Custodia cautelare in carcere: ambito di operatività del divieto di applicazione e mantenimento. Rapporti tra giudizio di merito ed esecuzione penale

Leonardo Degl'Innocenti
03 Dicembre 2021

La sentenza in commento affronta il problema dell'ambito di operatività del divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere previsto dall'art. 275 comma 2-bis c.p.p. Come noto la norma costituisce un corollario dei criteri di adeguatezza (commi 1 e 3, prima parte) e di proporzionalità (comma 2) ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della misura cautelare da applicare alla persona sottoposta ad indagini o imputata.
Principi di diritto e fatto

La Cassazione penale, sez. I, con sentenza n. 32593 dell'8 luglio 2021, ha affermato i seguenti principi di diritto:

Il divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere stabilito dall'art. 275 comma 2-bis c.p.p. opera non solo con riguardo alla fase di applicazione della misura (c.d. momento genetico), ma anche nel corso di esecuzione della stessa, con la conseguenza che nel caso in cui sopravvenga una sentenza di condanna a una pena detentiva non superiore a tre anni la misura della custodia in carcere non può essere mantenuta.

Nel caso in cui la condanna sopravvenuta a una pena detentiva non superiore a tre anni abbia ad oggetto uno dei delitti compresi nel catalogo di cui all'art. 4-bis ord. pen. il mantenimento della misura è subordinato all'accertamento da parte del giudice che procede della insussistenza di elementi dimostrativi di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva.

L'onere della prova della insussistenza di detti collegamenti incombe sull'istante trattandosi di fatto positivo a vantaggio dello stesso condannato ma la relativa dimostrazione può essere dedotta implicitamente dalle modalità della condotta o dalla personalità degli autori.

Nel caso di specie il GIP presso il Tribunale dei Minori aveva rigettato la domanda di sostituzione della misura cautelare della custodia in carcere avanzata da persona condannata con sentenza non definitiva per il delitto di rapina aggravata (fattispecie prevista dall'

art. 4

bis

ord

.

pen

.

).

Il Tribunale della Libertà presso il Tribunale dei Minori aveva rigettato l'appello proposto dall'interessato avverso la predetta decisione.

Avverso l'ordinanza del Tribunale l'interessato ha proposto ricorso per cassazione deducendo la violazione dell'

art. 275 comma 2-

bis

c.p.p.

affermando in particolare che l'imputato era stato condannato a pena non superiore a tre anni (nel caso di specie anni uno e mesi dieci di reclusione) e che pertanto la sola natura del reato (rapina aggravata) non poteva giustificare il rigetto della domanda con la quale era stata chiesta l'applicazione di una misura cautelare meno afflittiva.

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso ed ha annullato con rinvio al Tribunale per i Minori di Milano per un nuovo giudizio.

Le questioni affrontate dalla Corte

La sentenza in commento affronta il problema dell'ambito di operatività del divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere previsto dall'art. 275 comma 2-bis c.p.p.

Come noto la norma costituisce un corollario dei criteri di adeguatezza (commi 1 e 3, prima parte) e di proporzionalità (comma 2) ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della misura cautelare da applicare alla persona sottoposta ad indagini o imputata.

L'art. 275 comma 2-bis c.p.p. esclude l'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere quando:

a) il giudice ritiene che con la sentenza di condanna possa essere applicata la sospensione condizionale della pena (trattasi di un divieto generale e assoluto che opera anche con riferimento alla misura cautelare degli arresti domiciliari);

b) il giudice ritiene che, all'esito del giudizio, verrà inflitta una pena detentiva non superiore a tre anni.

La norma instaura un rapporto tra la misura da applicare, il fatto per il quale si procede e la prognosi circa l'evoluzione della futura vicenda processuale: il giudice deve quindi valutare se la persona sottoposta ad indagini potrà essere condannata ad una pera superiore a tre anni e, in caso di valutazione positiva, ricorrendone le altre condizioni, potrà trovare applicazione la misura di cui all'art. 285 c.p.p.

È appena il caso di ricordare che nella motivazione dell'ordinanza applicativa della misura il giudice deve dare conto delle ragioni sulle quali ha fondato il giudizio prognostico sfavorevole e che la mancanza, insufficienza o contraddittorietà della motivazione potrà essere censurata attraverso il mezzo di impugnazione previsto dall'art. 309 c.p.p.

L'art. 275 comma 2-bis prevede alcune deroghe, il divieto di applicazione della misura cautelare di maggior rigore non opera:

a) nei casi previsti dal comma 3, seconda parte, della norma: si tratta dei casi per i quali è prevista una specifica presunzione di adeguatezza della sola misura di cui all'art. 285 c.p.p.;

b) nei casi previsti dagli artt. 276, comma 1-ter (trasgressione delle prescrizioni inerenti gli arresti domiciliari) e 280, comma 3 c.p.p. (trasgressione delle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare). In giurisprudenza si è precisato che la deroga al limite di pena stabilito dall'art. 275comma 2-bis c.p.p. non può trovare applicazione, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem, anche in caso di aggravamento delle esigenze cautelari di cui all'art. 299 comma 4 c.p.p.
Si è infatti osservato che «nella previsione dell'art. 276 c.p.p., relativa alla trasgressione delle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare, rientrano, per il principio di tassatività, solo le inosservanze degli obblighi espressamente previsti nel provvedimento cautelare e non anche ogni condotta, ancorché costituente reato, genericamente elusiva della finalità perseguita con l'imposizione del provvedimento limitativo della libertà personale»(Cass. sez. I, 17 marzo 2021, n. 31430, Nasraoui, in Archivio Nuova Procedura Penale, n. 5/2021, pag. 400; Cass. sez. I, 30 ottobre 2015, n. 43791, Ndiaye, in C.E.D. Cass. n. 264986: nel caso di specie l'interessato, sottoposto alle misure cautelari del divieto di dimora e dell'obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria aveva commesso il delitto di cui all'art. 73 d.P.R n. 309 del 1990 e s.m.i. senza tuttavia trasgredire le prescrizioni imposte);

c) quando, accertata l'inadeguatezza di ogni altra misura, non vi sono le condizioni per disporre la misura cautelare degli arresti domiciliari per mancanza di uno dei luoghi indicati nell'art. 284 comma 1 c.p.p. (abitazione, luogo di privata dimora, luogo pubblico di cura o di assistenza, casa-famiglia protetta);

d) quando si procede per uno dei reati, ritenuti di particolare gravità e/o allarme sociale, indicati dalla norma stessa. Trattasi dei reati di:

  • incendio boschivo ex art. 423-bisc.p.;
  • maltrattamenti exart. 572 c.p.;
  • atti persecutori exart. 612-bisc.p.;
  • diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti exart 612-terc.p.;
  • furto (in abitazione e con strappo) exart. 624-bisc.p.

