Esecuzione del mandato d'arresto europeo e tutela del diritto fondamentale alla salute del ricercato

10 Gennaio 2022

La Corte costituzionale chiede alla Corte di giustizia di chiarire se l'art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, debba essere interpretato nel senso che l'autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico...
Massima

La Corte costituzionale ha sottoposto alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in via pregiudiziale ai sensi dell'art. 297 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, la questione se l'art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'unione europea (CDFUE), debba essere interpretato nel senso che l'autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico e potenzialmente irreversibili possa esporla al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute, debba richiedere all'autorità giudiziaria emittente le informazioni che consentano di escludere la sussistenza di questo rischio, e sia tenuta a rifiutare la consegna allorché non ottenga assicurazioni in tal senso entro un termine ragionevole.

Il caso

La Corte d'appello di Milano aveva sollevato una questione di legittimità costituzionale poiché riteneva lacunosa la disciplina dei motivi di rifiuto della consegna contenuta negli artt. 18 e 18-bis della l. 22 aprile 2005, n. 69, sul mandato d'arresto europeo. L'ordinanza di rimessione, rilevato che tali norme non consentivano di respingere la richiesta di cooperazione a fronte dell'esigenza di tutelare la salute del ricercato, delineava tre distinti profili di contrasto incentrati sulla violazione del diritto fondamentale alla salute, del principio di uguaglianza e, infine, del diritto alla durata ragionevole del processo.

Il giudice a quo premetteva di doversi pronunciare su un euromandato processuale spiccato dalla autorità croata nei confronti di un cittadino italiano perseguito per reati in materia di stupefacenti e riferiva che i risultati di una perizia eseguita nell'ambito della procedura avevano consentito di accertare che il ricercato era affetto da gravissimi disturbi psichiatrici e che pertanto era elevatissimo il rischio di suicidio qualora fosse stato consegnato e incarcerato in attesa del processo. In questa ottica, precisava che la traditio avrebbe comportato l'interruzione del percorso terapeutico in atto e l'eradicazione dal contesto familiare e sociale con il conseguente aggravarsi del pregiudizio per la salute che avrebbe perciò raggiunto livelli estremi.

Ciò posto, il collegio deduceva che il quadro normativo non permetteva di adottare soluzioni che salvaguardassero la salute dell'interessato, non rinvenendosi tra i numerosi motivi di rifiuto contemplati dalla legge italiana, una fattispecie nella quale inquadrare la situazione descritta.

D'altro canto, il problema non poteva essere risolto neppure attraverso l'applicazione dell'art. 23 comma 3 della legge sull'euromandato: la norma consente di sospendere la consegna, ma opera soltanto in sede di esecuzione e, soprattutto, è calibrata per affrontare situazioni differenti, nelle quali la malattia non ha carattere cronico e durata indeterminabile, ma è destinata a risolversi in un periodo di tempo circoscritto. In ultimo, il giudice rimettente escludeva anche la possibilità di avviare una interlocuzione con l'autorità croata facendo ricorso al cosiddetto “metodo Aranyosi”. Tale meccanismo, infatti, è applicabile qualora il pericolo per la tutela dei diritti fondamentali sia riconducibile a carenze strutturali o sistemiche dello Stato membro di emissione e non qualora il problema abbia origine esclusiva nelle peculiarità del caso specie.

Un simile assetto si porrebbe in contrasto con la Costituzione per una pluralità di ragioni. In primo luogo, il grave pregiudizio alla salute integra una violazione degli artt. 2 e 32 e, in una dimensione sovranazionale, dell'art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In secondo luogo, il confronto con la disciplina dell'estradizione lascia emergere una violazione dell'art. 3: invero, in tale ultimo contesto l'art. 705 comma 2 lett. c-bis), c.p.p. impedisce di estradare una persona qualora ragioni di salute o di età comportino il rischio di conseguenze di eccezionale gravità. Infine, un ulteriore elemento di contrasto sarebbe stato integrato dall'applicazione dell'art. 23. La sospensione della consegna in ragione di una malattia ritenuta irreversibile darebbe luogo a una paralisi processuale destinata a durare per un tempo indefinito, con conseguente violazione del principio della ragionevole durata del processo. Sarebbe scaturito insomma uno stallo della procedura non superabile neppure attraverso la celebrazione del processo in assenza del ricercato.

