Imputato per reato ostativo e condanna inferiore a tre anni: opera il divieto di custodia cautelare?

10 Novembre 2021

In presenza di pena da espiare inferiore a tre anni è ragionevole ritenere l'imputato per reato ostativo che invoca il divieto di custodia personale tenuto a provare l'assenza di elementi dimostrativi di collegamenti con il crimine organizzato?
Massima

Secondo l'interpretazione letterale delle prescrizioni costituenti il combinato disposto delle due norme di cui all'art. 275 comma 2-bisc.p.p. e all'art. 4-biscomma 1-terord. pen., il divieto di applicazione e, conseguentemente, quello per il mantenimento della custodia cautelare in carcere opera per la rapina aggravata in presenza di condanna inferiore a tre anni, quando non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

Tuttavia compete all'istante, in linea generale, provare la insussistenza degli anzidetti elementi di pericolosità ostativi, trattandosi di fatto positivo a proprio vantaggio, anche se l'esigenza di una prova siffatta può venire meno in considerazione delle particolari modalità esecutive della rapina che pur se commessa da persone riunite, dimostrino di per sé l'assenza di collegamenti con il crimine organizzato.

Il caso

L'imputata minorenne ha proposto ricorso, a mezzo del proprio difensore, avverso il provvedimento con cui il tribunale per i minori di Milano in funzione di giudice dell'appello cautelare aveva respinto il gravame contro l'originario rigetto da parte del Gip in sede, in ragione della ostatività del reato di rapina aggravata contestato in concorso, della richiesta di sostituzione della custodia carceraria con quella domiciliare.

Con unico motivo è stata dedotta la violazione di legge per erronea interpretazione da parte dei giudici del merito cautelare dell'art. 275 comma 2-bis c.p.p. in relazione all'art. 4-bisord. pen., al contempo invocando la entità della condanna, sopraggiunta nelle more alla pena di anni uno e mesi dieci di reclusione, significativamente inferiore alla soglia legale fissata in anni tre per l'operatività del divieto di applicazione di custodia intramuraria o domiciliare.

La Corte di legittimità, ritenendo la fondatezza del ricorso, ha espresso i principi di diritto riassunti in massima ed ha annullato l'ordinanza impugnata rinviando al giudice a quo per un nuovo giudizio da espletarsi nel rispetto dei principi enunciati.

La questione

Stando alla sintetica ricostruzione dell'excursus processuale come delineato nella sentenza in esame, il ricorrente avrebbe posto la questione in termini di generale operatività del divieto di applicazione di misure custodiali previsto dall'art. 275 comma 2-bis c.p.p. anche per i reati ostativi di cui all'art. 4-bis ord. pen., allorché sia intervenuta, come nel caso di specie, una sentenza di condanna anche non definitiva, per una pena detentiva inferiore a tre anni.

La Corte, pur censurando l'interpretazione delle disposizioni in esame espressa dai giudici del merito cautelare, ha tuttavia avuto cura di approfondire e precisare i termini della quaestio.

In presenza di una valida devoluzione, ma superando la tesi della ricorrente, ha premesso, con dovizia di richiami di propri recenti arresti sul tema, che la soglia temporale prognostica di tre anni di pena detentiva irrogabile alla quale risulta collegato il divieto custodiale, deve ritenersi operante non solo nella fase di applicazione, ma anche in quella di esecuzione della misura, costituendo tale soglia una regola di valutazione della proporzionalità della misura custodiale.

Quindi, ha ricordato che il divieto in esame non può operare, pur in presenza di una pena pronosticata o applicata inferiore ad anni tre, allorché si procede per taluno dei reati ostativi elencati. Tra questi, i delitti contemplati nell'art. 4-bis, della legge 26 luglio 1975 n. 354 e successive modificazioni. Richiamandone il dettato, ha osservato che l'elenco contenuto nel comma 1-ter ricomprende il delitto di rapina aggravata. Risultando contestato nel caso di specie tale delitto peraltro commesso in concorso, il suddetto divieto non avrebbe dovuto operare pur in presenza di una condanna inferiore ad anni tre di reclusione. Tuttavia ha reputato superabile la menzionata ostatività allorché risultino elementi tali da far ritenere la insussistenza di un collegamento dell'imputato con organizzazioni criminali, terroristiche o eversive.