A tali fattispecie criminose si aggiungono i delitti previsti dall'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 e s.m.i. (c.d. ordinamento penitenziario), norma nella quale sono elencati reati per i quali l'applicazione dei benefici penitenziari è soggetta a divieti e restrizioni (c.d. reati ostativi):

I delitti indicati nell'art. 4-bisord. pen. vengono comunemente divisi in tre categorie.

a) delitti ostativi di prima fascia, previsti dal comma 1 della norma (es. associazione di tipo mafioso ex art. 416-bis c.p., associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti ex art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e s.m.i. ). Sul punto Cass. sez. I, 21 settembre 2012, n. 41940, Tumminello, in C.E.D. Cass. n. 253621, ha statuito che il divieto di sospensione previsto dall'art. 656, comma 9 c.p.p. non si applica in caso di condanna per il delitto di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti di spaccio di lieve entità di cui all'art. 74 comma 6 del citato d.P.R.;

b) delitti ostativi di seconda fascia, elencati nel comma 1-ter della norma (es. omicidio, rapina aggravata, spaccio di sostanze stupefacenti aggravato ex art. 80, comma 2 d.P.R. n. 309 del 1990 e s.m.i.);

c) i reati sessuali indicati nel comma 1-quater del citato art. 4-bis. Per effetto della legge 19 luglio 2019, n. 69 è stato inserito nel testo della norma anche il delitto di cui all'art. 583-quinques c.p. (deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al volto, fattispecie incriminatrice introdotta nel codice sempre dalla legge n. 69 cit. che ha contestualmente abrogato l'aggravante di cui all'art. 583, comma 2, n. 4 c.p.) che, a stretto rigore, non può essere considerato un vero e proprio reato sessuale.

Con riferimento ai delitti sessuali va ricordato che Cass. sez. I, 24 aprile 2014, n. 20373, Zibella, in C.E.D. Cass. n. 263404, ha puntualizzato che il divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione, previsto dall'art. 659 comma 9, lett. a) c.p.p., non si applica in caso di condanna per il delitto di violenza sessuale attenuata di cui all'ultimo comma dell'art. 609-bis c.p. (ai fini della configurabilità dell'attenuante del fatto di minore gravità v. anche Cass. sez. I, 10 ottobre 2019, n. 50336, L. in C.E.D. Cass. n. 277615), trattandosi di illecito per il quale il citato art. 4-bis comma 1-quater esclude espressamente la necessità che l'accesso alle misure alternative sia subordinato allo svolgimento, per almeno un anno, della osservazione intramuraria della personalità.

Occorre tuttavia segnalare che il beneficio della sospensione non si applica nel caso in cui il delitto di violenza sessuale attuato mediante condotte ritenute di minore gravità ex art. 609-bis ultimo comma è stato commesso in danno di persona minore degli anni 14 o 16 nei casi previsti dall'art. 609-ter (Cass. sez. I, Zibella, cit.). Sul punto cfr. anche Cass. sez. I, 16 luglio 2021, n. 32506, Nicoletti, inedita, secondo cui ai fini della concedibilità dei benefici, «il legislatore ha considerato le ipotesi aggravate di violenza sessuale contemplate dall'art. 609-terc.p. come se si trattasse di reati autonomi; l'ultimo periodo del comma 1-quater è, piuttosto, diretto a comprendere nel divieto di concessione dei benefici, e, quindi, nel divieto di sospensione dell'esecuzione del pubblico ministero, anche il delitto di violenza sessuale non aggravata di cui all'art. 609-bisc.p. a meno che venga riconosciuta l'attenuante della minore gravità […] Le ipotesi aggravate di cui all'art. 609-ter c.p. portano con sé un dato di pericolosità del soggetto che il legislatore ritiene sussistente anche nel caso in cui il fatto per il quale è intervenuta la condanna sia stato di minore gravità…. l'attenuante incide sulla misura della pena, ma non sul giudizio di maggiore disvalore della condotta giudicata».

Tale soluzione appare avvalorata anche dal comma 1-quinquies del più volte citato art. 4-bis in forza del quale, in caso di violenza sessuale commessa in danno di minorenni, il giudice di sorveglianza ai fini della concessione dei benefici penitenziari deve valutare la «positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all'art. 13-bis» della legge penitenziaria.

Tale norma presuppone che la persona riconosciuta colpevole del reato di violenza sessuale commesso in danno di un minore, una volta divenuta irrevocabile la sentenza abbia fatto ingresso in carcere, senza beneficiare, quindi, della sospensione dell'esecuzione, e sia stato messo in condizione di prendere parte alla specifica attività trattamentale di cui all'art. 13-bis organizzata intra moenia (cfr. sul punto Cass. sez. I, 9.04.2019, n. 39985, Marini, in C.E.D. Cass. n. 277487, secondo cui «i condannati per il reato di violenza sessuale aggravata di cui all'art. 609-ter c.p., pur quando sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 609-bis ultimo comma, c.p., per poter beneficiare di misure alternative alla detenzione devono essere sottoposti all'osservazione scientifica della personalità, condotta collegialmente, per almeno in anno»).

