Il consenso informato per i soggetti incapaci nella disciplina della L. n. 219/2017 – profili di problematicità e di incostituzionalità

Sebastiana Ciardo
15 Settembre 2021

La Legge 219/2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018, nel sancire espressamente che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, ha valorizzato il principio della libera autodeterminazione del soggetto destinatario di cure sanitarie...
Principio della libera autodeterminazione del soggetto destinatario di cure sanitarie

La Legge 219/2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018 (ed applicabile alle manifestazioni di consenso successive a tale data: cfr. Cass. n. 12998/19), nel sancire espressamente che “..nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata”, ha valorizzato il principio della libera autodeterminazione del soggetto destinatario di cure sanitarie, rinvenibile nella ratio di ogni articolo della legge: da quello sul consenso delle persone minori di età o incapaci (art. 3) a tutti quelli che si occupano di disciplinare la somministrazione di cure nel periodo successivo al sopraggiungere della condizione di incapacità, con la regolamentazione delle Determinazioni Anticipate di Trattamento (c.d. D.A.T. o testamento biologico) e del Piano delle Cure Condivise (c.d. P.C.C.), rispettivamente agli artt. 4 e 5 della legge.

Consenso prestato per le persone incapaci

Quanto al consenso prestato per le persone incapaci, l'art. Art. 6 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e la biomedicina 4.4.1997 - la cui firma è stata autorizzata per l'Italia con la Legge 28.3.2001 n. 145 – Cap. II (regola generale, protezione delle persone che non hanno la capacità di dare il loro consenso, tutela delle persone che soffrono di un disturbo mentale, situazioni d'urgenza, desideri precedentemente espressi - intitolato - Protezione delle persone che non hanno la capacità di dare consenso) enuncia i seguenti principi: 2. “Quando, secondo la legge, un minore non ha la capacità di dare consenso a un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante, di un'autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. Il parere di un minore è preso in considerazione come un fattore sempre più determinante, in funzione della sua età e del suo grado di maturità. 3. Allorquando, secondo la legge, un maggiorenne, a causa di un handicap mentale, di una malattia o per un motivo similare, non ha la capacità di dare consenso ad un intervento, questo non può essere effettuato senza l'autorizzazione del suo rappresentante, di un'autorità o di una persona o di un organo designato dalla legge. La persona interessata deve nei limiti del possibile essere associata alla procedura di autorizzazione”.

Di analogo tenore, l'art. 3 della Legge 219/2017, prevede che sia la persona minore di età che il soggetto incapace dovranno ricevere tutte le “informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacita per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà”, con la precisazione, tuttavia, che il consenso informato ai trattamenti sanitari dovrà essere espresso o rifiutato, a seconda dei casi, dall'esercente la responsabilità genitoriale o tutoria “tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità”, ovvero, per gli interdetti dal tutore e per i soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno, dall'amministrato unitamente all'amministratore o solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere.

La norma, pertanto, pur valorizzando in astratto la capacità di autodeterminazione dei soggetti incapaci, destinatari di una adeguata informazione su ogni aspetto del trattamento sanitario o dell'intervento cui devono essere sottoposti ad opera del personale medico in linea con lo spirito della legge, tuttavia attribuisce al solo legale rappresentante il potere di prestare un valido consenso alla cura o, anche, di rifiutarlo.

Il quadro regolamentare delineato, seppur conforme alla normativa sovranazionale e coerente con le norme che sovraintendono alla capacità giuridica delle persone fisiche è, tuttavia, privo di una specifica disciplina che consenta una forma di controllo giurisdizionale sull'effettiva funzionalizzazione del consenso prestato dal rappresentante all'interesse e al benessere del destinatario della cura.

L'art. 5 comma 5 della legge 219/2017, prevede che “nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l'amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all'articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria”.

Solo nel caso in cui sorga un conflitto tra il legale rappresentante dell'incapace e il medico sulla somministrazione del trattamento terapeutico, pertanto, è consentito un intervento del Giudice tutelare.

Diversamente, in tutti i casi di eventuali conflitti tra il legale rappresentante e l'incapace, il minore o l'amministrato nessuna forma di intervento del giudice è espressamente prevista. Il deficit di tutela potrebbe diventare dirompente nei casi di rifiuto di cure salvavita (tra i quali l'idratazione, l'alimentazione o la ventilazione artificiale) ad opera del solo rappresentante, il quale si troverebbe ad essere investito della sorte dell'esistenza di altra persona senza alcuna forma di controllo.

D'altra parte, l'assunto sembrerebbe in stridente contrasto con tutte le norme richiamate che invocano la necessità di tenere sempre in considerazione la volontà del soggetto destinatario della cura, sia esso minore o incapace, alfine di valorizzarne la capacità di autodeterminazione.

