La corruzione per l'esercizio delle funzioni nell'ottica giurisprudenziale: un'ipotesi fumosa dai confini incerti

17 Settembre 2021

La sentenza della Corte di Cass.pen. 26 maggio 2021 n. 33251 riguarda la contestazione del reato di corruzione per esercizio delle funzioni relativa alla definizione di una pratica edilizia presso il competente ufficio del Comune, a seguito della quale il privato interessato alla pratica aveva versato la somma di Euro 150,00 al tecnico del Comune, perché ne seguisse il relativo iter burocratico.

La sentenza della Corte di Cassazione del 26 maggio 2021 n. 33251 riguarda la contestazione del reato di corruzione per esercizio delle funzioni relativa alla definizione di una pratica edilizia presso il competente ufficio del Comune, a seguito della quale il privato interessato alla pratica aveva versato la somma di Euro 150,00 al tecnico del Comune, perché ne seguisse il relativo iter burocratico. Quest'ultimo, non appena ricevuta la somma si era attivato, interpellando il funzionario addetto e riferendo successivamente al privato le informazioni ricevute, senza che la pratica, a seguito di questo interessamento, avesse avuto uno svolgimento irregolare.

La Corte d'Appello di Genova, pur qualificando come illecita l'anzidetta dazione di denaro, in quanto non era stata giustificata neppure tra gli interessati, e pur ritenendo accertato il nesso causale tra la dazione di denaro e l'interessamento, aveva escluso la configurabilità del reato di corruzione per esercizio delle funzioni, perché non era stata dimostrata la necessaria relazione di stabile asservimento del pubblico funzionario agli interessi personali del privato, che richiede un impegno permanente a compiere o promettere una serie indeterminata di atti riconducibili alla funzione.

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha annullato la decisione della Corte d'Appello, ritenendo che per la configurabilità del reato l'elemento decisivo non sia costituito dalla protrazione nel tempo del rapporto corruttivo, ma dal mercimonio della funzione pubblica, anche se legato al compimento di un unico e specifico atto.

La vicenda su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione merita attenzione, trattandosi di episodio isolato, senza che la pratica avesse poi avuto uno svolgimento irregolare.

Prima della riforma introdotta con la L. 190/2012, il reato di corruzione era espressione di una concezione c.d. mercantile, in quanto si incriminava l'accordo avente ad oggetto la compravendita di singoli atti amministrativi conformi o contrari ai doveri d'ufficio.

La distinzione tra corruzione propria (art. 319 c.p.) e corruzione impropria (art. 315 c.p.) consisteva nell'oggetto del patto corruttivo e, in particolare modo, nella conformità o meno ai doveri dell'ufficio dell'atto compiuto.

Il riferimento all'atto di ufficio, soprattutto per quanto riguardava gli atti conformi, aveva fatto emergere difficoltà in quei casi “sistemici” di rapporti clientelari tra soggetti pubblici e privati, cioè in quei casi in cui si prescindeva dal compimento dell'atto, perché caratterizzati dall'asservimento del soggetto pubblico che si metteva a disposizione della parte privata.

Si trattava di quei casi in cui l'oggetto del patto corruttivo era per così dire “muto” nel senso che, nel momento in cui l'accordo illecito veniva concluso, il pubblico ufficiale non vendeva l'atto, ma la sua funzione: si era cioè verificato un vero e proprio mutamento dello scambio corruttivo, passando dall'atto alla funzione.

Tutto ciò aveva portato ad una abrogazione tacita del reato di corruzione impropria per atto conforme ai doveri d'ufficio, riconducendo qualsiasi fatto corruttivo nello schema della corruzione propria.

La giurisprudenza, in tutti quei casi in cui non fosse stato possibile individuare o accertare la natura o il contenuto dell'atto, negava la possibilità di ipotizzare il reato di corruzione impropria, ritenendo sufficiente a ricomprendere il fatto nella previsione della corruzione propria quei casi in cui vi fosse stata la prova della consegna di denaro al funzionario pubblico, prescindendo dall'individuazione in concreto dell'atto conforme o contrario ai doveri di ufficio. In alcuni casi la Cassazione ha precisato che, in tema di reato di corruzione propria, occorre aver riguardo non ai singoli atti, ma all'insieme del servizio reso dal pubblico ufficiale al privato, per cui, anche se ogni atto separatamente considerato corrisponda ai requisiti di legge, l'asservimento costante della funzione per denaro agli interessi del privato integra il reato di corruzione propria previsto dall'art. 319 c.p. (cfr. Cass.pen. 4 maggio 2006 n. 33435; Cass.pen. 26 febbraio 2007 n. 21192).

