Responsabilità da cosa in custodia: profili sostanziali e processuali

Gianluca Cascella
28 Settembre 2021

Il contenzioso originato dalla fattispecie di responsabilità civile regolamentata dall'art. 2051 c.c. rappresenta una quota rilevante nel carico dei procedimenti aventi ad oggetto contestazioni di responsabilità civile e correlate richieste di risarcimento danni, riscontrabile sui ruoli dei tribunali italiani. II che appare inevitabile conseguenza della non sempre ottimale condizione di manutenzione in cui versano i beni pubblici non meno che gli immobili privati, con conseguente evocazione in giudizio di enti pubblici e soggetti privati, nei cui confronti si lamenta la violazione della norma suddetta, con i conseguenti riflessi processuali. Infatti, il riparto dell'onere probatorio in materia, nonostante il chiaro insegnamento della giurisprudenza di legittimità, costituisce l'aspetto di maggiore rilievo e parimenti decisivo nei giudizi civili in cui viene in contestazione tale ipotesi di responsabilità, ed alla prova dei fatti si rivela tutt'altro che agevole, proprio in considerazione del fatto che, molto spesso, si riscontrano confusioni e/o sovrapposizioni con l'altra ipotesi di responsabilità, quella ex art. 2043 c.c. della c.d. insidia e trabocchetto.
Le c.d. responsabilità speciali

Per quanto di interesse di queste righe, occorre una breve premessa inerente un rapido inquadramento sistematico di tale ipotesi di responsabilità all'interno del vigente codice civile, con il rilievo che è solo con il codice civile del 1942 che viene introdotta, con la previsione di cui all'art. 2051 c.c., una peculiare ipotesi di responsabilità per i danni provocati dalle cose, del tutto autonoma rispetto a quelle in cui, invece, era la condotta della persona che di una data cosa si servisse, a generare una responsabilità, avendo quindi le cose un ruolo solo strumentale, in quanto nulla disponeva, al riguardo, l'art. 1153 del codice civile italiano del 1865 (D. APICELLA, Responsabilità da cose in custodia, in Trattato della Responsabilità Civile, diretto da P. Stanzione, II, Milano, 2012, p. 834 e ss.) autonomia che il legislatore del 1942, come affermato da altro autore, ha espressamente voluto e che la rende non comparabile con le altre ipotesi (M. FRANZONI, L'illecito, in Trattato della Responsabilità Civile, II^ ed., Milano, 2010, p. 453 e ss.); una responsabilità che la giurisprudenza, superando un precedente orientamento, ormai da oltre tre lustri ha riconosciuto avere natura oggettiva, anche in relazione ai beni demaniali effettivamente in custodia alla pubblica amministrazione (Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2006, nn. 15383 e 15384, in Foro it., 2006, 12, 129): anche altra opinione dottrinale, in sostanza, non dubita della riconducibilità della fattispecie disciplinata dall'art. 2051 c.c. al novero della responsabilità oggettiva (G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 644).

In definitiva, tali possono dirsi tutte quelle fattispecie di responsabilità extracontrattuali, ulteriori rispetto a quella <generale> prevista dall'art. 2043 c.c., nelle quali si riscontra una scelta del legislatore che, nel comparare gli interessi che, di volta in volta, vengono in contrapposizione, mostra di ritenere meritevole di una maggiore tutela la posizione del danneggiato, che in determinate situazione si troverebbe nella effettiva difficoltà di provare i fatti costitutivi della relativa pretesa, se dovesse applicarsi lo schema della fattispecie di cui all'art. 2043 c.c., agevolandolo sul piano probatorio con la previsione di una presunzione di responsabilità, salvo prova contraria, a carico del danneggiante, attraverso l'esonero, per il danneggiato, dal provare la colpa del danneggiante, così che ogni danno, almeno potenzialmente, possa ricevere tutela (V. D'ANTONIO, Le responsabilità speciali e la distribuzione degli oneri probatori, in P. Stanzione, Manuale di Diritto Privato, II^ ed., Torino, 2006, p. 738 e ss.).

Ne consegue, allora, che con la introduzione di tali ipotesi di responsabilità, si riscontra sostanzialmente un abbandono del requisito della colpa quale parametro per selezionare gli interessi da tutelare, il che porta al parallelo superamento dell'idea che l'illecito può essere solo tipico (F.D. BUSNELLI, Nuove frontiere della responsabilità civile, in Jus, 1976, 46 e ss.): la colpa, allora, viene ad essere sostituita, in sostanza, in tale fattispecie di responsabilità, da un elemento privo di ogni riferimento soggettivo, rappresentato infatti dalla derivazione causale dell'evento dalla cosa in custodia, con evidente abbandono del c.d. profilo soggettivo della fattispecie.

Fondamento della responsabilità

Al riguardo, la S.C. da tempo afferma, con orientamento consolidato, che la fattispecie della responsabilità per i danni cagionati da una cosa in custodia, come disciplinata dall'art. 2051 c.c., rinviene il suo fondamento esclusivamente nella relazione che intercorre tra il soggetto <custode> e la cosa che si assume abbia provocato il danno lamentato da colui che invoca tale responsabilità, mentre a tale riguardo risulta del tutto irrilevante il comportamento e/o attività del custode medesimo (Cass. civ., sez. III, 4 febbraio 2004, n. 2062, in Giust. civ., Mass., 2004, 2) e, per altro verso, affinché detta responsabilità possa ritenersi in concreto integrata, non occorre la <colpa> del soggetto custode, essendo sufficiente il mero verificarsi dell'evento, riaffermandosi proprio come, in ragione della riconosciuta natura oggettiva di tale responsabilità, la stessa non dipende, né subisce condizionamento alcuno, dal suddetto elemento psicologico, come afferma autorevole dottrina (C. CASTRONOVO, La responsabilità civile, Milano, 2018, p. e ss.).

La relazione in questione è, per la prevalente giurisprudenza, integrata dalla titolarità, in capo ad un soggetto, della disponibilità giuridica e materiale sulla cosa, che attribuendo al medesimo un effettivo potere su di essa, faccia insorgere in capo a tale soggetto un potere dovere di intervenire sulla cosa oggetto di custodia (Cass. civ., sez. II, 17 giugno 2013, n. 15096, in Giust. civ., Mass., 2013).