L'art. 13-bis ord. pen., introdotto dalla legge 1 ottobre 2012, n. 172 e modificato dalla legge 19 luglio 2019, n. 69, richiamato dal citato art. 4-bis, comma 1-quinquies, prevede che gli autori dei delitti indicati nella norma “possono sottoporsi ad un trattamento piscologico con finalità di recupero e di sostegno. La partecipazione a tale trattamento è valutata ai sensi dell'art.4-bis comma 1-quinquies della presente legge ai fini della concessione dei benefici previsti dalla medesima disposizione”. Mette conto segnalare che, a seguito delle modificazioni apportate dalla citata legge n. 69 del 2019 al testo dell'art. 13-bis, tra i reati gli autori dei quali possono sottoporsi al trattamento psicologico figurano il delitto di maltrattamenti e quello di atti persecutori, non richiamati dal precedente art. 4-bis comma 1-quinquies; altra discrasia tra le due norme è ravvisabile nel fatto che mentre l'art. 4-bis comma 1-quinquies allude al delitto di cui all'art. 609-bis c.p. commesso in danno di minori, il nuovo testo dell'art. 13-ter ha eliminato il riferimento a tale particolare categoria di soggetti passivi.

I rapporti tra giudizio di merito ed esecuzione penale

Appare evidente come il legislatore nel definire l'ambito di operatività del divieto di applicazione della misura cautelare della custodia in carcere abbia inteso attuare un vero e proprio collegamento tra la fase cautelare e quella esecutiva.

Da un lato i tre anni di reclusione costituiscono, o meglio, costituivano, il limite di pena in presenza del quale il Pubblico Ministero che cura l'esecuzione della sentenza è tenuto, in forza di quanto prevede l'art. 656 comma 5 c.p.p., a sospendere l'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione in modo da mettere in condizione il condannato di presentare istanza di misura alternativa al Tribunale di Sorveglianza competente per territorio.

Occorre tuttavia rammentare che per effetto della sentenza 2 marzo 2018, n. 41 della Corte Costituzionale tale limite di pena è stato elevato a quattro anni. Sul punto Cass. sez. I, 28 febbraio 2019, n. 18891, Cavenaghi, in C.E.D. Cass., n. 275480, ha affermato che tale diversità non viola il principio di ragionevolezza «attesa la differente finalità dei due istituti che consiste, nel primo caso, nel ridurre il ricorso alla custodia e, nel secondo nel salvaguardare gli obiettivi di risocializzazione, propri esclusivamente della fase esecutiva».

Mette conto inoltre segnalare che per i condannati alcoldipendenti o tossicodipendenti che chiedono l'applicazione dell'affidamento in prova in casi particolari ex art. 94 d.P.R. n. 309 del 1990 e s.m.i. il limite di pena al quale è subordinato il beneficio della sospensione dell'ordine di carcerazione è elevato a sei anni.

La giurisprudenza di legittimità ha tuttavia escluso che questa norma di favore possa trovare applicazione in caso di condannato affetto da ludopatia o da altre forme di dipendenza diverse dalla tossicodipendenza, ancorché a quest'ultima assimilabili, e ciò in ragione del carattere eccezionale della norma (Cass. sez. I, 3 maggio 2016, n. 29331, Anglisani, in C.E.D. Cass. n. 267415; Cass. sez. I, 15 giugno 2021, n. 36709, Greco, inedita).

Dall'altro lato i delitti indicati nell'art. 275, comma 2-bis c.p.p. coincidono sostanzialmente con quelli per i quali, in forza di quanto dispone l'art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p., è esclusa la sospensione automatica dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione prevista in via generale dal comma 5 della stesa norma al fine di subordinare l'ingresso in carcere del condannato alla decisione (sfavorevole) del Tribunale di Sorveglianza competente per territorio.

La sovrapposizione tra le due norme non è tuttavia integrale: occorre infatti tener presente che l'art. 656 comma 9, lett. a), c.p.p.:

  • con riguardo al delitto di maltrattamenti richiama soltanto il comma 2 dell'art. 572 c.p.;
  • con riguardo al delitto di atti persecutori richiama soltanto il comma 3 dell'art. 612-bis c.p.;
  • non contiene alcun riferimento alla fattispecie di cui all'art. 612-terc.p. (diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, norma incriminatrice introdotta dalla legge 19 luglio 2019, n. 69).

Alcune osservazioni devono essere svolte con rispetto al delitto di maltrattamenti.

La versione originaria dell'art. 572 comma 2 c.p. prevedeva un aumento di pena collegato alla gravità delle conseguenze derivanti dai maltrattamenti (lesioni gravi, gravissime e morte della vittima). Con la riformulazione operata dalla legge 1° ottobre 2012, n. 172 è stato previsto un aumento di pena in caso di fatto commesso in danno di minore degli anni quattordici; questa disposizione è divenuta il comma 2 della norma, mentre l'aumento di pena connesso alla verificazione dell'evento aggravatore è divenuta oggetto del comma 3.

Il comma 2 è stato poi abrogato dal decreto legge n. 14 agosto 2013, n. 93, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119; lo stesso provvedimento legislativo ha modificato l'art. 61, comma 1 c.p. introducendo il n. 11-quinquies che prevede, quale circostanza aggravante comune applicabile ai delitti non colposi contro la vita, l'incolumità individuale, la libertà personale ed al reato di maltrattamenti, quella costituita dall'aver commesso il fatto in presenza o in danno di un minore degli anni diciotto, ovvero in danno di una donna in stato di gravidanza.

Successivamente la legge 19 luglio 2019, n. 69 ha espunto dal testo dell'art. 61 comma 1 n. 11-quinquies c.p. il riferimento al reato di cui all'art. 572 c.p. ed ha inserito al comma 2 di quest'ultima norma la circostanza aggravante (ad effetto speciale) consistente nell'aver commesso il fatto in danno o in presenza di un soggetto debole (minore, donna in stato di gravidanza, disabile), facendo venir meno il collegamento tre le due norme (cioè tra l'art. 572 e l'art. 61 comma 1 n. 11-quinquies).

