231: per i sequestri preventivi è sempre necessario valutare la sussistenza del periculum in mora

Ciro Santoriello
27 Dicembre 2021

Il principio elaborato dalle Sezioni unite in base al quale anche il provvedimento di sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca facoltativa previsto dall'art. 321 comma 2 c.p.p. richiede la motivazione in ordine alla sussistenza del requisito del "periculum in mora" deve ritenersi operante anche con riferimento al sequestro preventivo previsto dagli artt. 59 e 19 d.lgs. n. 231 del 2001
Massima

Il principio elaborato dalle Sezioni unite in base al quale anche il provvedimento di sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca facoltativa previsto dall'art. 321 comma 2 c.p.p. richiede la motivazione in ordine alla sussistenza del requisito del "periculum in mora" deve ritenersi operante anche con riferimento al sequestro preventivo previsto dagli artt. 59 e 19 d.lgs. n. 231 del 2001

Il caso

Una società si vedeva contestato l'illecito amministrativo di cui all'art. 25-bis.1, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 231/2001, riferibile al reato presupposto di cui all'art. 515 c.p., con conseguente sequestro in via cautelare – sequestro operato sia in via diretta che per l'equivalente – del denaro presente sui suoi conti correnti fino alla concorrenza di euro 421.548,00 quale profitto del reato. La condotta contestata concerneva la vendita su tutto il territorio nazionale circa 354.000 mascherine chirurgiche con marchio CE certificato da un organismo non autorizzato.

In sede di ricorso per cassazione, per quanto di interesse in questa sede, veniva contestato il vizio di motivazione in relazione alla sussistenza del fumus del reato oggetto di provvisoria incolpazione, rappresentando che non vi sarebbe alcun riscontro del fatto che le mascherine fossero distribuite con un falso marchio CE, marchio che, entro certi parametri, non sarebbe neppure obbligatorio in considerazione delle deroghe introdotte dalla disciplina emergenziale e, segnatamente, dal decreto-legge n. 18/2020 e dalla Circolare del Ministero della Salute n. 3572 del 18 marzo 2020. Inoltre, si evidenziava che, come emergeva dalla documentazione in atti, le mascherine, acquistate da un importatore europeo, erano descritte come mascherine protettive, perché sulle confezioni era espressamente indicato che il prodotto non è considerato dispositivo medico ed erano poste in commercio nel rispetto della disciplina emergenziale.

Veniva inoltre lamentata anche la insussistenza del cd. periculum in mora ovvero l'esigenza di provvedere al sequestro in via cautelare, mancando le sottostanti esigenze cautelari

La questione

Nel caso di specie, le indagini esperite dalla polizia giudiziaria avevano consentito di accertare, presso una farmacia, che il titolare della stessa aveva acquistato dalla società ricorrente duemila mascherine chirurgiche ed aveva esibito agli operanti un documento di trasporto (DDT), emesso dalla stessa società, al quale era annesso un certificato attestante la conformità delle mascherine al reg. 2017/45/Ue e recante la marchiatura "CE", ma tale certificato proveniva da un soggetto non abilitata al rilascio di questi documenti e non inserita nella banca dati che contiene i nominativi degli organismi notificatori abilitati al rilascio delle certificazioni CE.

Veniva altresì accertato che diverse copie di tali certificati erano presenti nel magazzino della società ricorrente unitamente a mascherine contenute in un blister recante la marcatura CE ed a tre scatole di etichette adesive, recanti la stessa marcatura CE, apponibili sui blister delle mascherine. Nell'ordinanza impugnata viene dato conto anche del fatto che, da una e-mail allegata al ricorso, si evincerebbe che la società offriva le mascherine protettive ad acquirenti (nella specie, un ospedale) che richiedevano espressamente mascherine chirurgiche con specifici standard di sicurezza, evidentemente facendo affidamento sulle predette certificazioni.

Infine, era stato accertato che l'amministratore della società (persona fisica cui era imputato il reato presupposto della responsabilità delle società) disponeva di conoscenze e capacità per verificare la genuinità e regolarità delle certificazioni di conformità relative ai prodotti da lui acquistati e venduti, non rilevando, a tale proposito, la buona fede derivante dal semplice fatto che l'acquisto era stato effettuato attraverso un importatore europeo.

Questi elementi paiono idonei a ritenere integrato il delitto di frode in commercio di cui all'art. 515 c.p., il cui primo comma dispone che «chiunque, nell'esercizio di un'attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065». La norma, pur operando in relazione ad un rapporto negoziale fra due soggetti determinati (venditore e acquirente), non fa riferimento agli interessi patrimoniali delle parti ma alla buona fede negli scambi commerciali, a tutela sia del pubblico dei consumatori, sia dei produttori e commercianti; può dunque sostenersi che nel singolo atto di scambio disonesto si tutela un interesse collettivo ed in particolare l'interesse a che sia osservato un costume di lealtà e correttezza nello svolgimento del commercio, mentre è del tutto estranea la finalità di tutela del patrimonio dell'acquirente (Cass., sez. III, 21 aprile 2006, Vessichelli, in Mass. Uff., n. 234333; Cass., sez. III, 4 novembre 2009, Nigi, in Mass. Uff., n. 245755).