Da tale ricostruzione della relazione di custodia, che supera risalenti tesi dottrinali, orientate a fondare tale ipotesi di responsabilità o sulla concreta possibilità di trarre dal bene medesimo un ritorno economico (V. GERI, La responsabilità civile da cose in custodia animali e rovina di edificio, Milano, 1974, p.166) ovvero sulla natura e durata temporale del rapporto (P. TRIMARCHI, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, p. 243 e ss.) emerge come, sostanzialmente, siano da considerarsi custodi tutti i soggetti che, di una determinata cosa, abbiano la disponibilità, giuridica ovvero anche solo fattuale: il che porta ad individuare, nell'orientamento di legittimità, tutto un novero di soggetti ai quali può essere riconosciuta tale qualifica, ad esempio, al proprietario, al possessore ed anche all'usufruttuario (Cass. civ., sez. III, 5 luglio 2004, n. 12280, in Giust. civ., Mass., 2004, 7-8), ed anche al soggetto che di un dato bene abbia la sola detenzione, purché qualificata, come il conduttore, qualifica che, invece, va esclusa nei confronti del soggetto che, invece, del bene abbia la mera detenzione (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2009, n. 24530, in Guida al Diritto, 2010, 1, 47); da altri si afferma, poi, che la custodia che legittima l'imputazione di responsabilità al titolare del relativo potere può dirsi sussistente solo se il relativo rapporto risulti godere anche di protezione nei confronti dei terzi estranei, di guisa che solo in tal caso il soggetto che possa ritenersi titolare di tale situazione di potere sulla cosa sia da considerarsi, parimenti, anche responsabile per gli eventuali danni causati dalla stessa, con conseguente esclusione, quindi di coloro che della cosa medesima abbiano niente altro che la detenzione (M. FRANZONI, op. cit., p. 470).

Ne consegue allora che, come osservato da ulteriore opinione dottrinale, è quello stesso potere di fatto che un determinato soggetto è in grado di esercitare sulla cosa, che gli consente di impedire ai terzi ogni intromissione nella gestione della cosa medesima, che per converso fonda la responsabilità di chi lo esercita ove la cosa si riveli fonte di danni per i terzi (G. VISINTINI, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, p. 654).

Più di recente, si è affermato in giurisprudenza che, poiché l'art. 2051 c.c. presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia tra il soggetto asseritamente responsabile e la cosa, identificandosi tale rapporto in una relazione di fatto tra la cosa e il soggetto, consegue a tanto che è da considerare custode chiunque eserciti un potere di fatto sulla cosa, controllando e vigilando su di essa, in modo da impedire l'insorgenza di situazioni di pericolo (Trib. Ascoli Piceno, 10 giugno 2019, n. 421); dovere di custodia che, in ogni caso, per la dottrina sussiste indipendentemente dal fatto che la cosa su cui esso deve esplicarsi sia o meno in possesso di autonomo dinamismo (G. ANNUNZIATA, Responsabilità civile e risarcimento del danno, Padova, 2010, p. 421) e ciò appare senza dubbio corretto e condivisibile, atteso che il suddetto requisito risulta al di fuori della previsione normativa di cui all'art. 2051 c.c.; natura oggettiva che, secondo altra opinione, emerge dalla scelta legislativa di collegare - e conseguentemente imputare al soggetto cui si ritiene spettare nel caso concreto – la custodia, quindi il potere di controllo sulla cosa, ed in particolare dei rischi ad essa connessi, con la responsabilità per eventuali danni provocati dalla stessa (C. SALVI, Responsabilità contrattuale (voce) in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1988, p. 1228 e ss.).

In definitiva, l'azione dell'uomo è ininfluente al prodursi del danno in tale ipotesi di responsabilità, venendo esso prodotto o dall'intrinseco dinamismo della cosa, oppure dall'entrare in contatto con essa di un fattore esterno, dotato di autonoma idoneità lesiva, dato che “La responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia prevista dall'art. 2051 c.c. prescinde dall'accertamento del carattere colposo dell'attività o del comportamento del custode e ha natura oggettiva, necessitando, per la sua configurabilità, del mero rapporto eziologico tra cosa ed evento” (Cass.civ., sez. III, 7 aprile 2010, n. 8229, in Giust. civ., Mass. 2010, 4, 503); non va poi trascurato che la indubbia centralità del rapporto eziologico trova ulteriore conferma con riguardo all'onere probatorio ed alla sua ripartizione, in quanto è su di esso che si incentra, ovviamente in relazione ai profili connessi alle contrapposte posizioni di danneggiato e custode, l'onus probandi gravante sulle parti, potendosi allora affermare che è il fatto della custodia che determina l'insorgere di tale ipotesi di responsabilità.

La res in custodia e le sue declinazioni.

Al riguardo, occorre rilevare come la cosa oggetto di custodia venga differenziata, in relazione alla sua maggiore o minore attitudine alla causazione di danni, tra cosa fornita di un proprio dinamismo, ovvero inerte e statica, rilevandosi come la diversa condizione propria della seconda tipologia di <res>, non esclude, di per sé, la potenziale dannosità della stessa, in ragione del fatto che anche queste ultime ben possono provocare danni, in concorso con altri fattori eziologici (Cass. civ., sez. III, 23 dicembre 2020, n. 29465, in Foro it., 2021, 5, I, 1743) per cui in tal modo simile distinzione, ad avviso di chi scrive, appare in concreto assumere una rilevanza sensibilmente ridotta, potendo conservare una sua utilità, verosimilmente, a soli fini probatori, o quasi; in ogni caso, la dottrina osserva come anche la cosa <inerte> rientri nel perimetro applicativo dell'art. 2051 c.c., tutte le volte in cui, sostanzialmente, alla loro condizione predetta si associ un loro difetto, funzionale non meno strutturale la renda suscettibile di causare danni a terzi, in conseguenza di fattori esterni (V. GERI, op. cit., p. 103).

