ecc.) inoculati nell'ambito della campagna di immunizzazione anti Covid promossa dallo Stato.

La risposta dovrebbe essere positiva perché le tutele di legge di cui si è fatto cenno, inizialmente previste solo per le vaccinazioni obbligatorie, sono state estese anche a quelle “raccomandate” dalle Autorità , e ciò attraverso una serie di interventi “manipolativi” della Corte Costituzionale (Corte Cost. 26/02/1998 n. 27 per i danneggiati da vaccinazione antipoliomielitica, non obbligatoria, assunta nel periodo di vigenza della L. 695/1959; Corte Cost. 16/10/2000 n. 423 per la vaccinazione antiepatite B non obbligatoria assunta dopo il 1983; Corte Cost. 26/04/2012 n. 107 per la vaccinazione non obbligatoria contro il morbillo, la parotite e la rosolia).

Di recente, la Consulta (Corte Cost. 14/12/2017 n. 268) ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 1 L. 210/1992 nella parte in cui non prevede il diritto all'indennizzo nei confronti di coloro che si siano sottoposti a vaccinazione antinfluenzale.

Il motivo che giustifica tale “ampliamento” risiede nella necessità di operare un bilanciamento tra il vantaggio che deriva alla collettività ed il sacrificio del singolo, nell'ottica del dovere di solidarietà : “In un contesto di irrinunciabile solidarietà, del resto, la misura indennitaria appare per se stessa destinata non tanto, come quella risarcitoria, a riparare un danno ingiusto, quanto piuttosto a compensare il sacrificio individuale ritenuto corrispondente a un vantaggio collettivo: sarebbe, infatti, irragionevole che la collettività possa, tramite gli organi competenti, imporre o anche solo sollecitare comportamenti diretti alla protezione della salute pubblica senza che essa poi non debba reciprocamente rispondere delle conseguenze pregiudizievoli per la salute di coloro che si sono uniformati» (Corte Cost. 107/2012).

Ed il fatto che la vaccinazione non sia obbligatoria non sposta i termini del problema dato che: «In presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore della pratica di vaccinazioni è, infatti, naturale che si sviluppi un generale clima di “affidamento” nei confronti proprio di quanto “raccomandato”: ciò che rende la scelta adesiva dei singoli, al di là delle loro particolari e specifiche motivazioni, di per sé obiettivamente votata alla salvaguardia anche dell'interesse collettivo. Corrispondentemente a questa sorta di cooperazione involontaria nella cura di un interesse obiettivamente comune, ossia autenticamente pubblico, apparirà naturale reputare che tra collettività e individui si stabiliscano vincoli propriamente solidali, nel senso − soprattutto − che le vicende delle singole persone non possano che essere riguardate anche sotto una prospettiva “integrale”, vale a dire riferita all'intera comunità: con la conseguenza, tra le altre, che, al verificarsi di eventi avversi e di complicanze di tipo permanente a causa di vaccinazioni effettuate nei limiti e secondo le forme di cui alle previste procedure, debba essere, per l'appunto, la collettività ad accollarsi l'onere del pregiudizio individuale piuttosto che non i singoli danneggiati a sopportare il costo del beneficio collettivo” (Corte Cost. 107/2012).

Una volta ammessa la tutela indennitaria, la strada non può, tuttavia, dirsi priva di ostacoli; ciò perché ai fini di ottenere i benefici previsti dalla legge il danneggiato deve pur sempre provare (non la colpa, da cui si prescinde del tutto ma) il nesso causale tra somministrazione del vaccino e pregiudizio patito.

Su quest'ultimo punto la Cassazione sembra attenersi ad un criterio piuttosto rigoroso, ancorato alle evidenze scientifiche. Si veda per es. Cass. 25/07/2018 n. 19699, che conferma il rigetto della domanda di indennizzo ex L. 210/92 presentata dal genitore di un bambino affetto da autismo per difetto di prova del nesso. La Corte richiama il proprio orientamento (v. Cass. 17/01/2005 n. 753, 29/12/2016 n. 27449, ord.) secondo cui “la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto, a seconda dei casi, l'effettuazione della terapia trasfusionale o la somministrazione vaccinale, il verificarsi dei danni alla salute e il nesso causale tra la prima e i secondi, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica”.

Nella fattispecie, la relazione del consulente tecnico recepita dal giudice di merito aveva tenuto conto sia dello stato della letteratura scientifica in materia, che qualificava di incidenza non comune o rara le reazioni avverse a carico del sistema nervoso ai vaccini nel caso somministrati, sia delle caratteristiche del caso concreto, in relazione al fatto che la risonanza magnetica dell'encefalo, seppure seguita a distanza di anni, era risultata del tutto negativa; si era altresì considerato che non risultavano ricoveri né visite neurologiche per le asserite reazioni allergiche ai vaccini e che la diagnosi di sindrome autistica era stata posta almeno due anni dopo.