La Corte costituzionale, dopo aver ammesso alcuni degli interventi degli amici curiae, ha respinto le eccezioni di inammissibilità articolate dalla difesa erariale e ha proceduto oltre, avviando un'interlocuzione con la Corte di giustizia. La decisione, infatti, sottopone una questione pregiudiziale tesa ad approfondire le prospettive di tutela dei diritti fondamentali alla luce della decisione quadro sull'euromandato. A tal fine chiede pure di definire rapidamente il caso, facendo ricorso al procedimento accelerato, disciplinato dall'art. 105 del regolamento di procedura della Corte di giustizia. Una risposta rapida al quesito, infatti, si è necessaria poichè i temi da affrontare riguardano aspetti centrali del funzionamento dell'euromandato e le soluzioni che verranno adottate incideranno sensibilmente sul corso della cooperazione e sui diritti delle persone ricercate.

La questione

La Corte costituzionale, dunque, chiede alla Corte di giustizia di chiarire se l'art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato di arresto europeo, letto alla luce degli artt. 3, 4 e 35 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, debba essere interpretato nel senso che l'autorità giudiziaria di esecuzione, ove ritenga che la consegna di una persona afflitta da gravi patologie di carattere cronico e potenzialmente irreversibili possa esporla al pericolo di subire un grave pregiudizio alla sua salute, debba richiedere alla autorità giudiziaria emittente le informazioni che consentano di escludere la sussistenza di questo rischio, e sia tenuta a rifiutare la consegna allorché non ottenga assicurazioni in tal senso in un termine ragionevole.

Le soluzioni giuridiche

Il percorso argomentativo del Giudice delle leggi mette a fuoco, per un verso, i progressi compiuti dalla giurisprudenza europea sul rapporto tra l'esecuzione del mandato d'arresto europeo e la tutela dei diritti fondamentali della persona ricercata e, per altro verso, le ripercussioni in questa materia della recente riforma della disciplina italiana.

L'ordinanza muove proprio dalla descrizione delle innovazioni apportate alla l. 22 aprile 2005, n. 69 dal d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10 alle previsioni sui motivi di rifiuto della consegna. Tale metamorfosi ha indotto la difesa del ricercato a sostenere che la nuova veste della disciplina avrebbe consentito di pervenire, dopo aver restituito gli atti al giudice rimettente, a un approdo differente da quello raggiunto in precedenza. Questa lettura, valorizzando il nuovo testo dell'art. 2, ipotizzava che il giudice potesse rifiutare la consegna anche in situazioni diverse da quelle contemplate dagli artt. 18 e 18-bis qualora l'accoglimento della richiesta di cooperazione avesse comportato il rischio di violare i diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione italiana, ovvero i diritti fondamentali sanciti dall'art. 6 del Trattato sull'Unione europea e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, tra i quali figura proprio il diritto alla salute.

La Corte costituzionale, tuttavia, ha escluso che il sopravvenire di una diversa disciplina imponesse la restituzione degli atti al rimettente per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, perché la norma transitoria contemplata dall'art. 28 del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10 impedisce l'applicazione delle nuove previsioni al caso de quo. In secondo luogo, perché le clausole generali contenute nelle disposizioni di apertura della legge sull'euromandato, tanto nella formulazione previgente che in quella attualmente in vigore, non possono essere interpretate nel senso di estendere oltre il perimetro tracciato dal legislatore le ipotesi di rifiuto, che hanno carattere tassativo.

Ciò posto, l'ordinanza rileva che il tema da affrontare implica una considerazione di più ampio respiro che non riguarda soltanto il possibile contrasto con i principi costituzionali, ma coinvolge l'interpretazione del diritto dell'Unione europea, del quale la previsione censurata costituisce specifica attuazione. In effetti, la possibilità di rifiutare la consegna per ragioni di salute non è prevista neppure dagli artt. 3, 4 e 4-bis della decisione quadro che descrivono il catalogo dei motivi di rifiuto, obbligatori e facoltativi, ai quali devono attenersi i legislatori nazionali nel predisporre la normativa di recepimento.