Ancora, parimenti si distingue tra cosa pericolosa e cosa non pericolosa, anche se la S.C. ritiene che la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c. prescinda dall'accertamento della pericolosità della cosa stessa, e sussista in relazione a tutti i danni da essa cagionati, sia per la sua intrinseca natura, sia per l'insorgenza in essa di agenti dannosi (Cass. civ., sez. III, 5 dicembre 2008, n. 28811, in Giust. civ., Mass. 2008, 12, 1740); con riguardo al profilo della <pericolosità> della cosa, per la dottrina tale aspetto non costituisce una discriminante per l'applicazione o meno dell'art. 2051 c.c., poiché non può escludersi che ogni res, anche quella all'apparenza più innocua, sia invece in possesso di una intrinseca capacità di provocare danni a terzi, con l'unica esclusione del caso in cui la cosa abbia rivestito il ruolo di mera occasione dell'evento di danno (M. FRANZONI, op. cit., in particolare p. 456 e 459).

Su tale premessa, appare di certo condivisibile quanto affermato dalla dottrina che sostiene come, in sostanza, tutte le cose siano suscettibili di rientrare nel perimetro applicativo dell'art. 2051 c.c., indipendentemente dal loro stato, dalla loro attitudine o meno al movimento, con la sola esclusione di quelle per le quali il legislatore abbia previsto una regolamentazione normativa espressa, come ad esempio, per restare nel perimetro del codice civile, il danno da rovina di edifici, oppure, guardando alla legislazione speciale, quello da circolazione di veicoli a motore e natanti (V. GERI, op. cit., p. 101).

Si comprende allora perché i giudici di legittimità distinguono la prova che il danneggiato è chiamato a fornire a seconda del fatto che la cosa sia o meno in possesso di un proprio dinamismo, ovvero se risulti intrinsecamente pericolosa oppure no, come meglio si dirà in seguito (cfr. infra, par. 5).

La figura del custode e la sua condotta

La definizione che di tale figura ha fornito la giurisprudenza risulta assolutamente univoca e molto chiara, essendosi affermato che la nozione di custodia presa in considerazione dell'art. 2051 c.c. non presuppone né implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello previsto per il depositario, per cui, considerato che la funzione della norma predetta è quella di costituire un criterio di imputazione della responsabilità a carico di colui che si trova nelle condizioni di controllare i rischi inerenti alla cosa, ne deriva che deve essere ritenuto custode quel soggetto che, di fatto, controlla le modalità d'uso e di conservazione della cosa stessa, che non necessariamente coincide con il proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta (Cass. civ., sez. III, 19 febbraio 2008, n. 4279, in Giust. civ., 2008, 9, I, 1909).

Circa la rilevanza della condotta del custode, per la dottrina essa è sostanzialmente assente, in quanto, come da alcuni osservato, proprio l'espressione contenuta nell'art. 2051 c.c. secondo cui il custode risponde dei danni provocati dalla cosa, salvo che provi il caso fortuito, altro non significa che detto soggetto deve rispondere del danno indipendentemente dal livello di diligenza concretamente posto in essere nella specifica fattispecie, a meno che – appunto – non riesca a fornire la prova della suddetta circostanza esimente (G. ALPA, Manuale di Diritto Privato, VI^ ed., 2009, p. 809 e ss.); del resto, tale irrilevanza trova conferma nel consolidato orientamento, prima di tutto della giurisprudenza di legittimità, in cui già da tempo si è affermato che, onde in concreto possa riscontrarsi tale responsabilità, occorre esclusivamente la sussistenza del nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi al riguardo la condotta del custode e l'osservanza o meno di un obbligo di vigilanza (Cass. civ., sez. III, 6 luglio 2006, nn. 15383 e 15384, in Foro it., 2006, 12, 129); a tale orientamento hanno prestato convinta adesione i giudici di merito, condivisibilmente affermando che l'esclusione di ogni e qualsiasi rilevanza del profilo soggettivo della condotta del custode discende dalla funzione cui assolve l'art. 2051 c.c., che è quella di imputare la responsabilità al soggetto che controlla le modalità di uso e conservazione della cosa (Trib. Ascoli Piceno, 10 giugno 2019, n. 421, cit.); in ogni caso, deve tenersi presente che la verifica circa l'avvenuto esercizio, o meno, da parte del potere di controllo, del soggetto che, in base ai criteri di cui si è detto, debba ritenersi, in concreto, custode, e come tale destinatario passivo della presunzione di responsabilità introdotta dall'art. 2051 c.c., è destinata inevitabilmente ad essere compiuta in un momento successivo, quindi solo dopo che l'evento di danno si è verificato, ad opera del giudice chiamato ad esaminare la domanda risarcitoria proposta ex art. 2051 c.c. da colui che lamenta un danno, poiché è solo in tale momento che risulterà possibile verificare la sussistenza del nesso causale tra evento e cosa in custodia (G. VISINTINI, op. cit., p. 787 e ss.).

Onere della prova e suo riparto

Come affermato da recente decisione di merito, il danneggiato che agisce ai sensi dell'art. 2051 c.c. è chiamato a provare : i) che il convenuto intrattenga un rapporto di custodia con la cosa che si assume aver provocato il danno che egli lamenta; ii) il legame eziologico tra l'evento di danno e la cosa con cui il convenuto intrattiene detta relazione, per cui solo ove sia riuscito a fornire detta prova, il custode è chiamato, per evitare l'addebito di responsabilità a suo carico, a fornire la prova del fortuito, mentre non deve provare di essere stato un buon custode, cioè diligente ed accorto, essendo tale aspetto irrilevante (Trib. Milano, sez. X (G.I. D. Spera), 6 luglio 2021, n. 5886, in www.ridare.it.) come del resto si è già detto.