Rispetto a tali interventi modificativi la Corte di Cassazione, relativamente all'ipotesi del delitto di maltrattamenti commesso in danno di minore degli anni quattordici, ha ravvisato una sussistenza di un caso di continuità del tipo di illecito, affermando che costituisce una causa ostativa alla sospensione dell'esecuzione ex art. 656 comma 9, lett. a) c.p.p., la condanna per tale reato commessa anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 (in questo senso cfr. Cass. sez. I, 29 gennaio 2021, n. 10373, Vitali Sysenko, in C.E.D. Cass. n. 280739; nel senso della continuità normativa cfr. anche Cass. sez. I, 16 luglio 2021, n. 38359, Peron, inedita; Cass. sez. I, 5 novembre 2020,n. 32727, Di Renzo, ivi n. 27896; in senso contrario cfr. tuttavia Cass. sez. I, 14 luglio 2020,n.34492, D'Avanzo, ivi n. 280000, secondo cui la condanna per il reato di maltrattamenti aggravato ex art. 61, comma 1, n. 11-quinquies c.p. commesso anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 69 del 2019 non costituisce titolo ostativo alla sospensione dell'esecuzione: nel caso di specie si trattava di maltrattamenti commessi in presenza di un minore degli anni diciotto che aveva determinato l'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 11 quinquies c.p. ancora vigente al momento della consumazione del reato avvenuta anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 69 del 2019).

Con riferimento a quanto da ultimo esposto deve essere osservato come Cass. sez. I, 16 luglio 2021 cit. abbia precisato che la ricordata continuità normativa sussiste soltanto in relazione alle condotte commesse in danno di minore degli anni quattordici «unico terreno comune ad entrambe le aggravanti; non rientrano, viceversa, nell'originaria previsione né possono ritenersi richiamate in forma “mobile” o formale, ai fini di cui all'art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p., le ulteriori forme di aggravamento della condotta introdotte con l'art. 61, n. 11-quinquies citato, trattandosi di nuove ipotesi di responsabilità aggravata, come tali soggette ai principi di tassatività e irretroattività della legge penale» (nello stesso senso cfr. Cass. sez. I, 24 gennaio 2019, n. 12653, Sanna, in C.E.D. Cass. n. 274989).

Sempre con riguardo all'ambito di operatività del divieto di sospensione dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione occorre rammentare:

a) che per effetto della sentenza 1° giugno 2016, n. 125 della Corte Costituzionale il divieto de quo non opera in caso di condanna per il reato di furto con strappo (mentre resta ferma l'operatività del divieto in caso di condanna per il reato di furto in abitazione);

b) che per effetto della sentenza 26 febbraio 2020, n. 32 della Corte costituzionale, che ha esteso alle norme che disciplinano l'esecuzione penale e penitenziaria il principio di irretroattività stabilito dall'art. 25comma 2 Cost., il divieto di sospensione dell'esecuzione non si applica ai reati commessi anteriormente all'entrata in vigore della norma che ha inserito il reato nel catalogo dei delitti esclusi dal beneficio della sospensione. Con questa sentenza la Corte ha affermato che qualora una disposizione abbia concreta incidenza sulla qualità e quantità della pena o comporti «una trasformazione della natura della pena», essa assume anche natura sostanziale, che impone di applicare il principio di irretroattività stabilito dall'art. 25 comma 2 Cost (per una applicazione di tale principio cfr. Cass. sez. I, 28 febbraio 2020, n. 17203, Posocco, in C.E.D. Cass. n. 279215, con riguardo al delitto di violenza sessuale ex art. 609-bis c.p. inserito nel catalogo dei delitti ostativi di cui all'art 4-bis ord. pen. dal decreto legge n. 11 del 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 38 del 2009).

c) che quando il divieto di sospensione dell'ordine di carcerazione dipende dalla sussistenza di una circostanza aggravante (si pensi al caso della rapina aggravata o dello spaccio di sostanze stupefacenti aggravato ex art. 80, comma 2 del d.P.R. n. 309 del 1990 e s.m.i.) è irrilevante il fatto che il giudice della cognizione abbia ritenuto le circostanze attenuanti prevalenti o equivalenti alla aggravante (Cass. sez. I, 12.04.2019, n. 20796, Bozzaotre, in C.E.D. Cass. n. 276312, secondo cui «la condanna per delitto aggravato costituente reato ostativo alla sospensione dell'ordine di esecuzione, a norma dell'art. 4-bis ord. pen., impedisce la concessione di tale beneficio anche quando la sentenza di condanna abbia ritenuto la prevalenza o l'equivalenza delle circostanze attenuanti sulle aggravanti contestate, atteso che il giudizio di comparazione rileva solo quoad poenam e non incide sugli elementi circostanziali tipizzanti la condotta»; cfr. anche Cass. sez. I,20 maggio 2021, n. 25266, Anedda, inedita; Cass. sez. I, 12 luglio 2021, n. 31842, Carlino, inedita).
In particolare Cass. sez. I, Anedda cit. ha puntualizzato che il tenore letterale della norma manifesta l'intento del legislatore di assegnare, ai fini del diniego del beneficio, esclusivo rilievo al solo dato oggettivo della intervenuta condanna per uno dei delitti indicati nell'art. 4-bisord. pen., sicché «la prevalenza accordata alle circostanze attenuanti, seppure rende inoperanti le aggravanti quanto alla determinazione della pena, non le esclude dalla compiuta descrizione del fatto reato per il quale è intervenuta la condanna. La previsione aggravatrice concorre a definire la fattispecie criminosa entro la quale il fatto è collocato, seppure il disvalore da essa espresso si possa ritenere compensato, o, addirittura, assorbito dalla concorrenza di elementi di attenuazione della pena», deve pertanto escludersi che il giudizio di subvalenza esplichi alcuna incidenza sulla sussistenza materiale della aggravante.

d) in caso di condanna per un reato ostativo ex art. 4-bisord. pen. e per un reato comune deve ritenersi, in ossequio al principio della scindibilità del cumulo, formale o materiale, che possa farsi luogo alla sospensione dell'ordine di esecuzione allorquando la pena imputabile al primo reato sia già stata espiata in custodia cautelare (Cass. sez. I, 12 luglio 2021, n. 33735, Oliveri, inedita; Cass. sez. I, 31 maggio 2005, n. 24981, De Carlo, in C.E.D. Cass. n. 231667).

e) che il divieto di sospensione opera anche nel caso in cui il condannato per uno dei delitti indicati nell'art. 4-bis ord. pen. si trovi, il giorno del passaggio in giudicato della sentenza, agli arresti domiciliari per il fatto oggetto della condanna stessa (Cass. sez. I, 15 settembre 2020, n. 10577, Saber, in C.E.D. Cass. n. 281352).