Il mutamento dello scambio corruttivo, passato dall'atto alla funzione del pubblico ufficiale aveva determinato, da un lato “la dematerializzazione dell'elemento di fattispecie di corruzione propria dell'atto di ufficio” (Cass.pen. 22 ottobre 2019 n. 18125), dall'altro la riconduzione della nozione di atto di ufficio ai meri comportamenti, ricollegando la corruzione impropria ai casi in cui la promessa o la dazione si fossero riferiti alla generica previsione di eventuali futuri imprecisati atti, finalizzati ad ottenere da parte del privato la disponibilità del pubblico ufficiale corrotto.

Con la nuova fattispecie di corruzione per l'esercizio delle funzioni prevista dall'art. 318 c.p. scompare il riferimento all'atto d'ufficio legittimo: il fatto corruttivo previsto dalla norma riguarda tutti i casi in cui l'agente pubblico si accordi con il privato corruttore, mettendo a disposizione la sua funzione e i suoi poteri in relazione al compimento di possibili, futuri non specificati atti.

La ratio della punibilità della nuova ipotesi di corruzione per esercizio delle funzioni è da ricercarsi nel rischio che ogni dono e denaro fatto ad un agente pubblico possa innescare una spirale di alimentazione progressiva fra privati e funzionari pubblici che è opportuno recidere fin dalle radici.

La soppressione del secondo comma dell'art. 318 c.p., che escludeva la responsabilità del privato nell'ipotesi di corruzione impropria susseguente, è stata una diretta conseguenza del messaggio rivolto dal legislatore con la riforma del 2012 ai funzionari pubblici i quali non debbono ricevere denaro o altra utilità dai privati e i privati devono astenersi dal dare o promettere denaro o altre utilità ai funzionari pubblici, anche nei casi in cui la pratica, come nel caso di cui si è occupata la Cassazione, non presenti profili di irregolarità.

In questi casi, però, un'interpretazione della norma, in termini di incriminazione così larga da abbracciare ogni utilità indebita correlata all'esercizio delle funzioni e dei poteri, potrebbe creare il rischio di criminalizzazione di qualsiasi condotta, anche di quelle che non presentino profili di offensività.

L'unico rimedio è quello di verificare allora, caso per caso, se si è in presenza di messa a libro paga, cioè di corruzione sistemica, che testimonia lo stabile asservimento del pubblico funzionario agli interessi personali del privato.

Con l'introduzione del reato di corruzione per l'esercizio delle funzioni il legislatore ha inteso punire la condotta del pubblico ufficiale che, dietro compenso di denaro o di altre utilità, prenda a carico un interesse privato, prescindendo dal compimento di un atto dell'ufficio, con ciò dando vita ad una fattispecie di anticipazione della tutela del bene protetto dalla norma, secondo lo schema del reato di pericolo.

Nel caso di corruzione per l'esercizio delle funzioni il pubblico ufficiale vende solo la sua funzione, cioè l'impegno a curare in futuro gli interessi del privato corruttore, mettendosi genericamente a disposizione del privato, mentre nell'ipotesi di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio il pubblico ufficiale realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, dando vita, con la promessa o con il compimento dell'atto illegittimo, ad un reato di danno.

L'intervento riformatore ha evidenziato una serie di difetti, parificando nella misura edittale la corruzione antecedente alla corruzione susseguente, estendendo la punibilità ai casi in cui un singolo atto o una serie di atti non siano identificabili.

Né appare giustificabile la collocazione sullo stesso piano della messa a disposizione delle funzioni da parte del pubblico ufficiale “ex ante” per interessi futuri del privato e il semplice riconoscimento “ex post” di un compenso, sia pur indebito, per un atto conforme ai doveri d'ufficio.

In questo modo si sacrificano sull'altare di una concezione inflessibile della corruzione “esigenze minimali di graduazione dei disvalori”.