A tanto va aggiunto un ulteriore profilo, sottolineato dalla giurisprudenza di legittimità, quello per il quale nel provare la derivazione causale dell'evento di danno dalla cosa in custodia, parimenti il danneggiato deve dimostrare che l'evento – e quindi il danno che in conseguenza egli lamenta - costituisce conseguenza normale di quella che risulta essere la condizione della cosa in custodia: si afferma infatti al riguardo che “la responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; detta norma non dispensa il danneggiato dall'onere di provare il nesso causale tra cosa in custodia e danno, ossia di dimostrare che l'evento si è prodotto come conseguenza normale della particolare condizione, potenzialmente lesiva“ (Cass. civ., sez. III, 1 febbraio 2018, n. 2482, in Giust. civ., Mass., 2018); posizione, questa, recentemente ribadita e precisata, con l'affermare che, in sostanza, il danneggiato deve provare la dinamica dell'evento, poiché è da tale dimostrazione che – se fornita, ovviamente – può ricavarsi la prova della sussistenza del nesso causale tra evento e cosa in custodia (Cass. civ., sez. VI, 26 luglio 2021, n. 21395, in Giust. civ., Mass., 2021).

Se, come si è evidenziato in precedenza, è il fatto della cosa che determina l'insorgere della responsabilità ex art. 2051 c.c., da tanto discende che il custode, se vuole andare esente da responsabilità, è tenuto, come afferma la dottrina, a provare la efficacia causale esclusiva, o quantomeno concausale, di un fatto diverso dal fatto della cosa, avente natura fortuita (M. FRANZONI, op. cit., p. 489).

Si comprende, allora, perché la S.C. abbia affermato che il danneggiato che agisce ai sensi dell'art. 2051 c.c. in presenza di una cosa inerte e priva di intrinseca pericolosità – quale potrebbe essere una sede stradale – non può esimersi dal fornire la prova sia che lo stato dei luoghi presentava un'obiettiva situazione di pericolosità, tale da rendere molto probabile, se non inevitabile, il verificarsi dell'evento di danno, sia di aver tenuto una condotta improntata a prudenza e cautele commisurate alla situazione di rischio percepibile con l'ordinaria diligenza (Cass. civ., sez. VI, 9 maggio 2018, n. 11023, in Giust. civ., Mass., 2018).

Come si è accennato in precedenza, la giurisprudenza pone alcune distinzioni, sul tema, a seconda delle specifiche caratteristiche possedute dalla res oggetto di custodia.

Infatti, con riguardo alla presenza ovvero assenza di intrinseco dinamismo della res, si è affermato che la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia risulta oggettivamente configurabile qualora la cosa custodita sia di per sé idonea a sprigionare un'energia o una dinamica interna alla sua struttura, tale da provare il danno, come nel caso dello scoppio di una caldaia, oppure di esalazioni venefiche da un manufatto (Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2013, n. 6306, in Archivio della circolazione e dei sinistri, 2013, 6, 612) mentre, nella diversa ipotesi in cui la cosa che si assume aver causato il danno risulti, di per sé, statica e inerte, per cui occorre che l'agire umano, ed in particolare quello del danneggiato, si unisca al modo di essere della cosa, al fine di provare il nesso causale si ritiene indispensabile la dimostrazione, da parte del danneggiato, che lo stato dei luoghi presenti peculiarità tali da renderne potenzialmente dannosa la normale utilizzazione, come nel caso di buche, di ostacoli imprevisti, mancanza di guard-rail, incroci non visibili e non segnalati, e simili (Cass. civ., sez. III, 13 marzo 2013, n. 6306, cit.).

Inoltre, con riguardo al profilo della pericolosità o meno della cosa in custodia, occorre tenere presente come la giurisprudenza distingua l'onere probatorio gravante sul danneggiato a seconda della pericolosità o meno della cosa stessa, con le discendenti conseguenze in caso di mancato assolvimento dell'onere stesso.

Si afferma, infatti, che, ove la cosa risulti inerte e priva di intrinseca pericolosità, è onere del danneggiato fornire una prova articolata su più aspetti, e cioè innanzitutto che sussista una obiettiva situazione di pericolosità dello stato dei luoghi, che appunto risulti tale da rendere altamente probabile, se non addirittura inevitabile, il verificarsi del danno (Trib. Belluno, sez. I, 8 giugno 2021) ed, inoltre, di aver tenuto una condotta, in termini di prudenza ed attenzione, nell'entrare in relazione con la cosa, che possa dirsi parametrata sulla situazione di rischio che, in quelle condizioni, fosse percepibile con l'applicazione della diligenza ordinaria (Trib. Belluno, sez. I, 8 giugno 2021, cit.).

Di contro, nel caso opposto, ove la pericolosità dello stato dei luoghi sia evidente, viene richiesta al danneggiato una prova che, come appare intuibile, non riguarda lo stato dei luoghi, bensì ed al contrario una prova attinente un aspetto soggettivo, relativo alla condotta tenuta dal medesimo in occasione del verificarsi dell'evento, di guisa che, tanto più evidente risulti la condizione dello stato dei luoghi – e quindi tanto più agevolmente percepibile, anche con la sola diligenza media – la situazione di pericolo potenzialmente derivante da esso, tanto più inappuntabile dovrà essere la condotta tenuta dal danneggiato nell'occorso (rectius, la prova che egli è chiamato a fornire) per evitare che la sua condotta, appunto, venga ritenuta aver provocato una interruzione del nesso causale e, conseguentemente, integrato l'esimente della responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c., assistendosi, sostanzialmente, anche in tale ipotesi ad una replicazione del noto meccanismo del c.d. <doppio ciclo causale> che la giurisprudenza di legittimità ha ricostruito come criterio di individuazione del nesso causale (e quindi di imputazione della responsabilità) nelle controversie sulla responsabilità medica.

Infatti, a tal proposito si è recentemente – e condivisibilmente – affermato “Accertato il carattere colposo della condotta tenuta dal danneggiato e l'imprevedibilità / inevitabilità di tale condotta da parte del custode, si assiste ad un'interruzione del nesso causale tra cosa in custodia ed evento dannoso: l'iniziale (apparente) riconducibilità dell'evento alla cosa in custodia provata (già) dal danneggiato, qualora venga successivamente provato dal custode il caso fortuito, regredisce a mera occasione o “teatro” della vicenda produttiva di danno, atteso che la condotta colposa del danneggiato assume efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell'evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente” (Trib. Milano, 6 luglio 2021, n. 5886, cit.); ancora più recente decisione, poi, ha statuito come, a tal fine, non può ritenersi sufficiente, da parte del danneggiato, la sola prova che la cosa in custodia presenti una qualche anomalia, essendo la stessa insufficiente a provare il nesso causale (C.App. Firenze. IV^ sez., 30 agosto 2021, n. 1655).