La finalità perseguita dall'art. 275 comma 2-bis è dunque palese: evitare il sacrificio della libertà personale conseguente all'applicazione della misura cautelare della custodia in carcere agli indagati e/o imputati che, una volta condannati, verrebbero a trovarsi nelle condizioni per poter beneficiare ab origine, vale a dire senza dover subire un periodo più o meno lungo di carcerazione, dell'affidamento in prova o della detenzione domiciliare. In tal modo il legislatore ha inteso incidere anche sull'annoso problema del sovraffollamento penitenziario per il quale l'Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo e della libertà fondamentali (cfr. la nota sentenza Torregiani dell'8 gennaio 2013; tale decisione è all'origine della istituzione del c.d. rimedio risarcitorio disciplinato dall'art. 35-ter ord. pen., norma introdotta nella legge penitenziaria dal decreto legge 26 giugno 2014, n. 92) (cfr. S. ARDITA, L. DEGL'INNOCENTI, F. FALDI, Diritto Penitenziario, IV Edizione, Laurus Robuffo, 2020, pag. 157 e segg.; L. DEGL'INNOCENTI, F. FALDI, Il rimedio risarcitorio ex art 35-ter ord. pen., Giuffrè, 2016, pag. 67 e ss.).

Mette conto precisare che la prognosi riguarda soltanto l'entità della pena e non anche la sussistenza delle condizioni alle quali è subordinata l'applicazione di una delle predette misure, applicazione che potrebbe comunque essere ab origine esclusa dall'operatività di una delle preclusioni previste dalla legge penitenziaria: si pensi al divieto triennale di concessione di benefici di cui all'art. 58-quaterord. pen. legato alla revoca di una precedente misura o alla condanna, passata in giudicato, per il delitto di evasione (la legittimità costituzionale della preclusione de qua, indispensabile presidio per assicurare il rispetto da parte del condannato delle prescrizioni imposte con i provvedimenti applicativi delle misure, è stata da ultimo ribadita dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 luglio 2021, n. 173).

I condannati detenuti in espiazione di pena inflitta per uno dei delitti indicati nell'art. 4-bis comma 1-ter ord. pen. possono accedere ai benefici penitenziari (assegnazione al lavoro esterno e permessi premio previsti rispettivamente dagli artt.21 e 30-terord. pen.) ed alle misure alternative previste dal Capo VI della legge n. 354 del 1975 (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare e semilibertà), «purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva».

L'accertamento della insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata è riservato alla competenza del giudice di sorveglianza: deve pertanto ritenersi illegittima l'ordinanza con la quale il giudice dell'esecuzione che, in relazione ad una condanna per un delitto ostativo ai sensi dell'art. 4-bis, disponga la sospensione dell'esecuzione sul presupposto che il condannato abbia reciso ogni collegamento con la criminalità organizzata (Cass. sez. I, 5 novembre 2020, n. 32725, Malagrinò, in C.E.D. Cass. n. 279931, con nota di F. D'ALESSIO, I poteri del giudice dell'esecuzione in tema di sospensione ex art. 4-biscomma 1-ter, ord. pen., in Cass. pen., 2021, p.1338).

Lo stesso principio è stato affermato anche con riferimento al requisito dell'accertamento della collaborazione (effettiva o impossibile) con la giustizia, che costituisce una condizione di ammissibilità ai benefici penitenziari (diversi dalla liberazione anticipata, dal differimento di esecuzione della pena e, per effetto della sentenza 4 dicembre 2019, n. 253 della Corte Costituzionale, dai permessi premio) in caso di condanna per uno dei delitti elencati nel comma 1 dell'art. 4-bis (Cass. sez. I, cfr. Cass. sez. I, 17 maggio 2019, n. 27354, D., in C.E.D. Cass. n. 276490 secondo cui: «in tema di divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva nel caso di condanna per un reato ostativo, il rinvio operato dell'art. 656, comma 9, lett. a), c.p.p. ai delitti di cui all'art. 4-bisord. pen. è finalizzato soltanto ad individuare i reati per i quali la sospensione non può essere disposta senza recepire anche i presupposti previsti dalla stessa norma per l'accesso ai benefici penitenziari, con conseguente irrilevanza dell'impossibilità per il condannato di collaborare con la giustizia»; nel caso di specie il condannato era stato riconosciuto colpevole del delitto di violenza sessuale di gruppo ex art. 609-octies c.p.).

Sembra dunque possibile affermare la regula iuris in forza della quale la sussistenza o meno delle condizioni richieste dalla legge per l'ammissione del condannato ai benefici penitenziari è riservata in via esclusiva alla competenza del giudice di sorveglianza dovendosi escludere la possibilità che su tale materia possano intervenire tanto il giudice dell'esecuzione quanto il pubblico ministero che deve limitarsi alla semplice constatazione della presenza di titoli ostativi alla sospensione dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione.

Secondo un certo orientamento - accolto dalla Relazione n. 74/2020 del 1.9.2020 dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione - sarebbe possibile per il pubblico ministero procedere alla sospensione (non più dell'ordine di carcerazione ormai eseguito con l'ingresso in carcere del condannato) ma dell'esecuzione della pena una volta che sia intervenuta una decisione del giudice di sorveglianza che consenta di superare le condizioni che impedivano la sospensione dell'ordine di esecuzione.