L'assenza, però, di qualsiasi forma di intervento giurisdizionale osta ad una ricostruzione della c.d. “volontà presunta” della persona divenuta incapace, sulla base dei medesimi indici richiamati dalla sentenza della Cass. sez. I 16 ottobre 2007 n. 21748 (nel caso c.d. “Englaro”), ed accertati dal giudice, nel pieno contraddittorio delle parti instaurato pure con il curatore speciale nominato nell'interesse della persona incapace, vale a dire:

a) “irreversibilità”, medicalmente accertata, della condizione di stato vegetativo dell'incapace, tale da non lasciare supporre, allo stato delle conoscenze scientifiche di volta in volta attuali, la possibilità di un pur minimo recupero della coscienza e della percezione del mondo esterno da parte del rappresentato;

b) presunta volontà della persona in stato di incoscienza, anteriore al sopravvenuto coma irreversibile, “in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa della dignità della persona, la cui ricorrenza unicamente consentirebbe al rappresentante di “rifiutare” le cure salva-vita, che determinerebbero la morte della persona”. Nel caso sottoposto all'esame della Corte, in epoca anteriore all'entrata in vigore della legge sul bio-testamento, solo dopo avere accertato l'esistenza dei predetti indici, all'esito di una complessa istruttoria, entrambi i legali rappresentanti di Eluana Englaro vennero autorizzati a disporre l'interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale di quest'ultima, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino naso-gastrico.

Il vulnus di tutele così come esposto, discendente dalla disciplina della legge 219/2017, si manifesta sovente nella materia dell'amministrazione di sostegno e la questione di compatibilità costituzionale è stata già sottoposta al vaglio della Corte costituzione dal giudice tutelare del Tribunale ordinario di Pavia, che con ordinanza del 24 marzo 2018, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 4 e 5, della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), nella parte in cui stabiliscono che l'amministratore di sostegno, la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, in assenza delle Disposizioni Anticipate di Trattamento, possa rifiutare, senza l'autorizzazione del giudice tutelare, le cure necessarie al mantenimento in vita dell'amministrato.

L'assenza di disciplina, nella materia in esame, ha già indotto molti giudici ad affrontare la complessa questione in maniera differente ed anche con soluzioni “discutibili” (per es. con provvedimento emesso dal Tribunale di Roma del 23 settembre 2019, è stato dichiarato il non luogo a provvedere su una richiesta di autorizzazione rivolta al giudice tutelare da un amministratore di sostegno, di rifiutare cure vitali per conto di un amministrato, sul presupposto che, il conferimento dell'incarico prevedesse già la facoltà di prestare o meno il consenso alle cure in ambito sanitario).

La Corte Costituzionale con sentenza del 13/06/2019, (ud. 20/03/2019, dep. 13/06/2019), n. 144, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità dell'art. 3, commi 4 e 5 legge 219 del 2017 sollevate dal Giudice Tutelare del Tribunale di Pavia con riferimento agli artt. 2, 3, 13 e 32 della Costituzione, sul presupposto che “l'art. 3 legge 219/2017 non ha disciplinato le modalità di conferimento, all'amministratore di sostegno, e di conseguente esercizio dei poteri in ambito sanitario, le quali, invece, restano regolate dagli artt. 404 e seguenti cod. civ.”. “L'art. 3 si limiterebbe a regolare il caso in cui l'amministrazione di sostegno sia stata disposta per proteggere una persona che è sottoposta, o potrebbe essere sottoposta, a trattamenti sanitari e che, pertanto, deve esprimere o no il consenso informato a detti trattamenti. Di conseguenza, è in base alla disciplina codicistica che devono essere individuati i poteri spettanti al Giudice Tutelare al momento della nomina dell'amministratore di sostegno”.

Conclusioni

La soluzione adottata dalla Corte non convince perché non si rivela rispettosa di quel principio di tutela dell'autodeterminazione invocato dalla Legge 219/2017 e dalla carta costituzionale.

Proprio l'insegnamento discendente dalla sentenza “Englaro”, consente di ritenere che, nei casi di sopravvenuta incapacità, in assenza di DAT, discutendo del bene supremo dell'esistenza di un individuo, dotato di copertura costituzionale rafforzata e privilegiata come tale indisponibile, non possa essere demandata ad un altro soggetto la scelta se tenerlo o meno in vita, senza prima condurre un'accurata indagine ricostruttiva di quei presupposti mirabilmente enunciati, con limpida chiarezza dalla Cassazione, solo in presenza dei quali potrà essere consentito di porre fine alla vita di una persona con l'autorizzazione al rifiuto delle cure salva-vita.

Viene pertanto da chiedersi: il conferimento di un incarico ampio all'amministratore di sostegno, anche nel campo sanitario, davvero costituisce quello strumento “duttile” tale da spingersi a facoltizzare la sospensione dei trattamenti vitali per conto dell'amministrato? Ciò può quindi valere in tutti i casi di soggetti, particolarmente vulnerabili, privi di alcuna rete familiare unicamente in “balia” dell'ADS che potrebbe così liberamente decidere della loro esistenza? Ed ancora, nel caso di minori, anche in possesso di piena capacità di discernimento, i soli genitori, senza alcun filtro “giurisdizionale”, potrebbero rifiutare un intervento necessario ed indispensabile per la vita ed il benessere del minore (es. si pensi ai casi di rifiuto di sottoporre il figlio ad emotrasfusioni vitali frapposto dai genitori per ragioni di credo religioso)?

In tutti questi casi, il rappresentante legale del minore e dell'incapace non è detto compia l'atto nell'esclusivo interesse del soggetto amministrato e, in assenza di ogni forma di controllo, permangono i dubbi di costituzionalità della normativa, sui quali, forse, potrebbe essere sollecitato un ulteriore intervento della Consulta.

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