Pertanto, come del resto si è già avuto modo di osservare, la prova che l'evento (e quindi il danno) sia la conseguenza <normale> della condizione della cosa, il danneggiato in tanto potrà dirsi abbia fornito – dimostrando quindi di avere correttamente assolto all'onere probatorio che la giurisprudenza di legittimità pone a carico del soggetto che invoca la responsabilità ex art. 2051 c.c. - in quanto sia stato in grado di dimostrare che la res oggetto di custodia sia intrinsecamente e potenzialmente dannosa.

Specularmente, per quanto attiene alla posizione del custode ed al relativo onere probatorio, una volta che il danneggiato abbia fornito detta prova, il suddetto riparto dell'onere probatorio comporta che, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2051 e 2697, comma 2, c.c., grava sul custode l'onere di fornire la prova del caso fortuito, cioè di un evento che, per un verso, risulti ad esso custode del tutto estraneo, in quanto si pone del tutto al di fuori della sua attività e, conseguentemente, potere di controllo e, per altro verso, rispetto al prodursi dell'evento di danno, sia in possesso di efficacia causale autonoma, così da interrompere ogni eventuale legame eziologico tra la cosa e l'evento medesimo (G. CASCELLA, op. cit.); onere, quest'ultimo, rispetto al quale la S.C. ha affermato che, se per un verso non si dubita del fatto che esso sia sottoposto alle normali preclusioni istruttorie, per altro verso, tuttavia, esso non integra una eccezione in senso stretto, con la conseguenza che il convenuto/custode che intenda sollevarla, non è tenuto a rispettare il termine di costituzione previsto dal secondo comma dell'art. 167 c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 23 giugno 2016); prova che, infine, ben può essere fornita anche tramite il ricorso allo strumento della prova per presunzioni, come del resto ritiene la giurisprudenza di legittimità, che in proposito ha affermato come detta prova, che consiste nella dimostrazione del verificarsi dell'evento dannoso e della relativa derivazione o meno dalla cosa in custodia, può essere data anche tramite presunzioni, giacché la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato <anomalo> e cioè dell'obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno (Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2020, n. 11096) il che appare, all'evidenza, particolarmente significativo con riferimento proprio alla condotta tenuta dal danneggiato nelle circostanze del caso concreto, del suo entrare in contatto con la cosa in custodia.

In definitiva, allora, una simile prova, ritiene la giurisprudenza, il danneggiato potrà dirsi aver fornito, ove riesca a provare, da un lato, che il fatto si ponga come conditio sine qua non rispetto all'evento di danno – palesandosi come conseguenza normale di esso – e, dall'altro, che la sua efficacia eziologica non venga ad essere sterilizzata da eventi successivi in possesso di autonoma efficacia causale, che appunto interrompano il nesso eziologico (Trib. Lucca. 20 aprile 2016, n. 860).

La nozione di caso fortuito

Secondo la dottrina, l'esimente del caso fortuito, la cui prova, nel caso concreto, da parte del custode, esclude la sussistenza della responsabilità di cui all'art. 2051 c.c., consiste in un fattore che deve presentare determinate e peculiari caratteristiche, che gli consentano di spiegare, nel caso concreto tale sua efficacia esimente (C. SALVI, La responsabilità civile, in Trattato di Diritto Privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2019, p. 181): i) deve porsi al di fuori della sfera di controllo del custode; ii) deve risultare imprevedibile ed eccezione; iii) deve essere in grado di causare l'evento in modo autonomo (C. SALVI, op. oc. ult. cit.) con la conseguenza che, secondo la medesima opinione, è sotto il profilo eziologico che il fortuito assume rilievo, in quanto pone in collegamento causale l'evento e la sua conseguenza - cioè il danno - con il suddetto fattore esterno, escludendone, per converso, la derivazione eziologica dalla cosa in custodia (C. SALVI, op. loc. ult. cit.), per cui appare comprensibile, allora, che altra opinione affermi come solo la prova della imprevedibilità ed inevitabilità – quali elementi che, in caso concreto, connotano l'evento e/o la condotta cui si attribuisce valenza di <caso fortuito> - permetterà al custode di andare esente dalla responsabilità che l'art. 2051 c.c. presume a suo carico (G. ALPA, La responsabilità civile. Parte generale, Milano, 2010, p. 737 e ss.): logica conseguenza di tale ricostruzione si ravvisa nel fatto che tutti i danni che siano riconducibili ad eventi diversi dal fortuito, anche se per avventura rimasti ignoti, sono attribuiti a responsabilità del custode (G. ALPA, op. loc. cit.); in ogni caso, va detto che tale ricostruzione risulta essere condivisa anche dalla dottrina meno recente, per la quale, sostanzialmente, per caso fortuito deve intendersi un evento non previsto né tantomeno prevedibile, che l'uomo non è in grado né di conoscere, né tantomeno di controllare (V. GERI, op. cit., p. 59).