Si pensi, per esemplificare, al caso in cui il magistrato di sorveglianza nel decidere sulla domanda di permesso premio avanzata da un detenuto riconosciuto colpevole del delitto di rapina aggravata abbia accertato l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, oppure all'ordinanza con la quale il Tribunale abbia accertato il compimento dell'osservazione annuale richiesta dall'art. 4-bis, comma 1-quaterord. pen.

In queste ipotesi, secondo l'orientamento in esame, il pubblico ministero potrebbe, preso atto della decisione del giudice di sorveglianza (con la quale è stata accertato il venir meno di quella che la Relazione dell'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione definisce come “ostatività penitenziaria”), sarebbe legittimato a procedere alla sospensione onde mettere in condizione il condannato di presentare al Tribunale di Sorveglianza competente per territorio la domanda di misura alternativa ex statu libertatis, sempreché sussistano le condizioni indicate all'art. 656, comma 5 c.p.p.

Siffatta impostazione non appare condivisibile. Invero il meccanismo ipotizzato, a prescindere dalla macchinosità che lo connota, si risolve nell'attribuzione al pubblico ministero di un potere non previsto dalla legge vale a dire quello di sospendere non l'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione ma, una volta che la decisione del giudice di sorveglianza ha aperto la strada al superamento della c.d. “ostatività penitenziaria”, la stessa esecuzione della pena detentiva.

Inoltre l'orientamento in esame non sembra tener conto del fatto che la decisione del giudice di sorveglianza pur determinando il superamento della c.d. “ostatività penitenziaria”, potrebbe aver escluso la sussistenza delle condizioni di merito per l'applicazione di una misura alternativa: in casi di questo genere sembra irragionevole attribuire al Pubblico Ministero il potere di sospendere l'esecuzione della pena al fine di mettere in condizione il condannato di chiedere al Tribunale la concessione di una misura alternativa che lo stesso Tribunale ha comunque ritenuto di non poter applicare.

Occorre poiprecisare che gli autori di uno dei delittidi cui all'art. 4-bis ord. pen. non possono comunque accedere alla detenzione domiciliare c.d. generica prevista dall'art. 47-ter, comma 1-bisord. pen., concedibile ai condannati che devono espiare una pena non superiore a due anni qualora il Tribunale di sorveglianza ritenga che ricorrano le condizioni per la formulazione del giudizio prognostico positivo al quale è subordinata ex art. 47 ord. pen. l'applicazione dell'affidamento in prova.

È opportuno rilevare che il divieto di applicazione della detenzione domiciliare previsto dalla norma ha una valenza, per così dire assoluta, a prescindere, quindi, dall'eventuale accertata insussistenza di collegamenti del condannato con la criminalità organizzata (cfr. Cass. sez. I, 18 dicembre 2019, n. 13751, Buscia, in C.E.D. Cass., n. 278976; in motivazione la Corte ha precisato che proprio in ragione del richiamo normativo all'art. 4-bis ord. pen. operato dall'art. 47-ter, comma 1-bis, l'insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata «non estende la sua valenza alla detenzione domiciliare, ma ha un peso solo ai fini della concessione delle misure alternative regolate dall'art 4-bisord. pen. e diverse dalla detenzione domiciliare»).

La compatibilità con la costituzione del divieto di applicazione della detenzione domiciliare ai condannati per i reati compresi nel catalogo di cui all'art. 4-bisord. pen. è stata affermata anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 50 del 12 marzo 2020. Con questa decisione la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 47-ter comma 1-bisord. pen., sollevata dalla Corte di Cassazione con riferimento agli artt. 3, comma 1 e 27, comma 1 e 3 Cost., nella parte in cui la norma vieta l'accesso alla detenzione domiciliare alle persone condannate per i reati di cui all'art. 4-bisord. pen. In motivazione la Corte ha evidenziato che la preclusione prevista dalla norma è correlata ad un “presupposto negativo implicito” costituito dal fatto che il condannato non si trova neppure nelle condizioni utili per poter beneficiare dell'affidamento in prova, «situazione, quest'ultima che non dipende dall'entità delle soglie di pena (quelle compatibili con l'affidamento sono più elevate di quelle indicate dall'art. 47-ter ord. pen.), ma necessariamente consegue (come nel caso di specie) alla valutazione giudiziale, effettuata in concreto, che ha concluso per l'impossibilità di contenere il rischio della commissione di nuovi reati, anche ricorrendo alle puntuali e tipiche prescrizioni della misura dell'affidamento. In definitiva, il soggetto interessato alla preclusione censurata, non è solo l'autore di un determinato reato ma, in ciascun caso concreto, è persona della pericolosità non contenibile attraverso i presidi tipici della misura di cui all'art. 47 ord. pen.» (§ 3.1 del Considerato in diritto)

In conclusione

Con la sentenza in commento la Corte affronta due diverse questioni.

La prima consiste nello stabilire se il limite di tre anni di pena necessario per l'applicazione della custodia cautelare in carcere previsto dall'art. 275 comma 2-bis c.p.p. operi soltanto nella fase genetica della misura (vale a dire nel momento della prima applicazione), ovvero anche nella fase successiva imponendo al giudice il divieto di mantenere la custodia in carcere qualora sopravvenga una sentenza di condanna, ancorché non definitiva, a pena inferiore al suddetto limite.

Il fatto che nel testo dell'art. 275 comma 2-bis c.p.p. non è rintracciabile alcuna indicazione con riguardo al caso in cui sopravvenga una condanna a pena detentiva non superiore a tre anni ha determinato un contrasto interpretativo.

Secondo un primo orientamento il sopraggiungere di una condanna, ancorché non definitiva, a pena inferiore a tre anni, non rende automaticamente operante il divieto di applicazione della custodia in carcere: Cass. sez. VI,16 dicembre 2014, n. 1798, Ila, in C.E.D. Cass., n. 262059; Cass. sez. IV, 26 marzo 2015, n. 13025, Iengo, ivi n. 262961; Cass. sez. VI, 5 novembre 2015, n. 47302, Speziali, ivi n. 265339; Cass. sez. IV, 25 giugno 2020, n. 21913, El Felhi Abdelkarim, ivi n. 279229, secondo cui: «in materia di misure cautelari personali, il limite di tre anni di pena detentiva necessario per l'applicazione della custodia in carcere, previsto dall'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., come novellato dal d.l. 26 giugno 2014, n. 92, deve essere oggetto di valutazione prognostica solo al momento di applicazione della misura, ma non anche nel corso della protrazione della stessa, con la conseguenza che il presupposto assume rilievo non in termini di automatismo, ma solo ai fini del giudizio di perdurante adeguatezza del provvedimento coercitivo, a norma dell'art. 299 c.p.p.».