Soggetto attivo del reato può essere chiunque realizzi la condotta descritta dalla norma, non essendo necessario che l'agente rivesta la qualifica di imprenditore commerciale, sempre che il comportamento sia tenuto nell'esercizio di un'attività commerciale o in uno spaccio aperto al pubblico; conseguentemente fra i possibili soggetti attivi del reato sono inclusi dalla giurisprudenza i commessi, i dipendenti, i rappresentanti ecc. Da questa conclusione notevoli sono le conseguenze che ne derivano per la responsabilità della persona giuridica, la quale potrà essere chiamata a rispondere dell'accaduto anche quando la cessione non sia stata operata direttamente dal titolare dell'impresa commerciale, ma da un suo collaboratore ed anche nel caso in cui questi agisca senza che il suo dirigente lo sappia o sia addirittura contrario alla realizzazione della condotta di frode: stante il fatto che il reato può essere commesso da semplici collaboratori dell'imprenditore, deve ritenersi sussistente la responsabilità dell'ente quando l'illecito sia stato posto in essere nell'interesse della persona giuridica e questa non sia adeguatamente organizzata onde evitare la commissione di fatti criminali. Tale considerazione assume una rilevanza ancora maggiore se si considera che secondo la giurisprudenza il reato si considera integrato, allorché in un esercizio commerciale, gestito direttamente dal titolare o da un familiare, l'acquirente non abbia compiutamente identificato l'autore materiale della vendita (Cass., sez. III, 15 gennaio 2003, Platania, in Riv. Pen., 2003, 857): in sostanza, secondo un'impostazione analoga a quanto previsto dall'art. 8 comma 2 d.lgs. n. 231 del 2001, può ritenersi che ogni qualvolta nell'ambito dell'esercizio di un'attività commerciale si verifichi una condotta di frode sussistano i presupposti per la responsabilità dell'ente che quell'attività svolge.

Quanto alla condotta, essa consiste in una violazione contrattuale e, nonostante nella norma compaia il termine “acquirente”, la dottrina ritiene che il comportamento di frode rilevi all'interno di qualsivoglia negozio giuridico stipulato fra le parti, come il contratto estimatorio, la somministrazione, la permuta ecc.. La cosa ceduta deve essere diversa da quella pattuita e la diversità è un elemento della fattispecie che si accerta comparendo la cosa consegnata con quanto stabilito. I requisiti la cui differenza rileva secondo la fattispecie criminosa in esame sono l'origine, la provenienza, la qualità o la quantità:

1) per diversità di origine si intende il diverso luogo di produzione o di sistema di preparazione, per cui ad esempio rileva penalmente anche il congelamento con strumenti tecnologicamente inidonei (Cass., sez. VI, 7 dicembre 1992, Fabbro, in Mass. Uff., n. 193470) o l'ipotesi in cui attesti che l'alimento è prodotto in luogo diverso da quello dichiarato e l'individuazione del luogo di produzione sia rilevante per l'identità del prodotto stesso;

2) la differenza qualitativa concerne i casi in cui pur non essendoci difformità di specie, c'è divergenza su qualifiche non essenziali della cosa in rapporto alla sua utilizzabilità, pregio o grado di conservazione - per cui sussiste il reato in commento in caso di offerta in vendita di un prodotto in stato di avanzato scongelamento come la detenzione di merce scaduta (Cass., sez. III, 7 luglio 1994, Timperi, in Foro It., 1995, III, 487) o la cessione come mozzarella prodotta con latte bufalino non fresco ma surgelato, in difformità rispetto a quanto previsto dal disciplinare di produzione (Cass., sez. III, 17 giugno 2004, Bisogno, in Riv. Pen., 2005, 44) -, senza che rilevi, ad escludere la sussistenza del reato, la circostanza che tale difformità non determini un pericolo per la salute dei consumatori (Cass., sez. III, 9 luglio 2009, Ganci, in Mass. Uff., n. 244995); 3) la differenza quantitativa, infine, si riferisce alla divergenza di numero, peso, misura e dimensione.

Il delitto si consuma con la consegna della cosa da parte del venditore, consegna che può dirsi avvenuta anche se non è l'acquirente in persona a ricevere il bene ma un suo incaricato o dipendente. Peraltro, all'espressione consegna che compare nella norma non va attribuito un significato stricto iure, di traditio materiale della cosa: il verbo, infatti, indica l'equipollente dell'adempimento di qualsiasi contratto che importi l'obbligo di consegnare una cosa mobile.

