Trasfusione con sacca ematica contaminata e responsabilità del dirigente del centro trasfusionale per la morte del paziente

Vittorio Nizza
23 Dicembre 2021

La sentenza in oggetto riguardava il decesso di un paziente presso l'ospedale causato da shock settico da batteriemia conseguito alla trasfusione di una sacca ematica contaminata. Dalle indagini era emerso che presso il medesimo reparto ospedaliero erano state rilevate gravi criticità a seguito di un'ispezione effettuata dalla Struttura Commissariale della Regione Calabria. Veniva pertanto imputato il direttore del centro trasfusionale per i reati di rifiuto di atti di ufficio...
Massima

È configurabile il reato di commercio o somministrazione di medicinali guasti o imperfetti anche con riferimento al sangue umano destinato ad uso trasfusionale, attesa la sua riconducibilità al concetto di "medicinali" di cui all'art. 443 c.p., che comprende ogni sostanza o preparato che scientificamente assume una funzione diagnostica, profilattica, terapeutica, anestetica o che viene impiegata per predisporre l'organismo ad un esame avente scopo sanitario.

Il caso

La sentenza in oggetto riguardava il decesso di un paziente presso l'ospedale causato da shock settico da batteriemia conseguito alla trasfusione di una sacca ematica contaminata. Dalle indagini era emerso che presso il medesimo reparto ospedaliero erano state rilevate gravi criticità a seguito di un'ispezione effettuata dalla Struttura Commissariale della Regione Calabria.

Veniva pertanto imputato il direttore del centro trasfusionale per i reati di rifiuto di atti di ufficio, somministrazione di medicinali imperfetti e morte come conseguenza non voluta di un delitto. Secondo la ricostruzione accusatoria, infatti, l'imputato avrebbe omesso di attivarsi per risolvere le gravi criticità evidenziate nel suo reparto dal rapporto di “audit” a seguito dell'ispezione. Inoltre avrebbe accettato il rischio della somministrazione di sacche di sangue infetto giacenti nel suo reparto, provenienti dal centro di raccolta dell'ospedale, omettendo di adottare le necessarie misure atte ad inibirne l'utilizzo, nonostante fosse a conoscenza dell'infezione causata da una di queste sacche ad un altro paziente un mese prima.

L'imputato veniva condannato per tutti i reati a lui ascritti in primo e secondo grado. Proponeva pertanto ricorso avverso la sentenza della Corte d'Appello.

La questione

La Corte nella sentenza in oggetto affronta due questioni relative alla configurabilità nel caso di specie del reato di somministrazione di medicinale imperfetti di cui all'art. 443 c.p. Sotto un primo profilo viene sottoposto al vaglio dei supremi giudici la problematica relativa alla classificazione del plasma umano, usato per le trasfusioni, quale “medicinale” al fine dell'applicazione del reato contestato. In secondo luogo, la Corte analizza la questione relativa alla configurabilità nel caso di specie del dolo eventuale, motivato dai giudici di merito come accettazione del rischio.

Le soluzioni giuridiche

Nel caso in esame la Corte analizza in primo luogo la sussistenza del reato contestato di omissione di atti di ufficio. Secondo la Corte non trova accoglimento la doglianza della difesa secondo la quale gli adempimenti omessi dall'imputato non rientrerebbero tra gli “atti d'ufficio per ragione di sanità” la cui mancanza configura il reato di cui all'art. 328 c.p. La Corte sottolinea invece come la giurisprudenza si sia ormai consolidata nel ritenere tra gli “atti di ufficio per ragioni di sanità” rientrino non solo quegli atti con carattere di doverosità e indifferibilità aventi natura propriamente sanitaria, ma anche quelli strettamente funzionali alla realizzazione di questi ultimi. La mancata risoluzione da parte dell'imputato, direttore del reparto, delle carenze riscontrate a seguito dell'ispezione provinciale rientra nell'ipotesi di omissione di quegli atti di ufficio individuati dalla norma penale. Secondo la Corte la natura e l'urgenza di quegli adempimenti ritenuti necessari all'esito dell'ispezione li rende, infatti, “atti d'ufficio per ragioni di sanità” indifferibili ai sensi dell'art. 328 c.p.