Le soluzioni giuridiche

La soluzione interpretativa offerta dalla decisione in esame è triplice e di tipo conseguenziale.

L'ostatività del divieto di applicazione della custodia personale non è inderogabile in quanto, non solo al momento genetico dell'applicazione della misura richiesta, caratterizzato dalla giudiziale valutazione prognostica, ma anche nel corso della esecuzione della stessa, può essere rimossa, se si è in presenza di condanna non definitiva alla reclusione inferiore a tre anni, accertando, in costante applicazione dei principi di proporzionalità e adeguatezza, che non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamento con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

Tuttavia è necessario che sia l'imputato a fornirne la prova, trattandosi di fatto positivo a proprio vantaggio.

Osservazioni

Nonostante la inappropriata formulazione dell'unico motivo del ricorso, la Corte ha ritenuto di accoglierlo approdando ad una interpretazione mitigatrice del pur rigido catalogo ostativo che, muovendo da una corretta lettura del dettato normativo, si è articolata in una opportuna puntualizzandone di almeno tre distinti principi.

Ha anzitutto stabilito che in tema di misure cautelari di natura coercitiva personale, il divieto di applicazione della custodia carceraria previsto per le persone indagate o imputate, deve ritenersi comunque esteso a favore di coloro che nel corso del processo risultino essere stati condannati ad una pena detentiva inferiore ai tre anni.

Quindi, ha precisato che il divieto in parola può ritenersi operante anche nei procedimenti per rapina aggravata che, quantunque delitto rientrante nel novero di quelli ostativi contenuto nell'art. 4-bis ord. pen. espressamente richiamato dall'art. 275 comma 2–bisc.p.p., non risulti caratterizzato dai collegamenti allarmanti idonei ad escludere l'accesso ai benefici penitenziari contemplati dal primo comma del richiamato art. 4-bis.

Tuttavia ha specificato che a dover essere onerato della relativa dimostrazione, trattandosi di “fatto positivo” a “vantaggio” del perseguito, è quest'ultimo. Ma qualora ciò non avvenga, nulla esclude che il giudice possa ricercarne induttivamente la rappresentazione in quei fatti di rapina che per le loro modalità esecutive, per la personalità degli autori, nonché per la natura stessa dei beni sottratti e per l'assenza di armi od altri oggetti atti ad offendere, denotino l'insussistenza di collegamenti con il crimine organizzato.

Pur risultando lodevole l'impegno ermeneutico e quindi condivisibile quanto alla prima parte il quadro interpretativo con cui la Corte, rimuovendo l'illusione di una superficiale evidenza ostativa, approfondisce l'analisi e rimedia all'errore dei primi giudici, desta tuttavia qualche perplessità la regola probatoria del tutto inedita espressa da ultimo.

Asserzione che non appare convincente proprio alla luce del richiamato combinato disposto normativo, dalla struttura non semplice, e della lettura offerta.

Sembrerebbe che parlando di fatto positivo a vantaggio, i giudici di legittimità abbiano inteso far riferimento alla rubrica dell'art. 4-bis citato,nonché all'incipit del comma 1-bis della norma, per pervenire alla affermazione che l'onere probatorio quanto alla insussistenza dei collegamenti denotanti allarme sociale sia, pur se in linea generale,da porsi a carico dell'imputato/condannato in quanto istante.

Tuttavia non pare possa ritenersi una giustificazione rigorosa della condizione additiva così inserita nella nuova regola probatoria.

Muovendo dalla imprescindibile considerazione che quanto al principio della inviolabilità della libertà personale del cittadino costituzionalmente sancito, in linea generale, figurano contemplate possibili restrizioni, pur sempre temporanee e comunque rigorosamente ancorate alla doppia riserva di legge e di giurisdizione, l'atto con cui il giudice applica una misura coercitiva personale nel corso di un procedimento penale deve risultare adottato non soltanto nel rigoroso rispetto delle condizioni generali, ma ancorato pure a quelle specifiche previste dal vigente codice di rito penale per l'applicabilità della stessa.