Si osserva, inoltre, che la valutazione della relativa sussistenza, o meno, dovendo innanzitutto partire dal dato acclarato che il caso fortuito deve essere inteso come fattore incidente sul nesso di causa, richiede che si proceda ad una verifica oggettiva della prevedibilità, poiché in base a tale parametro si possono collocare le circostanze fattuali dell'evento in una data sequenza logica, che consenta di affermare, in base all'id quod plerumque accidit, se una data serie di eventi possa ritenersi in possesso di regolarità causale, o meno (F. AGNINO, Caso fortuito ed ordinaria diligenza: quando la caduta si verifica in pieno giorno, il custode non risarcisce i danni, in www.ridare.it); non di meno, il medesimo parametro della prevedibilità mostra la sua utilità in quanto agisce da criterio oggettivo al fine di verificare l'incidenza causale di un fattore che si inserisce successivamente nella sequenza fattuale, onde stabilire se esso risulta in grado di interrompere la regolarità e/o normalità della stessa, ove si mostri idoneo a produrre effetti che, rispetto a tale serie eziologica, si palesino come anomali e/o devianti (F. AGNINO, op. cit.).; infine, va tenuto presente che, nel perimetro applicativo della nozione di <caso fortuito>, autorevole dottrina afferma rientrino diverse tipologie di eventi, tra loro differenziantesi in ragione delle modalità con cui il fattore esterno interviene nella produzione dell'evento di danno (M. FRANZONI, op. cit., p.493): si va dal c.d. <fortuito autonomo>, che come suggerisce l'espressione, è un evento del tutto privo di qualsiasi legame sia con il danneggiato, sia con il custode, e che causa direttamente il danno, al c.d. <fortuito incidentale>, che si verifica nel caso in cui la cosa in custodia, pur se inevitabilmente risulta essere entrata a far parte del processo di verificazione dell'evento di danno, tuttavia non ha spiegato alcun rilievo causale, rivelandosi mera occasione di esso (M. FRANZONI, op. loc. ult. cit.); infine, a questi si associa, poi, il c.d. <fortuito concorrente> che si verifica ove causa originata dalla res in custodia e causa naturale possiedano entrambe incidenza causale nella produzione dell'evento di danno, senza che, tuttavia, tale tipologia di fortuito spieghi, nemmeno in parte, per il custode, efficacia liberatoria dalla sua responsabilità, in quanto la causa naturale (o fortuita) risulta eziologicamente irrilevante – a differenza dell'eventuale fatto del danneggiato e/o di un terzo – e seppure abbia inciso nel prodursi dell'evento, la responsabilità – con il relativo carico risarcitorio – graverà comunque integralmente a carico del custode (M. FRANZONI, op. cit., p. 494-495).

Per la giurisprudenza di merito, tale fattore – che può essere rappresentato da un fatto naturale, dal comportamento del danneggiato oppure di un terzo estraneo - per essere in grado di produrre l'effetto che gli riconosce l'art. 2051 c.c., ovvero la interruzione del nesso causale con conseguente esclusione della responsabilità del custode, deve possedere determinati e specifici caratteri, dovendo risultare: i) autonomo; ii) eccezionale; iii) imprevedibile; iv) inevitabile; v) infine, in grado di provocare il danno senza il concorso di ulteriori eventi e/o condotte (Trib. Milano, sez. X, 6 luglio 2021, n. 5886, cit.); si comprende, allora, perché la giurisprudenza abbia affermato come l'obbligo del custode di segnalare il pericolo connesso all'uso della cosa si arresta di fronte ad un'ipotesi di utilizzazione impropria della stessa, la cui pericolosità sia talmente evidente ed immediatamente apprezzabile da chiunque, tale da renderla del tutto imprevedibile, sicché l'imprudenza del danneggiato che abbia riportato un danno a seguito di siffatto uso improprio integra il caso fortuito per gli effetti di cui all'art. 2051 c.c. (Trib. Lucca, 20 aprile 2106, n. 860, cit.).

E' infine da rilevare come la giurisprudenza di legittimità, con recenti decisioni, abbia accolto una nozione senza dubbio rigorosa di <caso fortuito>, affermando innanzitutto che la condotta della vittima del danno causato da una cosa in custodia può integrare un "caso fortuito", risultando pertanto causa di integrale esclusione della responsabilità del custode ai sensi dell'art. 2051 c.c., solo allorquando si riscontri, nel caso concreto, che per un verso sia stata colposa e, per altro verso, non poteva essere prevista, da parte del custode (Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25837, in Arch. Locazioni, 2018, 1, 52); per altro verso, è senza dubbio importante tenere presente che i due aspetti non sono tra loro sovrapponibili, né fungibili, dovendosi tenere ben distinti il profilo della negligenza e/o imprudenza del danneggiato, da un lato, con quello, dall'altro, della imprevedibilità, per il custode, di una simile condotta, per cui al riguardo la S.C. ha successivamente affermato come, essendo eterogenei i concetti di <negligenza della vittima> e di <imprevedibilità> della sua condotta da parte del custode, da tanto discente che il mero accertamento di una condotta eventualmente negligente, distratta, imperita e/o imprudente del danneggiato che agisce ex art. 2051 c.c., essa non è sufficiente, in re ipsa, ad escludere la responsabilità del custode (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2020, n. 26524, in Guida al Diritto, 2020, 50, 92) dal momento che tale responsabilità “è infatti esclusa dal caso fortuito, ed il caso fortuito è un evento che praevideri non potest. L'esclusione della responsabilità del custode, pertanto, quando viene eccepita dal custode la colpa della vittima, esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile.” (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2020, n. 26524, cit.).

Il concorso di colpa del danneggiato

Va innanzitutto brevemente ricordato che, come afferma autorevole dottrina, il referente normativo di tale fattispecie, ovvero l'art. 1227 c.c., disciplina nei due commi in cui si articola, due aspetti diversi, di cui il primo sostanzialmente oggettivo, attenendo alla regolamentazione dell'eventuale ascrivibilità eziologica - o meno – dell'evento dannoso al preteso creditore, mentre il secondo inerisce ad un aspetto diverso, conferendo rilievo, sotto il profilo soggettivo, alla correttezza o meno del comportamento del creditore stesso, chiamato a tenere una condotta volta, pur in presenza dell'altrui comportamento illecito, ad evitare il prodursi del danno o comunque ad attenuarne al massimo possibile l'entità (C.M. BIANCA, sub art. 1227, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1988, p. 403).

Inoltre, il suddetto elemento fattuale – id est, la condotta colposa del preteso creditore - è da intendersi come circostanza che va ascritta eziologicamente a colui che si professa creditore (quindi nella fattispecie ex art. 2051 c.c., al danneggiato) la cui incidenza causale si rende necessario accertare, anche sotto il profilo dell'eventuale condotta colposa del medesimo, quale concausa dell'evento e del danno stesso, che in quanto tale pone a carico del danneggiato, in sostanza, quella quota di danno che egli stesso abbia contribuito a provocare (M. FRANZONI, op. cit., p. 110 e ss).

