Sciolta la comunione tra coniugi l'ex moglie non imprenditrice diventa titolare dei beni de residuo?

Rosa Villani
27 Ottobre 2021

La parola alle Sezioni Unite. La tesi che postula l'istaurazione tra coniugi di una vera e propria comunione di proprietà sui beni de residuo si caratterizzerebbe per una sua irragionevolezza laddove, secondo quanto previsto dall'art. 178 c.c., in vigenza della comunione il coniuge imprenditore è esclusivo titolare dei beni aziendali e della gestione e conduzione dell'azienda per poi essere privato di tali diritti all'esito dello scioglimento della comunione.

Tale interpretazione condurrebbe dunque a soluzioni inique, facendo compartecipare il coniuge non imprenditore nella titolarità dei beni aziendali, ma non sulle relative passività, le quali resterebbero in capo al coniuge imprenditore, con sostanziale obliterazione della disposizione contenuta nell'art. 194 c.c.

E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione nell'ordinanza interlocutoria n. 28872 depositata il 19 ottobre 2021.

Il fatto. L'ex moglie, con atto di citazione ritualmente notificato, conveniva innanzi al Tribunale territorialmente competente, l'ex marito con il quale aveva costituito una s.r.l. avente ad oggetto il commercio di macchine aziendali, società della quale era Amministratore il suddetto ex marito anche titolare di una quota pari al 55% mentre l'attrice lo era della restante parte.

In particolare, quest'ultima, ponendo riferimento all'art. 178 c.c. sosteneva di essere comproprietaria per la metà, tra l'altro, anche di tutti i beni immobili e mobili dell'impresa artigiana dell'marito oltre che delle quote della citata s.r.l. ancora allo stesso intestate.

Sulla base di tale premessa l'attrice citava in giudizio il convenuto chiedendo la divisione di tutti i beni aziendali intestati a quest'ultimo, nonché l'accertamento degli utili percepiti e percipiendi dallo stesso convenuto il quale costituitosi in giudizio resisteva alla domanda, invocandone il rigetto ed eccependo, altresì, l'avvenuto acquisto per usucapione di tutti gli immobili dedotti in controversia, compresi quelli aziendali e delle costruzioni insistenti sugli stessi beni.

Il Tribunale adito, con sentenza non definitiva, previa applicazione dell'art. 178 c.c., dichiarava l'attrice proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, e rigettava la domanda riconvenzionale di usucapione formulata dal convenuto, dichiarandone il difetto dei relativi presupposti. Con la suddetta sentenza, infine, il Tribunale disponeva la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali. Successivamente, lo stesso Tribunale, con sentenza questa volta, definitiva, dichiarava esecutivo il progetto di divisione approvato dal CTU designato dal Giudice, e, per l'effetto, assegnava all'attrice la titolarità di diversi beni immobili aziendali.

Avverso tutte le sentenze (quelle definitive e quelle non definitive) del Tribunale adito, il convenuto proponeva appello a seguito del quale, in parziale riforma della sentenza resa in primo grado, la Corte distrettuale accoglieva per quanto di ragione il gravame proposto dall'appellante dichiarando che, per l'effetto dello scioglimento della comunione de residuo, l'ex moglie era titolare solo di un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni costituenti l'impresa esercitata a titolo personale dall'ex marito in costanza di matrimonio. Inoltre, disponeva, con separata ordinanza, la prosecuzione del giudizio di appello ai fini dell'accertamento in concreto dell'esistenza e dell'entità del credito, nonché dei relativi frutti.

Avverso la suddetta sentenza non definitiva di secondo grado resa dalla Corte di Appello proponeva, quindi, ricorso per Cassazione l'ex moglie la quale con il primo dei tre quattro motivi di ricorso denunciava violazione e/o falsa applicazione di numerosi articoli del codice civile quali: 177-179, 186, 191,194, 718, 725-729,1111, 1114-1116 dovendosi considerare, secondo costei e in difformità rispetto all'impugnata sentenza, che l'esigenza di ripartire tra i coniugi pure i debiti gravanti sui beni destinati all'esercizio dell'impresa, avrebbe dovuto considerarsi pienamente salvaguardata anche riconoscendo al coniuge non imprenditore un diritto reale sugli stessi beni, senza necessità di trasformare il diritto di detto coniuge in un diritto di credito.

Il Collegio di legittimità ha ritenuto che con l'esame del predetto motivo veniva in rilievo una questione di massima di particolare importanza che implicava una valutazione di opportunità di rimettere la decisione alle Sezioni Unite, considerate anche la sua estrema rilevanza giuridica e le conseguenze che la soluzione scelta avrebbe prodotto sul piano pratico.

In particolare, i giudici di legittimità affermano che la questione investa la natura giuridica della c.d. comunione de residuo – ovvero quella meramente residuale e differita che viene a formarsi all'atto dello scioglimento del regime legale a condizione che i beni che ne formano oggetto non siano stati consumati prima di tale momento – su cui si contendono il campo due differenti tesi.

Il Collegio di legittimità prosegue evidenziando che, da un lato vi è l'orientamento giurisprudenziale a sostegno della natura di diritto di credito che discenderebbe dall'art. 178 c.c. il quale regola, compiutamente, senza distinguere tra mobili ed immobili, gli acquisti di un coniuge per impresa costituita dopo il matrimonio, nonché dell'inapplicabilità a tali acquisti delle disposizioni di cui al secondo comma dell'art. 179 c.c. Secondo tale orientamento, tale soluzione valorizzerebbe le esigenze sottese all'istituto della comunione de residuo, ovvero quelle del coniuge non imprenditore di vantare una legittima aspettativa agli incrementi di valore di quei beni e, parimenti, quelle del coniuge imprenditore di operare liberamente le sue scelte imprenditoriali.

Dall'altro lato invece, vi è l'orientamento di segno opposto che propende per la natura reale del diritto in questione, essendosi statuito che, in tema di imposta sulle successioni, il saldo attivo di un conto corrente bancario, intestato – in regime di comunione legale dei beni – soltanto ad uno dei coniugi, e nel quale siano affluiti proventi dell'attività separata svolta dallo stesso, se ancora sussistente entra a far parte della comunione legale dei beni ai sensi dell'art. 177, primo comma, lett. c) c. c., al momento dello scioglimento della stessa, determinato dalla morte, con la conseguente insorgenza, solo da tale epoca, di una titolarità comune dei coniugi sul predetto saldo, evidenziandosi che lo scioglimento attribuisce invero al coniuge superstite una contitolarità propria sulla comunione e, attesa la presunzione di parità delle quote, un diritto proprio, e non ereditario, sulla metà dei frutti e dei proventi residui, già esclusivi del coniuge defunto.

I Giudici concludono ritenendo che, nella specie, alla stregua del problematico quadro esposto, della indubbia rilevanza della questione (anche sul piano delle conseguenze pratiche derivanti dall'adesione all'una o all'atra tesi) sulla quale non vi è uniformità di opinioni dottrinali, e dell'assenza di una precedente presa di posizione diretta, effettiva e consapevole da parte della giurisprudenza di legittimità, sussistano pienamente le condizioni per sottoporre la risoluzione della stessa involta dal primo motivo del ricorso, da intendersi come una questione di massima di particolare importanza ai sensi dell'art. 374, comma 2, c.p.c., alle Sezioni Unite.

Fonte: dirittoegiustizia.it

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