Per un diverso orientamento il divieto di applicazione della custodia in carcere opera non soltanto con riguardo alla fase genetica (quando il giudice è chiamato a formulare la prognosi in merito all'entità della pena che potrà essere inflitta all'indagato o all'imputato), ma anche con riguardo alla fase successiva, rispetto alla quale manca una disposizione analoga.

Tale soluzione, alla quale aderisce la sentenza in commento, muove dal principio enunciato dalle Sezioni Unite che con la sentenza 31 marzo 2011 n. 16085, Khalil, in C.E.D. Cass., n. 249324 (cfr. P. RIVELLO, Un intervento delle Sezioni Unite concernente la revoca delle misure cautelari dovuta alla supposta violazione del principio di proporzionalità, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2011, pag. 1246), avevano statuito che «il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità della misura applicata a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale».

Si inscrivono in questa linea interpretativa: Cass. sez. fer., 13.08.2020, n. 26542, Bandini, ivi n. 279632; Cass. sez. V, 20 gennaio 2021, n. 4948, Nikolli, ivi n. 280418, con nota di I. SCORDAMAGLIA, Il criterio di proporzionalità rispetto al fatto e alla pena e il suo operare anche nella fase dinamica della misura cautelare, in Cass. Pen., 2021, pag.1729; Cass. sez. I, 17 marzo 2021, n. 31430, Nasraoui, cit.; Cass. sez. I, 4 giugno 2021, n. 28360, Quadrella, inedita, alle quali deve aggiungersi Cass. sez. IV,13 febbraio 2019, n. 12890, Betassa, in C.E.D. Cass., n. 275363 secondo cui «in tema di misure cautelari personali, una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale, anche in sede di riesame o di appello, deve mantenersi nell'ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all'affermazione di colpevolezza e alla qualificazione giuridica, ma anche per tutte le circostanze del fatto, non potendo essere queste apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto illegittima, per violazione dell'art. 275, comma 2-bis, c.p.p., l'ordinanza con la quale, in sede di appello, era stata applicata la misura della custodia cautelare in carcere, dopo che l'imputato aveva già patteggiato una pena inferiore a tre anni di reclusione)».

Per completezza occorre segnalare che Cass. sez. II, 8 luglio 2021, n. 37099, Holguin, in C.E.D. Cass. senza numero (decisione deliberata lo stesso giorno di quella in commento, ma depositata il 13 ottobre; nel caso di specie l'interessato era stato condannato in appello alla pena di anni 2 di reclusione per i reati di rapina semplice e resistenza e lesioni a pubblico ufficiale) ha prospettato una soluzione intermedia. La Suprema Corte osserva preliminarmente che se il limite dei tre anni assume “rilievo ostativo” quanto il giudice è chiamato a valutare «i presupposti per l'emissione dell'ordinanza applicativa della misura, non può a fortiori non esplicare un tale rilievo anche successivamente, quando cioè, la misura emessa sul presupposto della irrogabilità di una pena ultratriennale, la pena irrogata con la sentenza pur non definitiva di condanna è risultata obiettivamente inferiore a tre anni, passandosi dunque da una mera prognosi sfavorevole all'interessato all'effettività di una quantificazione della pena al medesimo invece favorevole».

Ciò premesso, i giudici della Seconda Sezione affermano che il divieto di mantenere la misura cautelare coercitiva della custodia in carcere in caso di condanna a pena inferiore ai tre anni «si produce solo dopo che […] il tema dell'entità della pena in concreto irrogata dal giudice del merito non è più passibile [...] di essere rimesso in discussione: la qual cosa equivale a dire che la suddetta ostatività del limite viene ad esistenza solo dopo che sia scaduto per il pubblico ministero il termine per impugnare la decisione in punto di determinazione della pena al di sotto del limite medesimo; invero in pendenza del ridetto termine, e, a maggior ragione, nel caso in cui il pubblico ministero abbia realmente svolto impugnazione sulla pena, essendo il tema della quantificazione della pena ancora tecnicamente controverso, la determinazione della stesa al di sotto dei tre anni è priva di alcuna idoneità a riverberare, ex se, i propri effetti sull'insensibile parallelo binario del procedimento cautelare”

La seconda questione affrontata dalla Corte consiste nello stabilire se il divieto di mantenere la custodia in carcere in caso di sopravvenienza di una condanna a pena detentiva inferiore a tre anni operi anche nel caso in cui si procede per uno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord. pen. (come nella fattispecie oggetto della sentenza in commento nella quale l'imputato è stato condannato alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione per il delitto di rapina aggravata), ovvero per uno degli altri reati indicati nominatim dalla norma (incendio, furto in abitazione…).

In base al tenore letterale della norma si potrebbe infatti sostenere che la natura del reato per il quale si procede rende irrilevante l'entità della pena inflitta: anche nel caso in cui sopraggiunga una condanna a pena inferiore a tre anni avente ad oggetto un delitto rientrante tra quelli previsti dall'art.4-bis ord. pen., non opera il divieto di mantenere la custodia in carcere e pertanto il giudice che procede non è obbligato a sostituire la misura di cui all'art. 285 c.p.p. con una meno afflittiva, salva comunque la possibilità di valutare la sopraggiunta condanna a pena infra triennale nell'ambito del giudizio di cui all'art. 299 c.p.p.