L'art. 275 comma 2-bis seconda parte, c.p.p., risultando collocato in questo quadro normativo al fine specifico di perimetrare riduttivamente il divieto di applicazione delle misure stesse, contiene l'espresso richiamo di alcuni delitti ritenuti ostativi all'operatività del divieto stesso. Tra questi, i delitti di cui … all'articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975,n. 354, e successive modificazioni.

Interpretando siffatto richiamo la Corte, nell'approdare al superamento del catalogo dei delitti ostativi per i benefici di cui al comma 1 dell'art. 4-bis citato, tuttavia afferma che, almeno in linea generale, debba essere l'interessato a farsi carico della dimostrazione dell'assenza di propri collegamenti con il crimine organizzato.

È una asserzione che, in carenza di uno specifico referente normativo, appare in disarmonia con il principio generale insito nel sistema vigente che individua nel pubblico ministero l'organo tenuto a provare non soltanto la responsabilità penale dell'accusato, ma anche, nel corso del procedimento penale, ogni fatto o circostanza che concerna la richiesta di applicazione ovvero di mantenimento di misura coercitiva a carico del perseguito.

In quest'ultimo caso si tratterebbe pur sempre della prova di un fatto positivo in quanto dimostrativo del paventato collegamento.

Non così invece per il destinatario della misura o che, già sottoposto, ne richieda la revoca.

A costui non può ragionevolmente addebitarsi l'onere di provare addirittura un fatto negativo.

Una volta applicata la misura, incombe sul giudice il dovere della revoca immediata quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste… dalle disposizioni relative alle singole misure (art. 299 comma 1, c.p.p.).

Quanto a queste ultime, tra i criteri di scelta delle misure dettati dall'art. 275 c.p.p. da operarsi nel concorrente rispetto dei criteri di adeguatezza e proporzionalità, figura opportunamente codificato attraverso il comma 2 – bis il divieto di adozione delle misure coercitive più afflittive in casi di determinate prognosi quantitative della condanna futura.

Il testo originario della novella, come introdotto dell'agosto 1995, venne sostituito nel 2014 allo scopo di elevare la soglia prognostica, ma, al contempo, di restringere l'operatività del divieto stesso in relazione ai delitti contenuti in uno specifico elenco, poi ulteriormente implementato secondo il testo attualmente in vigore dal 9 agosto 2019 (dall'art. 16 comma 1 l. 19 luglio 2019 n. 69).

Non appare perciò revocabile in dubbio che la prova delle condizioni di applicabilità di una misura intramuraria nei casi di superamento del divieto in esame, ovvero il successivo venir meno delle stesse legittimante la revoca, debba essere oggetto di specifica allegazione ad opera del pubblico ministero allorché richieda l'applicazione e, parimenti, nel corso della esecuzione, allorché contrasti la richiesta di revoca del custodito che alleghi la sopravvenuta condanna a pena detentiva inferiore alla soglia legale, invocando il primo la attualità di collegamenti di quest'ultimo con organizzazioni criminali.

Del resto è la stessa Corte a dover riconoscere che, in assenza di allegazione della prova negativa, è pur sempre dovere del giudice ricavare comunque dai fatti accertati la dimostrazione dell'assenza di collegamenti con il crimine organizzato.

Guida all'approfondimento

BRICCHETTI, Carcere extrema ratio se non c'è spazio per le interdittive , in Gdir., 2015, 20,41;

CORDERO, Procedura penale, 9a ed., Milano 2012, 492;

FARINELLI, L'ambito della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, in AP, 2013, 223;

GIUNCHEDI, La presunzione di adeguatezza della custodia cautelare. Frammenti di storia ed equilibri nuovi, in FURFARO, GIUNCHEDI, LA ROCCA, ANTINUCCI, FIORIO, Le misure cautelari verso nuovi equilibri, in GI, 2013, 710;

MARANDOLA, Sospensione condizionale della pena e misure cautelari; in CP, 1995, 641, 440;

SPANGHER, Un restyling per le misure cautelari, in DPP, 2015, 529.

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