Fermo quanto sopra, va detto che tale elemento assume una indubbia rilevanza ai fini pratici ed applicativi, risultando in grado di incidere, in molte occasioni – come del resto è agevole riscontrare esaminando le decisioni di merito relative alle controversie in tema di responsabilità ex art. 2051 c.c. – sull'esito delle domande proposte dai danneggiati.

Al riguardo, si segnala che, con recente decisione, i giudici di legittimità sono pervenuti a ricostruire i contorni della condotta del danneggiato e le modalità in cui il suo concreto esplicarsi, nel venire in contatto con la cosa in custodia, siano suscettibili di incidere sul nesso causale, graduando conseguentemente la misura della responsabilità del primo (e, specularmente, del custode) a seconda di quale sia stata l'incidenza concretamente spiegata; si afferma, infatti “In tema di responsabilità per danni causati da cose in custodia la adozione di normali cautele da parte del danneggiato può assumere efficienza causale nella determinazione dell'evento dannoso fino a escludere la responsabilità del custode, interrompendo il nesso di derivazione causale, là dove assuma efficienza causale autonoma. Il che implica evidentemente che l'evento dannoso possa trovare causa o concausa nel comportamento della vittima, ma affinché quest'ultimo assuma efficienza causale autonoma ed esclusiva deve essere qualificabile come abnorme, cioè estraneo al novero delle possibilità fattuali congruamente prevedibili in relazione al contesto, potendo, in caso contrario, rilevare ai fini del concorso causale ai sensi dell'articolo 1227 del cc” (Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2020, n, 9693, in Guida al Diritto, 2020, 39, 79).

In tale prospettiva, allora, si riconosce come il caso fortuito, da un lato, e l'attività di custodia da parte del soggetto che deve a tanto ritenersi onerato, dall'altro, costituiscano due facce della stessa medaglia, tra le quali si afferma la sussistenza di una influenza a senso unico, spiegata dalla res, in quanto “La vigilanza del custode, in ultima analisi, viene a essere circoscritta dal suo opposto, cioè dal caso fortuito, che traduce in riferimento alla posizione del custode il generale principio a impossibilia nemo tenetur. Le caratteristiche della cosa custodita, infatti, plasmano e delimitano il caso fortuito, configurando l'obbligo custodiale sotto il profilo ex ante, ovvero della prevedibilità che rientra quindi nella possibilità giuridica dell'adempimento dell'obbligo stesso” (Cass. civ., sez. III, 25 maggio 2020, n, 9693, cit.); in linea con tale orientamento, i giudici di legittimità hanno successivamente affermato che la condotta colposa del danneggiato, se per un verso non possa negarsi sia suscettibile di spiegare efficacia causale nella produzione dell'evento e delle sue conseguenze, per altro verso di per sé non è sufficiente a far ritenere integrata la esimente prevista dall'art. 2051 c.c., ma occorre accertare se ed in che termini la situazione di pericolo originata dallo stato dei luoghi fosse effettivamente prevedibile, e conseguentemente anche evitabile, da parte del danneggiato (Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2020, n. 26524, cit.) dato che, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del suo comportamento imprudente nel dinamismo causale del danno (Cass. civ., sez. VI, 3 aprile 2019, n. 9135) con la conseguenza che detto comportamento potrà anche risultare idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando possa escludersi che il comportamento in questione rappresenti un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, ed invece, al contrario, si caratterizzi per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro (Cass. civ., sez. VI, 3 aprile 2019, n. 9135, cit.): orientamento, questo, condiviso dai giudici di merito, secondo cui, nell'ipotesi di cui all'art. 2051 c.c.la condotta del danneggiato, che entri in interazione con la cosa, si atteggia diversamente a seconda del grado di incidenza causale sull'evento dannoso, in applicazione - anche ufficiosa - dell'art. 1227, comma 1, c.c., richiedendo una valutazione che tenga conto del dovere generale di ragionevole cautela, riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 Cost., sicché, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte del danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, tanto più incidente deve considerarsi l'efficienza causale del comportamento imprudente del medesimo nel dinamismo causale del danno, fino a rendere possibile che detto comportamento interrompa il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un'evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l'esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro”(App. Firenze, sez. II, 28 luglio 2020, n. 1443).

In ogni caso, va tenuto presente che, con molto recente decisione, la S.C. ha ribadito come sulla condotta del danneggiato e sulla sua efficacia causale incida anche l'eventuale conoscenza ed abituale frequentazione dello stato dei luoghi, tanto comporta, per un verso, che le condizioni di detto stato dei luoghi non possono che essergli note, e, per altro verso, che la potenziale idoneità di tali condizioni a provocare una caduta risulta facilmente percepibile, per cui si tratta di elementi che avrebbero dovuto indurlo ad astenersi dal transitare per quel tratto di strada, a maggiore ragione allorquando l'evento risulti accaduto in presenza di valide condizioni di visibilità, con conseguente riconoscimento della incidenza causale esclusiva, o quantomeno concorrente, della sua condotta nell'eziologia dell'evento di danno (Cass. civ., sez. VI (3), 26 luglio 2021, n. 21399); a tanto va poi aggiunto che, come affermato dalla giurisprudenza di merito, nel caso in cui la situazione dello stato dei luoghi risulta tale da tempo, e parimenti risulta anche conosciuta da colui che si lamenta danneggiato, oltre ad essere agevolmente percepibile in ragione delle condizioni di visibilità sussistenti nel caso concreto, non è ravvisabile alcuna insidia e/o trabocchetto – e quindi non è a parlarsi di responsabilità nemmeno ex art. 2043 c.c., vista l'inesistenza di qualsivoglia insidia - in quanto la caduta va necessariamente ricondotta, in via esclusiva, alla condotta imprudente e/o negligente del danneggiato (Trib. Savona, 27 aprile 2021, n. 328).