Il Collegio conclude osservando che “Vi è stata quindi una valutazione di convergenza tra la determinazione quantitativo-statistica delle frequenze di classe di eventi (cd. probabilità quantitativa) e gli elementi di conferma disponibili nel caso concreto (cd. probabilità logica), sicché l'eziologia ipotizzata dal ricorrente è rimasta allo stadio di mera possibilità teorica. Non rileva poi che non sia stata individuata una possibile eziologia alternativa, considerato che trattasi di complesse malattie la cui origine è ancora ignota e la ricerca di fattori ulteriori e diversi rispetto al patrimonio genetico è oggetto di studi della ricerca scientifica”.

L'accertamento del nesso – nell'ambito delle vertenze promosse contro il Ministero ai fini di ottenere l'indennizzo previsto dalla legge- segue dunque le regole ordinarie e deve essere condotto secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, ispirato al parametro del “più probabile che non” (Cass. 2684/2017; Cass. 18358/2017; Cass, 29583/2017).

Merita qui dare conto di una importante decisione della Corte di Giustizia UE del 21.06.2017 : nel caso di specie si trattava di un'azione proposta da un cittadino francese affetto da sclerosi multipla che aveva chiesto il risarcimento dei danni (asseritamente) conseguenti alle vaccinazioni contro l'epatite B. La questione dibattuta innanzi ai giudici nazionali era se, conformemente ad un indirizzo giurisprudenziale maggioritario, il nesso potesse ritenersi provato in ragione di un meccanismo presuntivo basato su alcune circostanze fattuali (alla luce delle eccellenti condizioni di salute pregresse del paziente, dell'assenza di precedenti familiari e della prossimità temporale tra il trattamento e la comparsa della malattia), nonostante la ricerca medica non fosse in grado né di affermare né di escludere la detta correlazione.

La Corte di Cassazione francese rinvia la controversia all'esame dei giudici lussemburghesi, i quali si esprimono affermando che: «L'art. 4 della Dir. 85/374/Cee dev'essere interpretato nel senso che non osta a un regime probatorio nazionale, come quello di cui al procedimento principale, in base al quale il giudice di merito, chiamato a pronunciarsi su un'azione diretta ad accertare la responsabilità del produttore di un vaccino per danno derivante da un asserito difetto di quest'ultimo, può ritenere, nell'esercizio del libero apprezzamento conferitogli al riguardo, che, nonostante la constatazione che la ricerca medica non stabilisce né esclude l'esistenza di un nesso tra la somministrazione del vaccino e l'insorgenza della malattia da cui è affetto il danneggiato, taluni elementi in fatto invocati dal ricorrente costituiscano indizi gravi, precisi e concordanti i quali consentono di ravvisare la sussistenza di un difetto del vaccino e di un nesso di causalità tra detto difetto e tale malattia».

Il principio viene tuttavia temperato da alcune precisazioni: in primo luogo, i giudici nazionali devono assicurarsi che l'applicazione concreta che essi danno a tale regime probatorio non conduca a violare l'onere della prova previsto dall' art. 4 della Direttiva (ndr. in base al quale il danneggiato deve dimostrare il difetto, il danno ed il nesso tra l'uno e l'altro) né ad arrecare pregiudizio all'effettività del regime di responsabilità istituito da tale normativa.

Inoltre, prosegue la Corte, l'art. 4 della Dir. 85/374/Cee osta a un regime probatorio fondato su presunzioni secondo il quale, quando la ricerca medica non stabilisce né esclude l'esistenza di un collegamento eziologico tra la somministrazione del vaccino e l'insorgenza della malattia, la sussistenza del nesso di causalità tra il difetto e il danno dovrebbe sempre considerarsi dimostrata in presenza di taluni tipi di indizi concreti predeterminati.

La Corte esclude, insomma, la possibilità di far uso di meccanismi che comportano una inversione dell'onere della prova o che stabiliscono presunzioni di tipo assoluto, dovendo il Giudice effettuare le proprie valutazioni sulla base di tutti gli elementi di cui dispone, tra cui quelli forniti dallo stesso produttore.

La giurisprudenza italiana non sembra affatto disposta ad ammettere un meccanismo probatorio fondato sulla mera sussistenza di indizi fattuali (come ad es. la prossimità temporale, lo stato di salute ottimale del vaccinando e l'assenza di precedenti nella storia famigliare), ma richiede, come si è visto, che sia soddisfatto il criterio della ragionevole probabilità scientifica.

Questo significa che la “mera possibilità”, che ricorre quando la ricerca medica non è in grado di confermare ma neppure di smentire, di una correlazione tra la somministrazione del vaccino e l'evento avverso non è considerata sufficiente ai fini dell'accoglimento della domanda.