La sentenza analizza poi la configurabilità nel caso di specie del secondo reato contestato all'imputato, quello di commercio o somministrazione di medicinali guasti punito dall'art. 443 c.p. Nel caso di specie, la condotta addebitata all'imputato aveva ad oggetto una sacca di sangue per trasfusioni risultato poi infetto.

Secondo l'impostazione della difesa il sangue umano non rientrerebbe nella definizione di “medicinale” assunta dall'art. 443. La difesa, infatti, richiama il d.lgs. n. 219 del 2006 che esclude che il sangue umano (intero, plasma o cellule ematiche di origine umana) possa essere considerato “medicinale” ad eccezione dei casi in cui lo stesso venga impiegato nel corso di un procedimento industriale per la fabbricazione di sostanze finalizzate alla cura ed alla profilassi dell'essere umano.

La Corte, però, precisa come la nozione di “medicinale” utilizzata dalla norma del 2006 in realtà non coincida con quella prevista dall'art. 443 c.p. Secondo l'interpretazione giurisprudenziale, infatti, il concetto di “medicinale” previsto dalla norma del codice penale è più ampio andando a ricomprendere ogni sostanza o preparato che scientificamente assume una funzione diagnostica, profilattica, terapeutica, anestetica o che viene impiegata per predisporre l'organismo ad un esame avente scopo sanitario. Conclude la Corte come il sangue umano usato per le trasfusioni abbia un evidente scopo terapeutico e pertanto debba essere considerato un medicinale.

I supremi giudici analizzano allora la configurabilità del reato in questione anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo. Secondo la ricostruzione accusatoria, l'imputato avrebbe accettato il rischio della somministrazione di sacche di sangue infetto presenti nel suo reparto omettendo di adottare le misure necessarie per inibirne l'uso, pur essendo a conoscenza di un altro caso di infezione causata da una sacca infetta. Si tratterebbe pertanto di un profilo di dolo eventuale.

Secondo la Corte, tuttavia, il dolo eventuale non può essere ricondotto a mera accettazione del rischio. L'elemento caratterizzante il dolo eventuale non è quello rappresentativo, che può riscontrarsi anche nei casi di colpa cosciente, bensì quello volitivo ossia la finalizzazione dell'agire umano ad un determinato evento prefigurato dal reo.

Nel dolo eventuale non si può rinunciare ad una connessione psicologica tra la condotta e lo specifico evento causato, il quale implica non la semplice accettazione di una situazione rischiosa, bensì di una definita conseguenza antigiuridica. Il dolo eventuale quale atteggiamento psicologico dell'agente, non si identifica dunque con l'accettazione del rischio della produzione dell'evento, in quanto tenere una condotta incauta, pur con la consapevolezza della situazione di rischio è tipico della colpa. L'art. 43 c.p., infatti, richiede una ineludibile relazione tra al volontà e la causazione dell'evento, he difetta nella mera accettazione del rischio. In definitiva ciò che rileva è che la condotta dell'agente sia frutto di una consapevole adesione all'evento.

Nel caso di specie, la suprema corte disattende quindi il ragionamento effettuato dalla Corte d'Appello in merito alla sussistenza dell'elemento soggettivo ritenendolo apodittico e lacunoso. Tale ragionamento, infatti, si sarebbe basato unicamente sul fatto che l'imputato, violando una regola precauzionale pur in presenza di un pregresso evento allarmante, avrebbe consentito la somministrazione della sacca poi rivelatasi infetta, senza tuttavia far riferimento agli indici dai quali sarebbe desumibile l'adesione psicologica dell'imputato a tale accadimento né all'esatta condotta omissiva attribuibile all'imputato.

I giudici pertanto annullano con rinvio la sentenza impugnata in relazione all'imputazione di cui all'art. 443 c.p., rimettendo al giudice del rinvio, sulla base delle indicazioni date, la valutazione circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del dolo eventuale ed ove questo non risultasse configurabile la possibilità di attribuire il fatto all'imputato a titolo di colpa ai sensi dell'art. 452 c.p. ove ne sussistano i presupposti. Tali considerazioni in merito al reato di cui all'. art. 443 c.p. comportano il rinvio anche dell'art. 586 c.p. la cui configurabilità si ricollega alla sussistenza del primo reato doloso.