Così, la Corte si interroga innanzitutto sulla possibilità di far uso degli strumenti normativi vigenti per risolvere il problema. Da questo punto di vista, d'accordo con il giudice rimettente, afferma che l'art. 23 non è adeguato a fronteggiare i pericoli derivanti da patologie croniche o di durata indeterminabile. Il rinvio della consegna, invero, costituisce evento eccezionale nella relazione cooperativa ed è calibrato per soddisfare esigenze di carattere temporaneo. Dinanzi a situazioni di durata indeterminabile, al contrario, un differimento destinato a protrarsi indefinitamente pregiudicherebbe le esigenze dello Stato richiedente senza apportare alcun giovamento all'interessato. Il primo, infatti, nonostante l'accoglimento della richiesta di consegna vedrebbe continuamente rinviata la materiale traditio e non potrebbe mai soddisfare la propria pretesa coercitiva, sia essa di natura cautelare o esecutiva, con conseguente paralisi del processo ovvero dell'esecuzione. Il secondo, invece, non potrebbe esercitare appieno le proprie facoltà difensive: la collocazione della questione nel segmento esecutivo e non in quello di cognizione della procedura di consegna, come da costante giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Cass., sez. VI, 25 giugno 2020, n. 19389, in C.E.D. Cass., n. 279419), riduce notevolmente i margini di manovra. D'altro canto, il susseguirsi di rinvii determinerebbe nell'interessato una situazione di continua incertezza circa la propria sorte e inciderebbe negativamente sulla ragionevole durata della procedura, in una dimensione nella quale è attinta direttamente la libertà personale. Da questo punto di vista è efficacissimo il paragone con la condizione degli “eterni giudicabili” (C. cost., 25 marzo 2015, n. 45, in Cass. pen., 2015, p. 2550).

A questo punto, la Corte ritorna sulla latitudine delle clausole generali contenute negli artt. 1 e 2 per escludere che, a prescindere dai profili di diritto intertemporale e dalle differenti formulazioni che si sono avvicendate, consentano di ampliare l'elenco dei motivi di rifiuto.

Un primo impedimento è di carattere procedurale, poiché l'enunciazione in forma solenne della tutela dei diritti fondamentali non contiene esplicitamente l'attribuzione al giudice del potere di verificare se, caso per caso, l'esecuzione di un euromandato determini una violazione di principi e diritti fondamentali.

Ma l'ostacolo veramente insuperabile è rappresentato dal fatto che una simile interpretazione entrerebbe in rotta di collisione con la decisione quadro. Questa, pur affermando espressamente all'art. 1, par. 3 e nel considerando n. 12, che l'esecuzione di un euromandato non può pregiudicare i diritti fondamentali, non consente agli Stati membri - come ha giù puntualizzato la Corte di giustizia nel caso Melloni (CorteGiust. UE,26 febbraio 2013, C-399/11, in Cass. pen., 2013, p. 2066) - di manipolare il funzionamento del meccanismo cooperativo attraverso l'introduzione di ulteriori ipotesi ostative tese a pretendere il rispetto di livelli di tutela puramente nazionali poiché una simile manovra comprometterebbe il primato, l'unità e l'effettività del diritto dell'Unione.

Da qui, una prima conclusione, secondo la quale le singole autorità nazionali, al di fuori di quanto consentito dalla decisione quadro, non possono rifiutare la consegna invocando previsioni del proprio diritto nazionale. Ciò significa, in altre parole, che un'estensione delle previsioni degli artt. 1 e 2 della legge italiana sull'euromandato che permettesse alla autorità giudiziaria di ampliare e modellare i motivi di rifiuto secondo le esigenze del caso concreto sarebbe manifestamente contraria al diritto europeo e non sarebbe ammissibile anche nella ipotesi estrema in cui l'esecuzione di un mandato di arresto europeo conducesse a un risultato in contrasto con i principi dell'ordinamento costituzionale o con i diritti inviolabili della persona. In simili situazioni, lo scrutinio circa la sussistenza del contrasto e l'assunzione delle conseguenti decisioni sono sottratti alla autorità giudiziaria ordinaria e sono affidati in via esclusiva alla Corte costituzionale.

Chiarito questo aspetto, il Giudice delle leggi rivolge l'attenzione alle decisioni con le quali la Corte di giustizia ha delineato il meccanismo di interlocuzione tra le autorità coinvolte nella relazione di cooperazione da adoperare dinanzi al sospetto di una esecuzione contraria ai diritti fondamentali.