La Corte ha aderito a quella che potrebbe essere definita come una soluzione intermedia affermando che il mantenimento della misura cautelare della custodia in carcere ex art. 285 c.p.p. è subordinato all'accertamento, da parte del giudice della cautela, della insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, con la precisazione che è onere del condannato che chiede l'applicazione di misura cautelare meno afflittiva dimostrare la mancanza di detti collegamenti.

La Corte ha inoltre aggiunto che tale dimostrazione, che incombe sull'istante trattandosi di un fatto positivo a suo vantaggio, «può però ritenersi implicita in quei fatti di rapina che per le loro modalità esecutive, per la personalità degli autori, per la natura dei beni sottratti, per l'assenza di armi od altri strumenti atti ad offendere, dimostrino ex se l'assenza di collegamenti con il crimine organizzato» (cosicché l'onere di dimostrare sembra dissolversi in un mero onere di allegazione).

Con riguardo al caso oggetto del ricorso la Corte ha affermato che l'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata poteva essere desunta dalle modalità del fatto trattandosi di rapina impropria commessa da parte di minorenni ai danni di un supermercato mediante la sottrazione di beni presenti nei locali dell'esercizio commerciale senza l'uso di armi o di strumenti atti ad offendere.

Questa decisione sembra integrare un affievolimento del raccordo tra fase cautelare e quella dell'esecuzione allorquando si procede per uno dei delitti compresi nel catalogo di cui all'art. 4-bis ord. pen.

Infatti mentre per gli autori di tali reati il divieto di sospensione dell'efficacia esecutiva dell'ordine di carcerazione di cui all'art. 656 comma 9 lett. a) c.p.p. (e di applicazione della detenzione domiciliare generica ex art. 47-ter comma 1-bisord. pen.) opera in modo automatico e, quindi a prescindere dall'accertamento dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, nei confronti dell'imputato, condannato a pena non superiore a tre anni per uno di tali delitti, il mantenimento della misura cautelare della custodia in carcere ex art. 285 c.p.p. è subordinato alla dimostrazione della insussistenza di elementi dimostrativi di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, dimostrazione che pur incombendo sull'istante, può essere desunta anche dalle modalità del fatto e della personalità dell'autore.

In argomento si veda, in senso contrario, Cass. sez. II, 12 dicembre 2014,n. 12139, Bendinelli, in C.E.D. Cass. n. 262703, a tenore della quale l'art. 275, comma 2-bis c.p.p. - nel testo introdotto dal D.L. n. 92 del 2014 prima della modifica apportata in sede di conversione - deve essere letto congiuntamente alla previsione di cui all'art. 656, commi 5 e 9, c.p.p. con la conseguenza che la misura cautelare della custodia cautelare in carcere disposta per il reato di rapina aggravata non si caduca automaticamente nel caso in cui la pena ancora da espiare, tenuto conto del presofferto cautelare, sia inferiore ai tre anni, in quanto non sarebbe comunque possibile disporre la sospensione dell'esecuzione della pena inflitta stante la previsione di cui al predetto art. 656 c.p.p. con riguardo al titolo di reato per cui si procede.

Dalla interpretazione adottata dalla Corte di Cassazione deriva poi l'ulteriore questione della necessità, in caso di applicazione della misura cautelare della custodia cautelare in carcere per uno dei delitti compresi nel catalogo di cui all'art. 4-bis ord. pen., dell'accertamento da parte del giudice della cautela della insussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva anche nella fase genetica della misura nonché delle modalità con le quali deve essere effettuato detto accertamento.

La sentenza in commento ricorda inoltre come resta comunque ferma l'applicazione dell'ultima parte del comma 2-bis c.p.p. che, come già ricordato, giustifica l'applicazione della misura carceraria ove siano assenti i luoghi per l'applicazione degli arresti domiciliari.

In argomento occorre ancora ricordare che, come statuito da Cass. sez. III, 18 dicembre 2018, n. 15025, Manto, in C.E.D. Cass. n. 275860, il divieto posto dal più volte citato art. 275 comma 2-bis c.p.p. «non impedisce al giudice di adottare la più grave misura cautelare qualora ogni altro provvedimento si riveli inadeguato a soddisfare le esigenze cautelari»: nel caso di specie il reo era stato condannato alla pena di tre anni di reclusione quale aumento per la continuazione con un reato oggetto di altra sentenza definitiva; in particolare la Corte ha ritenuto irrilevante ai fini della persistenza delle esigenze cautelari il fatto che il condannato avesse beneficiato, con riguardo alla pena inflitta con la sentenza passata in giudicato per prima, dell'affidamento in prova (in termini cfr. Cass. sez. I, 27 febbraio 2015, n. 264261, Jabbar, ivi, n. 264261).

Infine, con riguardo alla fattispecie oggetto della sentenza in commento (rapina aggravata commessa da minorenne) occorre rammentare che la Corte Costituzionale con sentenza 28.04.2017 n. 90 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 656 comma 9, lett. a), c.p.p. nella parte in cui non consente la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minorenni condannati per i delitti ivi indicati.

L'ambito di applicazione della declaratoria di incostituzionalità è stato tuttavia puntualizzato da Cass. sez. 1, 26 giugno 2018, n. 48307, N. (in C.E.D. Cass. n. 274332), con riguardo a quanto disposto dall'art. 24 del d.lgs. n. 272 del 1989.

I giudici di legittimità hanno infatti statuito che il divieto di sospensione dell'esecuzione della pena detentiva non si applica al condannato per un reato ostativo commesso da un soggetto minorenne che, sebbene sia maggiorenne al momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione, non abbia ancora compiuto venticinque anni di età.

Nella motivazione la Corte ha osservato che in virtù di quanto prevede il citato art. 24 «nei confronti dei minorenni ... l'esecuzione delle pene detentive avviene con le modalità previste per i minorenni anche nei confronti dei condannati che siano divenuti maggiorenni, ma siano di età inferiore agli anni 25. Dunque nella fase esecutiva viene in rilievo l'età del condannato al momento della esecuzione, e il legislatore ha disposto espressamente l'applicabilità delle norme che riguardano i minorenni ai condannati sottoposti all'esecuzione di pene detentive che siano di età inferiore agli anni 25».

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