L'atto di impugnazione inviato via PEC è inammissibile se non rispetta i requisiti previsti dal decreto Ristori

Giuseppe Vitrani
28 Ottobre 2021

L'atto di impugnazione inviato a mezzo posta elettronica certificata deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell'art 24, comma 6-sexies, d.l. 137 del 2020 (decreto Ristori) se non rispetta i requisiti previsti da tale norma e dal comma 6-bis del medesimo articolo.
Massima

L'atto di impugnazione inviato a mezzo posta elettronica certificata deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell'art 24, comma 6-sexies, d.l. 137 del 2020 se non rispetta i requisiti previsti da tale norma e dal comma 6-bis del medesimo articolo.

In particolare, nel caso di specie, veniva dichiarato manifestamente infondato il ricorso per Cassazione proposto avverso un riesame dichiarato inammissibile perché trasmesso ad un indirizzo PEC non corrispondente a quello individuato con provvedimento del 9 novembre 2020 del DGSIA, privo di firma digitale e privo di firma digitale in calce a ciascuno degli allegati trasmessi in copia per immagine.

Fonte: ilprocessotelematico.it

Il caso

Il caso scrutinato dalla Corte di Cassazione esamina importanti profili di diritto intertemporale in tema di proposizione delle impugnazioni a mezzo PEC.

In particolare si è posto il caso di un riesame proposto con deposito a mezzo posta elettronica certificata in data 26 dicembre 2020, ovvero il giorno successivo all'entrata in vigore del comma 6-bis dell'art. 24 del d.l. 137/2020, introdotto dalla legge di conversione n. 179/2020. Grazie a tale norma è stato posto rapidamente termine al dibattito e alle polemiche giurisprudenziali e dottrinarie relative appunto all'ammissibilità del deposito degli atti di impugnazione a mezzo della posta elettronica certificata ma si sono poste anche regole precise per l'ammissibilità di siffatti depositi, che nel caso di specie risultavano violate.

La questione

La questione esaminata dalla Corte di Cassazione è importante per riaffermare come la rigida regolamentazione del deposito telematico degli atti di impugnazione a mezzo PEC non lasci molti margini di manovra al giudice.

Come noto, il legislatore ha infatti previsto che “quando il deposito di cui al comma 4 ha ad oggetto un'impugnazione, l'atto in forma di documento informatico è sottoscritto digitalmente secondo le modalità indicate con il provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati di cui al comma 4 e contiene la specifica indicazione degli allegati, che sono trasmessi in copia informatica per immagine, sottoscritta digitalmente dal difensore per conformità all'originale” (art. 24, comma 6-bis, d.l. n. 137/2020).
Tale norma è altresì accompagnata da un rigido regime sanzionatorio, essendo prevista l'inammissibilità:

a) quando l'atto di impugnazione non è sottoscritto digitalmente dal difensore;

b) quando le copie informatiche per immagine di cui al comma 6-bis non sono sottoscritte digitalmente dal difensore per conformità all'originale;

c) quando l'atto è trasmesso da un indirizzo di posta elettronica certificata che non è presente nel Registro generale degli indirizzi certificati di cui al comma 4;

d) quando l'atto è trasmesso da un indirizzo di posta elettronica certificata che non è intestato al difensore;

e) quando l'atto è trasmesso a un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato per l'ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato dal provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati di cui al comma 4 o, nel caso di richiesta di riesame o di appello contro ordinanze in materia di misure cautelari personali e reali, a un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato per il tribunale di cui all'articolo 309, comma 7, del codice di procedura penale dal provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati di cui al comma 4.

A fronte di tale assetto normativo la Suprema Corte si è trovata ad esaminare un ricorso:

  • privo di firma digitale;
  • i cui allegati in copia per immagine non erano firmati digitalmente al fine di attestarne la conformità agli originali cartacei;
  • trasmesso ad un indirizzo PEC differente da quello indicato nel provvedimento del 9 novembre '20 del DGSIA.
Le soluzioni giuridiche

La Corte di Cassazione ha risposto in maniera molto netta giudicando il ricorso come manifestamente infondato proprio perché mancante dei requisiti previsti dalla normativa sopra esaminata, in primo luogo della firma digitale sul ricorso e sugli allegati.

Per quanto concerne l'invio ad una casella PEC differente da quella individuata con il provvedimento citato del DGSIA, gli ermellini non hanno potuto far altro che ribadire quanto già statuito dalla prima sezione con la pronuncia n. 9887 del 26 gennaio '21 e cioè che “in tema di disciplina emergenziale per la pandemia da Covid-19, sono inammissibili i motivi nuovi del ricorso per cassazione trasmessi a una casella di posta elettronica certificata diversa da quella individuata dal provvedimento del 9 novembre 2020 emesso dal direttore generale dei sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, ai sensi del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 24, comma 4, convertito con modificazione dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176”.

Osservazioni

Le risposte date dalla Corte di Cassazione appaiono corrette e non potrebbe essere altrimenti, visto che, come detto, il legislatore ha fatto ampio ricorso alla sanzione dell'inammissibilità, togliendo di fatto ogni spazio all'interpretazione giurisprudenziale.

Semmai si possono fare alcune considerazioni circa la tecnica legislativa, probabilmente troppo rigida e poco coordinata con il codice dell'amministrazione digitale.

In effetti, se esigenze di ordine sistematico possono forse giustificare l'inammissibilità di un atto recapitato ad un indirizzo PEC errato, risultano poco comprensibili altre scelte compiute dal legislatore.