L'unica soluzione, per superare possibili rilievi costituzionali in termini di graduazione dell'offensività e di proporzionalità della pena (artt. 3 e 27 Cost.), è quella fornita dalla sentenza della Corte d'Appello di Genova che assegna rilevanza decisiva ai fini dell'art. 318 c.p. alla prova dello stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi privati che presuppone un impegno permanente a compiere una serie indeterminata di atti ricollegabili alle funzioni esercitate.

Del resto va segnalato come la natura sistemica del reato di corruzione per l'esercizio delle funzioni, come stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi privati, sia stata in più occasioni evidenziata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, tanto da parlare di reato eventualmente permanente.

In particolare, quando si è ritenuto opportuno sottolineare (Cass.pen. 22 ottobre 2019 n. 18125) l'irrazionalità che passa tra la condotta di un pubblico ufficiale che compia per denaro o altra utilità (venda un solo suo atto contrario all'ufficio), debba essere punito con una pena rilevante, “mentre invece il pubblico funzionario stabilmente infedele, che ponga l'intera sua funzione e i suoi poteri a servizio di interessi privati per un tempo prolungato, con contegni di infedeltà sistemici e in relazione ad atti contrari alla funzione non predefiniti o nemmeno specificamente individuabili ex post debba essere irrazionalmente punito con una pena più mite”

È evidente come il richiamo giurisprudenziale, nonostante sia finalizzato ad evidenziare un'eventuale irrazionalità che passa tra l'art. 318 c.p. e l'art. 319 c.p., ricollega il fondamento della irragionevolezza al fatto che nella corruzione prevista dall'art. 318 c.p., diversamente dalla corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, che può esaurirsi anche nel compimento di un solo atto, il funzionario pubblico ponga le sue funzioni a servizio di interessi privati per un tempo prolungato con contegni d'infedeltà sistemici.

La prova dello stabile asservimento del pubblico funzionario agli interessi personali del privato costituisce un requisito essenziale della nuova fattispecie, soprattutto per assegnare un contenuto di determinatezza ad un'ipotesi, in molti casi fumosa, che può trascendere i limiti della razionalità.

Se, infatti, l'oggetto dell'accordo corruttivo, con cui il pubblico ufficiale vende la sua funzione, è da ricercarsi nell'impegno del pubblico ufficiale a curare in futuro gli interessi del privato corruttore, non v'è dubbio che l'accordo debba investire, proprio perché siamo in presenza di un impegno futuro, lo stabile asservimento del pubblico funzionario.

La prova dello stabile asservimento del pubblico funzionario agli interessi personali del privato la si può avere sia nei casi di messa a libro paga del pubblico ufficiale, sia in quei casi in cui la dazione in denaro da parte del privato sia tale da testimoniare l'esistenza del vincolo del pubblico ufficiale a curare gli interessi del privato.

È chiaro che se la dazione del privato si concreta in una somma di denaro rilevante, l'oggetto del patto non può che testimoniare la messa a disposizione da parte del pubblico ufficiale della sua funzione per il compimento di possibili atti futuri non specificati, ma vantaggiosi e favorevoli per il privato.

Nella vicenda di cui ci stiamo interessando, nella quale il privato aveva versato al pubblico ufficiale la somma di Euro 150,00 per seguire l'iter burocratico della pratica e senza che la pratica avesse avuto uno svolgimento irregolare, non sembra che il fatto possa testimoniare la lesione dei principi del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione tutelati dall'art. 318 c.p. e cioè la messa a disposizione delle sue funzioni da parte del funzionario pubblico per il compimento di possibili atti futuri.

Pur in assenza di una giustificazione, la modestia della somma testimonia che il privato non ha certamente inteso ed il pubblico ufficiale non ha accettato di instaurare un rapporto finalizzato a vincolare la funzione pubblica ad interessi privati, cioè a dar vita alla protrazione nel tempo del rapporto di asservimento della pubblica funzione quale prova della violazione dell'art. 318 c.p.

Guida all'approfiondimento

SPENA, Il turpe mercato, Milano, 2013, 581;

M. ROMANO, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, I delitti dei Pubblici ufficiali, Milano, 2013, 188;

A. BASSI-P. CARCANO-A. MORI, I reati contro la Pubblica Amministrazione. Questione sostanziale e processuale, Milano, 2020, pagg. 112-116.

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