Si veda per es. Cass. 25/07/2017, n. 18358, in cui si discuteva della sindrome autistica da cui era affetto un minore (riconducibile secondo la prospettazione degli attori alla vaccinazione). Il Collegio conferma il rigetto della domanda di indennizzo ex L. 210/1992 osservando che la CTU effettuata nei gradi di merito aveva concluso che “la scienza medica valorizzata dal C.t.p. non consente, allo stato, di ritenere superata la soglia della mera possibilità teorica della sussistenza di un nesso di causalità”. Gli Ermellini condividono dunque la decisione di merito poiché “La Corte territoriale si è quindi attenuta ai principi dettati da questa Corte anche con riguardo alla materia che ci occupa, secondo i quali (v. Cass. 17/01/2005 n. 753, Cass. 19/01/2011 n. 1135, Cass. 29/12/2016 n. 27449) la prova a carico dell'interessato ha ad oggetto l'effettuazione della somministrazione vaccinale e il verificarsi dei danni alla salute e il nesso causale tra la prima e i secondi, da valutarsi secondo un criterio di ragionevole probabilità scientifica, mentre nel caso il nesso causale costituisce solo un'ipotesi possibile”.

Volendo dunque calare questi principi nel contesto dell'attuale pandemia con riferimento, in particolare, agli eventi avversi (trombosi) che sono stati registrati, par di comprendere che, allo stato, la correlazione con la somministrazione del vaccino “Astrazeneca” sia ancora tutta da approfondire e studiare, non essendovi alcuna certezza. D'altro canto, occorre tener conto delle (prevedibili) difficoltà probatorie che si porranno ove la patologia in concreto insorta sia caratterizzata, di norma, da una certa multifattorialità (nell'ambito della quale, per es. la maggiore incidenza sia dovuta a tutt'altre cause).

Per completezza, vale la pena ricordare che l'indennizzo eventualmente ottenuto dal danneggiato soggiace alla regola della “compensatio lucri cum damno” nei termini chiariti da Cass. civ., Sez. III, 06/05/2020, n. 8532: ”Le somme liquidate ad un soggetto a seguito dell'accertamento del diritto al risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, devono essere scomputate dalle attribuzioni indennitarie previste dalla legge n. 210 del 1992 eventualmente già corrisposte al danneggiato, venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero della Salute) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo”.

Occorre peraltro sottolineare che è necessario che chi invoca lo scomputo dimostri l'avvenuto pagamento ed il preciso ammontare da portare in detrazione. Sul punto si veda Cass. n. 2778/2019 (in cui il Ministero si era doluto del mancato defalco tra l'indennizzo previsto dalla L. 210/1992 e l'importo dovuto a titolo di risarcimento del danno per le trasfusioni infette): “Il motivo è infondato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte la compensazione, pure astrattamente sussistente tra l'importo dovuto a titolo di risarcimento e quello riconosciuto quale equo indennizzo, non può operare qualora l'importo dell'indennizzo non sia determinato né determinabile né vi sia prova del suo avvenuto pagamento, in quanto l'astratta spettanza della somma non equivale alla sua corresponsione e non fornisce elementi per individuarne l'esatto ammontare né il carattere predeterminato delle tabelle consente di individuare, in mancanza di dati specifici a cui è onerato chi eccepisce il "lucrum", il preciso ammontare da portare in decurtazione del risarcimento (Cass., 28/2/2014 n. 4785; Cass., 8/10/2014 n. 21256; Cass., 10/5/2016, n. 9434). Questa Corte intende dare continuità al richiamato indirizzo giurisprudenziale non ravvisandosi alcun motivo per modificare la propria giurisprudenza”. Nello stesso senso anche Cass. civ., Sez. III, 30/08/19, n. 21837.

La responsabilità del Ministero della Salute per “vaccini pericolosi”

Occorre a questo punto dare atto anche dell'orientamento, affermatosi nella giurisprudenza di legittimità (Cass. 27/04/2011, n. 9406; Cass. 02/04/2014, n. 7702), che ha definito i presupposti per l'affermazione della responsabilità del Ministero della salute per i danni conseguenti alla vaccinazione obbligatoria (nel caso di specie veniva in linea di conto quella contro la poliomielite).

La Corte ha anzitutto escluso che i compiti di controllo e vigilanza istituzionalmente attribuiti al Ministero in tema di vaccinazioni obbligatorie possano ricondursi all'art. 2050 c.c., poiché “rilevante, a tal fine, è che il Ministero — sotto questo profilo — non svolge in concreto attività imprenditoriale in relazione all'acquisto e distribuzione di prodotto immunizzato antipolio, ma soltanto di controllo e vigilanza a tutela della salute pubblica”.