Profili processuali della fattispecie

La fondamentale peculiarità di tale ipotesi di responsabilità, comune del resto a tutte le ipotesi di responsabilità "speciale" va ravvisata, per la dottrina, nella circostanza che i fatti costitutivi di tali ipotesi sono differenti, rispetto a quelli della responsabilità generale, con la conseguenza che essendo differente la struttura delle norme che introducono ipotesi di responsabilità speciale, quasi sempre oggettiva, da quella della norma sulla responsabilità aquiliana <generale>, ovvero l'art. 2043 c.c. (M. FRANZONI, op. cit.) il che comporta, quale la logica conseguenza, secondo la medesima opinione, una evidente diversità anche nel relativo accertamento, affermandosi infatti che “accertare l'esercizio di una attività pericolosa, l'esistenza di una custodia, di una proprietà di un animale o di un edificio, e così via, è altro dall'accertamento della colpa” (M. FRANZONI, op. loc. ult. cit.).

Da tale indiscutibile premessa discende, allora, che, l'evidente diversità dei relativi fatti costitutivi, da un lato, e, dall'altro, la irrilevanza della colpa, sono elementi che impediscono di ritenere che, provati i primi, possa ritenersi provata anche la seconda, e viceversa; il che, indiscutibilmente, crea problemi al danneggiato/attore, soprattutto nel caso di transito della controversia tra diversi gradi di giudizio, con le relative preclusioni. Nel confermare tale sostanziale differenziazione, e le conseguenze processuali dalla stessa derivanti, tuttavia la S.C. lascia una porta aperta alla possibilità di valorizzare utilmente, per il danneggiato, diverse ipotesi di responsabilità, e segnatamente una responsabilità speciale unitamente a quella di carattere generale, a condizione che il danneggiato abbia avuto l'accortezza di effettuare, in primo grado, una determinata allegazione fattuale.

Infatti, se quanto al primo aspetto, il criterio generale fissato dalla giurisprudenza di legittimità risulta essere quello per cui, ove l'attore abbia, in primo grado, invocato la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 c.c., stante il divieto di introdurre domande nuove previsto dall'art. 345 c.p.c. - la cui violazione è rilevabile d'ufficio - non gli è consentito, in appello, di invocare il riconoscimento, con la conseguente condanna del convenuto, della responsabilità del medesimo prevista dall'art. 2051 c.c., ovvero per responsabilità per cose in custodia (Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2013, n. 15666, in Giust. civ., Mass., 2013) dato che i presupposti fattuali delle due ipotesi di responsabilità sono, se non del tutto, quantomeno in parte, diversi, e quindi diversi risultano anche gli accertamenti occorrenti (Cass. civ., sez. III, 6 aprile 2006, n. 8095, in Giust. civ., Mass., 2006, 4) quanto al secondo aspetto, la S.C. fissata la regola, individua anche l'eccezione, affermando che simile mutamento di rotta può ritenersi consentito solo nel caso in cui il danneggiato/attore, invece, abbia “sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, in quanto compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata da detto articolo” (Cass. civ., sez. III, 21 giugno 2013, n. 15666, cit.); a tale apertura, comunque in seguito la S.C. ha posto, tuttavia, dei limiti, sia osservando che una volta proposta in primo grado una domanda ai sensi dell'art. 2043 c.c. - fondata, ad esempio, sulle figure dell'insidia e del trabocchetto, ancorché impropriamente richiamate - non è consentito alla parte in grado di appello fondare la medesima domanda sulla violazione dell'obbligo di custodia, perché ciò verrebbe inevitabilmente a stravolgere il processo, mettendo il danneggiante nella situazione di doversi attivare quando una serie di preclusioni processuali si sono già maturate (Cass. civ., sez. III, 21.9.2015, n. 18643, in Giust. civ., Mass., 2015) sia affermando che, in ogni caso - e così mostrando evidente considerazione della necessità di bilanciare le contrapposte posizioni - che le diverse regole di imputazione della responsabilità previste da detti articoli, essendo più favorevoli per l'attore danneggiato poiché comportanti un'inversione dell'onere della prova, in tanto possono essere poste a fondamento della responsabilità del convenuto, in quanto non si ascriva al medesimo la mancata prova di fatti che egli non sarebbe stato tenuto a provare in base al criterio di imputazione della responsabilità (art. 2043 c.c.) originariamente invocato dall'attore (Cass. civ., sez. III, 5 agosto 2013, n. 18609, in Giust. civ., Mass., 2013).

In conclusione

Appare opportuno, in conclusione, formulare alcune brevissime considerazioni in ordine, in particolare, alla prova che il danneggiato che agisce ex art. 2051 c.c. è chiamato a fornire.

Invero, proprio sulla scorta del consolidato orientamento di legittimità che ritiene detto soggetto onerato di fornire la prova del nesso causale tra la cosa in custodia (rectius, la sua condizione) e l'evento di danno, tale onere non può ritenersi assolto con la dimostrazione che – ad esempio – la caduta sia avvenuta in corrispondenza di un punto della sede stradale – o, in ogni caso, della cosa in custodia - che presenti una anomalia, richiedendosi invece al danneggiato, proprio perché la condizione di pericolosità della cosa rientra nell'accertamento del nesso causale, di fornire una prova circostanza del punto esatto in cui la caduta si è verificata, delle specifiche condizioni in cui esso si presentava, poiché solo ove una prova del genere venga fornita dal danneggiato, potrà ritenersi che la condizione abituale della cosa – e quindi, eventualmente, anche una potenziale pericolosità della stessa – si sia posta effettivamente in nesso causale con l'evento, come del resto affermato anche da recente decisione di merito (C. App. Firenze. IV^ sez., 30 agosto 2021, n. 1655, cit.).

Il che appare indispensabile anche per consentire al convenuto-custode di potersi validamente difendere, dato che risultando simile prova un antecedente logico rispetto a quella che, eventualmente, il custode deve ritenersi onerato a fornire, se fornita ovviamente il medesimo avrà tutti gli elementi a disposizione per provare, eventualmente, a dimostrare la sussistenza del caso fortuito, mentre, ovviamente, in caso di mancanza di simile prova, verosimilmente dovrebbe vedere rigettata la domanda proposta nei suoi confronti, stante il noto brocardo actore non probante, reus absolvitur.

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