Osservazione

La sentenza in esame affronta, tra gli altri, il tema della determinazione dei caratteri del dolo eventuale e dei problemi probatori ad esso collegati nonché la non facile identificazione del confine con la colpa cosciente.

Tra le diverse forme di dolo, infatti, si è soliti distinguere tra dolo “diretto” e il dolo “indiretto” o “eventuale”. Il primo richiede, per la sua configurabilità, che il soggetto agente si sia rappresentato e abbia voluto realizzare l'evento tipizzato dalla norma incriminatrice. Occorre pertanto che vi sia la coscienza e volontà di compiere una determinata azione, prefigurandosi come certo o altamente probabile il risultato della sua condotta.

Più problematico l'inquadramento del dolo “eventuale”, sul quale sono state elaborate diverse teorie sia in dottrina che in giurisprudenza. Tale forma di dolo sarebbe connotata dall'accettazione del rischio che l'evento si verifichi. Il soggetto agente non si rappresenta l'evento come certo o altamente probabile, ma come una delle possibili conseguenze della sua azione e agisce accettando il rischio che questo si verifichi. La giurisprudenza ha oscillato nell'individuare gli elementi caratterizzanti di tale forma di dolo che ne consentono la distinzione con la colpa “cosciente”, che si configurerebbe invece nelle ipotesi in cui il soggetto agente si configura come possibile conseguenza della sua azione l'evento tipico del reato, pur non volendolo realizzare.

Un orientamento più risalente, infatti, incentrava la distinzione sulla prevedibilità in concreto o in astratto dell'evento, “il dolo eventuale si differenzia dalla colpa cosciente per la previsione dell'evento come concretamente e non solo astrattamente realizzabile, talché, in mancanza dell'autonoma prova di tale circostanza, non è possibile ritenere che l'agente abbia voluto l'evento, a meno di non voler affermare sempre l'esistenza di un dolo "in re ipsa" per il solo fatto della consumazione di una condotta rimproverabile” (Cass. pen. 13083 del 2009). Secondo la giurisprudenza più recente sarebbe invece da valorizzare il criterio dell'accettazione del rischio “in tema di elemento soggettivo del reato, ricorre il dolo eventuale quando si accerti che l'agente, pur essendosi rappresentato la concreta possibilità di verificazione di un fatto costituente reato come conseguenza del proprio comportamento, persiste nella sua condotta, accettando il rischio che l'evento si verifichi; si versa invece nella colpa con previsione quando l'agente prevede in concreto che la sua condotta possa cagionare l'evento ma ha il convincimento di poterlo evitare” (Cass. pen. 24612 del 2014).

La sentenza in commento aderisce al filone giurisprudenziale fatto proprio anche dalle sezioni unite con la sentenza Espenhahn che attribuisce invece maggior rilevanza all'aspetto volitivo, considerato l'elemento caratterizzante del dolo, non ritenendo sufficiente il riferimento alla mera accettazione del rischio. Il momento rappresentativo, ossia la semplice accettazione di una situazione rischiosa può riscontrarsi anche nei casi di colpa cosciente. Nel dolo eventuale, invece, deve esserci comunque una connessione psicologica tra la condotta e lo specifico evento causato: “la condotta dell'agente deve essere frutto di una consapevole adesione all'evento”.

Le Sezioni Unite nella sentenza n. 38343 del 2014 avevano infatti affermato che:

in tema di elemento soggettivo del reato, il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi; ricorre invece la colpa cosciente quando la volontà dell'agente non è diretta verso l'evento ed egli, pur avendo concretamente presente la connessione causale tra la violazione delle norme cautelari e l'evento illecito, si astiene dall'agire doveroso per trascuratezza, imperizia, insipienza, irragionevolezza o altro biasimevole motivo”. Precisando, inoltre che “in tema di elemento soggettivo del reato, per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l'indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'"iter" e l'esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell'agente; c) la durata e la ripetizione dell'azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell'evento; g) le conseguenze negative anche per l'autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l'azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cosiddetta prima formula di Frank)

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