La Cassazione ha quindi esaminato la fattispecie sotto il profilo dell'art. 2043 cc., ponendo particolare attenzione alla normativa (L. 13 marzo 1958, n. 296, art. 1) che attribuisce al Ministero della salute “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”, di “sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari...”.

Una volta individuati gli obblighi di condotta previsti dalla legge, la Corte ha sottolineato che, ai fini della affermazione della responsabilità, sempre che sia accertato il nesso, il giudice di merito deve condurre una precisa indagine che si articola su due livelli: occorre infatti stabilire: “a) se all'epoca della somministrazione era conosciuta o conoscibile — secondo le migliori cognizioni scientifiche disponibili — la pericolosità del vaccino; b) se alla stregua di tali conoscenze, il rispetto del fondamentale principio di precauzione imponesse di vietare tale tipo di vaccinazione, o di consentirla con rigorose modalità tali da minimizzare i rischi ad essa connessi”.

Gli Ermellini censurano quindi la sentenza gravata per aver mal valutato il presupposto di cui alla lettera a), poiché nella fattispecie la pericolosità del vaccino Sabin era già conosciuta all'epoca in cui venne somministrato, e vi erano statistiche accreditate sui gravi effetti collaterali che esso poteva provocare. La decisione di merito viene quindi cassata con rinvio alla Corte d'Appello per una nuova valutazione.

Sulla base delle coordinate tracciate dalla Cassazione nella pronuncia citata (alla quale ha fatto seguito, in senso conforme anche Cass. 02/04/2014 n. 7702 in Pluris), si potrebbe ipotizzare una responsabilità del Ministero che, per es., non tenga conto delle specifiche indicazioni date dalla comunità scientifica all'esito di nuove scoperte o accertamenti (es. in merito alla inopportunità di utilizzare un certo vaccino per le persone al di sotto di un certa età, o in presenza di alcune specifiche patologie), e non abbia impartito direttive per imporre una adeguata anamnesi e per vietare la somministrazione del farmaco ai soggetti per i quali esso doveva ritenersi controindicato.

Lo spazio di queste pagine non consente un maggiore approfondimento, ma vale la pena rilevare che l'applicazione del principio enunciato dalla Cassazione – secondo cui la responsabilità sorge in caso di omissione dei dovuti interventi “qualora fosse nota la pericolosità del farmaco “ - sembra fare leva su un concetto ambiguo: resta infatti da capire quando un farmaco possa dirsi “pericoloso”. Si tratta di una qualificazione piuttosto generica che, in verità, mal si attaglia a segnare una effettiva linea di discrimen posto che i medicinali sono, si direbbe “ontologicamente”, potenzialmente dannosi, al punto che la stessa giurisprudenza ha ritenuto di ricondurne l'attività di produzione nell'art. 2050 cc. (e ciò proprio in ragione delle “numerose insidie che possono derivare ai soggetti finali utilizzatori dalla natura stessa del prodotto base” , così Trib. Milano 19.11.1987, in Resp. civ. prev.,1988, 414 e ss.).

Va detto, poi, che nei casi esaminati dalla Corte si trattava di vaccinazioni obbligatorie: ci si potrebbe chiedere se il principio valga anche per quelle “raccomandate”. La risposta parrebbe dover essere positiva.

Ciò perché nelle proprie argomentazioni Cass. 9406/2011 fa leva sulla “posizione di garanzia”, ossia sugli obblighi di vigilanza e controllo a tutela della salute pubblica previsti dalla legge (L. 13 marzo 1958, n. 296, art. 1), che attribuisce al Ministero della salute “il compito di provvedere alla tutela della salute pubblica”, di “sovrintendere ai servizi sanitari svolti dalle amministrazioni autonome dello Stato e dagli enti pubblici, provvedendo anche ad emanare, per la tutela della salute pubblica, istruzioni obbligatorie per tutte le amministrazioni pubbliche che provvedono a servizi sanitari...”.. La Corte ricostruisce la responsabilità in termini di omissione, anche se (in un inciso) rileva che, in quella fattispecie (in cui appunto la somministrazione era stata imposta) si sarebbe potuto parlare di condotta attiva antigiuridica :” Dunque, la condotta omissiva del Ministero, che non ha proibito tale somministrazione (ma può dubitarsi che si tratti di condotta omissiva e non attiva: invero, a rigore, la condotta causale è la somministrazione del vaccino, disposta dal Ministero della Salute) è stato un antecedente causale dell'evento” (Cass. 9406/2011).

Ebbene, non pare si possa negare una (ipotetica) responsabilità del Ministero che, in violazione degli obblighi di sorveglianza e controllo a tutela della salute pubblica, abbia anche solo raccomandato (o comunque non abbia sospeso/ vietato) l'utilizzo di un vaccino “pericoloso”.

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