Quanto all'elemento soggettivo, è necessario e sufficiente che il venditore abbia consapevolezza di consegnare una cosa diversa da quella pattuita: evidentemente, però, perché sussista la responsabilità della persona giuridica è necessario che chi realizza la frode abbia (anche) l'intento di agevolare l'ente di appartenenza. Si evidenzia come non sia richiesto, per il perfezionamento del reato, che il venditore ponga in essere particolari artifici o raggiri, né che la condotta presenti un particolare connotato fraudolento; in particolare – a conferma della “facilità” con cui è possibile violare tale disposizione nell'esercizio del commercio – si afferma che nessun obbligo di particolare controllo sussiste in capo all'acquirente, il quale non è tenuto a verificare la conformità del bene ricevuto rispetto a quanto concordato: non ci si potrà quindi difendere sostenendo che la circostanza che l'acquirente abbia ricevuto la merce nonostante l'evidente difformità del bene rispetto a quanto pattuito sarebbe indicativa di una volontà della persona offesa di accettare la consegna di un aliud pro alio.

Le soluzioni giuridiche

Stante la sussistenza del reato presupposto di frode in commercio, la Cassazione annulla comunque l'ordinanza del riesame per ragioni attinenti alla sussistenza (anzi, mancata valutazione circa la sussistenza) delle esigenze cautelari, il cd. periculum in mora, su cui i giudici di merito non si erano pronunciati.

Il silenzio dei giudici su questo profilo si spiega in ragione del fatto che il Tribunale del riesame ha, verosimilmente, ritenuto implicitamente irrilevante la questione, tenendo evidentemente conto di quella giurisprudenza secondo cui, in caso di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, spetta al giudice il solo compito di verificare che i beni rientrino nelle categorie delle cose oggettivamente suscettibili di confisca, essendo invece irrilevante sia la valutazione del periculum in mora - che attiene ai requisiti del sequestro preventivo impeditivo di cui all'art. 321 comma 1c.p.p. - sia quella inerente alla pertinenzialità dei beni (Cass., sez. II, 26 giugno 2014, n. 31229). Secondo questa giurisprudenza, infatti, il sequestro per equivalente rientra nell'ambito del sequestro ai fini di confisca di cui all'art. 321 commi 2 e 2-bisc.p.p., e costituisce una figura specifica ed autonoma rispetto al sequestro preventivo regolato dal primo comma dello stesso articolo, con la conseguenza che non risulta necessaria la presenza dei requisiti di applicabilità previsti per il sequestro preventivo 'tipico, essendo sufficiente il presupposto della confiscabilità, non venendo neppure in considerazione alcuna prognosi di concreta pericolosità connessa alla libera disponibilità delle cose medesime, le quali, proprio perché confiscabili, sono di per sé oggettivamente pericolose, indipendentemente dal fatto che si versi in materia di confisca facoltativa o obbligatoria (Cass., sez. III, 17 settembre 2014, n. 47684).

Questo orientamento è stato però recentissimamente superato dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 11 ottobre 2021, n. 36959) le quali hanno affermato che anche il provvedimento di sequestro preventivo di beni finalizzato alla confisca facoltativa previsto dall'art. 321 comma 2 c.p.p. richiede la motivazione in ordine alla sussistenza del requisito del "periculum in mora" salvo che nel caso di sequestro finalizzato alla confisca obbligatoria ai sensi dell'art. 240 comma secondo c.p. ovvero se si tratta di cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisca reato – nel qual caso la motivazione può riguardare la sola appartenenza del bene al novero di quelli confiscabili ex lege.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione porta alle sue logiche conseguenze l'asserzione delle Sezioni unite di cui si è detto sopra.

In effetti, i provvedimenti di sequestro previsti nell'ambito del d.lgs. n. 231 del 2001 sono riferiti, secondo quanto prevede il combinato disposto degli artt. 19 e 53 di tale testo normativo, al prezzo o del profitto del reato, dunque nozioni che non possono invece rientrare nella previsione di cui all'art. 240 c.p.p. ed in relazione ai quali l'apposizione del vincolo richiede una apposita motivazione in ordine alla sussistenza delle esigenze cautelari.

Quanto alle esigenze sottostanti all'apparato cautelare presente nel procedimento ex d.lgs. n. 231/2001 si ricorda che tale disciplina ha necessariamente una bassa valenza strumentale rispetto al raggiungimento degli obiettivi e delle finalità proprie del giudizio penale, posto che, «rivolge[ndosi] ad un soggetto collettivo … non prende in considerazione esigenze cautelari relative al pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, condotte legate necessariamente all'azione di una persona fisica» (FIDELBO, Le misure cautelari. Sezione I. Misure interdittive, in AA.VV., Reati e responsabilità degli enti, a cura di LATTANZI, Milano 2010, 456): le misure cautelari richiamate dal d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231 sono dunque intese più ad anticipare la decisione che a consentire un corretto svolgimento del processo (VARANELLI, Le misure cautelari nel procedimento per la responsabilità amministrativa degli enti, in Resp. Amm. Soc., 2008, 4, 166) ed in tal senso sono equiparabili alle misure di sicurezza, essendone valorizzata la finalità preventiva, come dimostrato dalla presenza, quale presupposto della loro adozione, «della sola esigenza relativa alla pericolosità dell'ente, che, fra tutte, è quella che presenta maggiori connotati di sostanzialità» (FIDELBO, Le misure cautelari, cit., 456). È a tali esigenze dunque che andrà d'ora in poi collegata l'adozione della misura cautelare del sequestro preventivo

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