La sanzione dell'inammissibilità appare una forzatura in primo luogo per quanto riguarda la mancanza della firma digitale sugli allegati trasmessi unitamente all'impugnazione; detta firma dovrebbe infatti semplicemente attestare la conformità all'originale delle copie (per immagine) allegate alla PEC, sicché non si comprende la scelta della sanzione draconiana innanzitutto se la si compara con quanto previsto dall'art. 22, comma 3, del codice dell'amministrazione digitale (che, per inciso, è norma applicabile anche al processo penale telematico) e cioè che “le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle Linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all'originale non è espressamente disconosciuta”.

Come si vede, una scelta molto più tollerante che negli ultimi tempi ha anche convinto la Corte di Cassazione civile a non sanzionare con improcedibilità o inammissibilità i depositi di ricorsi che recavano in allegato copie di sentenze o di notificazioni prive di firma digitale o di attestazione di conformità.

Ma tale scelta è ancor meno comprensibile se si pensa che in fattispecie analoga (copia per immagine della procura conferita in forma analogica) il legislatore del processo civile (all'art. 83 c.p.c.) non ha in alcun modo comminato la sanzione in commento.

Ugualmente si può ragionare circa la congruità della sanzione dell'inammissibilità per un ricorso privo di firma digitale ma correttamente spedito dall'indirizzo PEC censito all'interno dei pubblici registri.

Invero, a far da contraltare alle norme in commento esiste l'art. 65 CAD, secondo il quale le istanze e le dichiarazioni presentate per via telematica alle pubbliche amministrazioni e ai gestori dei servizi pubblici sono valide se trasmesse dall'istante o dal dichiarante dal proprio domicilio digitale iscritto in uno degli elenchi di cui all'articolo 6-bis, 6-ter o 6-quater, senza altri requisiti. In tal caso viene dunque considerata sufficiente la sola trasmissione di un'istanza dal domicilio digitale, senza ulteriori formalismi.

Se si pensa agli indirizzi PEC che gli avvocati utilizzano per la trasmissione delle impugnazioni tale approccio appare certamente più corretto e maggiormente in grado di assicurare giustizia sostanziale.

Invero, gli indirizzi PEC (rectius: i domicili digitali) in questione vengono da sempre comunicati al Reginde e all'INI-PEC dagli Ordini di appartenenza di ciascun professionista, con un meccanismo tale da generare una corrispondenza biunivoca tra il codice fiscale dell'avvocato (adoperato come strumento di “disambiguazione”) e l'indirizzo PEC. Peraltro, tali indirizzi di spedizione sono gli stessi che le cancellerie adoperano per le comunicazioni e notificazioni,

A ciò si aggiunga che, per effetto della novella introdotta dall'art. 7 del d.lgs. 179/2016 e con l'introduzione del comma 2-bis nell'art. 6-bis del CAD, secondo cui "l'INI-PEC acquisisce dagli ordini e dai collegi professionali gli attributi qualificati dell'identità digitale ai fini di quanto previsto dal decreto di cui all'articolo 64, comma 2-sexies", gli indirizzi PEC inseriti in INI-PEC finiscono col divenire attributi dell'identità digitale dei soggetti.

Inoltre, a rafforzare le caratteristiche di univocità ed essenzialità del domicilio digitale, è giunto il d.l. 76 del 2020, modificando il comma 7 dell'art. 16 d.l. 185 del 2008, il quale ora, per quanto qui d'interesse, prevede che “i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato comunicano ai rispettivi ordini o collegi il proprio indirizzo di posta elettronica certificata o analogo domicilio digitale di cui all'articolo 1, comma 1, lettera n-ter del decreto-legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.

Il successivo comma 7-bis, di nuova introduzione, stabilisce invece che il professionista che non comunica il proprio domicilio digitale all'albo “è obbligatoriamente soggetto a diffida ad adempiere, entro trenta giorni, da parte del Collegio o Ordine di appartenenza. In caso di mancata ottemperanza alla diffida, il Collegio o Ordine di appartenenza applica la sanzione della sospensione dal relativo albo o elenco fino alla comunicazione dello stesso domicilio”.

È chiara dunque l'intenzione del legislatore di includere tutti i professionisti, identificati in maniera univoca attraverso le comunicazioni effettuate all'Ordine di appartenenza, all'interno dell'Indice dei domicili digitali.

Appare dunque evidente come l'assetto normativo attuale consenta di affermare che il domicilio digitale istituito presso un indirizzo di posta elettronica certificata sia effettivamente riconducibile ad un unico mittente (e ovviamente ad un unico destinatario), con conseguente sicurezza dell'imputabilità degli effetti giuridici ai soggetti protagonisti di una determinata comunicazione elettronica; inoltre il solo fatto che un documento sia allegato alla PEC ne garantisce integrità ed immodificabilità.

Anche in tal caso, pertanto, la sanzione dell'inammissibilità appare sin troppo severa.

La decisione della Corte di Cassazione appare scontata, vista la rigorosa disciplina normativa, che di fatto sanziona con l'inammissibilità qualsivoglia errore commesso nella redazione della PEC.

Semmai, come evidenziato nel commento, si dovrebbe discutere dell'adeguatezza delle sanzioni, che appaiono spesso spropositate e mostrano una sfiducia nello strumento telematico e anche probabilmente anche una scarsa conoscenza delle garanzie che esso offre in termini di integrità dei documenti processuali e di riconducibilità al loro autore.

Pare invero che il legislatore si sia orientato alla scelta del deposito a mezzo PEC solo perché costretto dalla situazione sanitaria ma lo abbia fatto con enorme sfiducia, circondando la riforma con una serie di sanzioni di carattere formalistico che possono al più scoraggiare l'utente e che allontanano sempre di più l'orizzonte della giustizia sostanziale.

L'auspicio per il futuro è che ci possa essere un mutamento di prospettiva; diversamente il rischio delle riforme della giustizia in senso digitale sarà quello, paradossale, di allontanare i professionisti dal digitale.

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