Infatti, proprio perchè lo stesso diritto dell'Unione non tollera che un euromandato possa essere eseguito in spregio dei diritti fondamentali, il giudice europeo ha elaborato un rimedio da applicare ogniqualvolta nella procedura di consegna emerga una condizione del ricercato meritevole di protezione, ma non riconducibile ad alcuna previsione della decisione quadro. Si tratta del citato “metodo Aranyosi”, inaugurato per affrontare i riflessi del sovraffollamento carcerario sui rapporti tra Stati membri (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, in Giur. cost., 2016, p. 1560; C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-220/18, in Cass. pen., 2018, p. 3319; C. giust. UE, 15 ottobre 2019, C-128/18, ivi, 2020, p. 773) e replicato in altre sentenze (ex plurimis, C. giust. UE, 25 luglio 2018, C-216/18, in Cass. pen., 2018, p. 3907; C. giust. UE, 17 dicembre 2020, C-354/20 e C-412/20). In estrema sintesi, secondo lo schema descritto in tali decisioni, lo Stato membro di esecuzione, qualora ravvisi una potenziale lesione dei diritti fondamentali derivante dall'accoglimento della richiesta di consegna, è tenuto a interpellare lo Stato membro di emissione, ai sensi dell'art. 15, par. 2 della decisione quadro, affinché fornisca le informazioni ed eventualmente le rassicurazioni necessarie. Soltanto qualora all'esito di tale interlocuzione non risultino fugati i dubbi, lo Stato di esecuzione può rifiutare, al di là dei casi indicati dalla decisione quadro, la consegna (per la prima applicazione nell'ordinamento italiano, sez. VI, 1° giugno 2016, n. 23277, in Cass. pen., 2016, p. 3804).

Nel caso di specie, la Corte puntualizza che il giudice non poteva autonomamente devolvere la questione alla Corte di giustizia poiché la vicenda presenta un profilo di assoluta novità: in tutte le occasioni nelle quali finora è stato fatto uso del “metodo Aranyosi”, infatti, il pericolo di violazione dei diritti fondamentali discendeva da carenze sistemiche o generalizzate dello Stato di emissione o comunque da situazioni che coinvolgevano determinati gruppi di persone o interi centri di detenzione; ora, diversamente, la questione sollevata dalla Corte d'appello è incentrata sulla peculiarità del singolo caso, nel quale le criticità derivano piuttosto dalle specifiche condizioni patologiche del ricercato.

È necessario, quindi, devolvere alla Corte di giustizia la decisione circa la possibilità di estendere in via analogica in simili situazioni i principi enunciati in precedenza per chiarire se sia possibile porre fine alla procedura di consegna qualora la sussistenza di un rischio di violazione dei diritti fondamentali dell'interessato non possa essere esclusa entro un termine ragionevole.

L'ordinanza si conclude quindi con l'esposizione di alcuni argomenti a sostegno della soluzione positiva al quesito.

Il Giudice delle leggi ricorda che il diritto alla salute è tutelato come un diritto fondamentale dell'individuo, oltre che come interesse della collettività, sia dall'ordinamento italiano - essendo riconducibile non soltanto all'art. 32, ma anche all'art. 2 Cost. che pongono a carico dei pubblici poteri l'obbligo di assicurare i trattamenti sanitari indispensabili per la protezione della persona, anche se detenuta - sia nella dimensione sovranazionale e, in particolare, nell'ordinamento dell'Unione europea, nel quale il diritto alla salute assume identico rilievo alla luce degli artt. 3 e 35 della Carta dei diritti fondamentali.

Pertanto, laddove l'esecuzione di un mandato d'arresto europeo dovesse esporre l'interessato a un serio rischio di conseguenze pregiudizievoli per la sua salute si profilerebbe una lesione dell'art. 4 della Carta dei diritti fondamentali che, in rima con l'art. 3 della Cedu, sancisce il diritto della persona - non bilanciabile con nessun altro controinteresse, stante la sua natura assoluta - a non subire trattamenti inumani e degradanti. Sul punto, la Corte costituzionale richiama gli arresti nei quali i Giudici dei diritti fondamentali hanno ritenuto contraria all'art. 3 l'estradizione di un soggetto affetto da gravi patologie mentali e destinato a subire una custodia cautelare senza possibilità di accedere a terapie adeguate alle sue condizioni (ex plurimis, C. eur. dir. uomo, 16 aprile 2013, e, per l'enunciazione di un principio simile in tema di diritto di asilo, C. giust. UE, 16 febbraio 2017, C-578/16).

D'altro canto, l'esigenza di tutelare i diritti fondamentali del ricercato deve essere conciliata con l'interesse, comune a tutti gli Stati membri e non riferibile soltanto allo Stato che ha spiccato l'euromandato, a perseguire i sospetti autori di reato, ad accertarne la responsabilità e, se giudicati colpevoli, ad assicurare nei loro confronti l'esecuzione della pena. L'eventuale impunità del ricercato, infatti, può costituire violazione dell'art. 2 Cedu, come ha recentemente precisato la Corte europea dei diritti dell'uomo in un caso nel quale era stata ingiustamente negata l'esecuzione di un mandato di arresto europeo (C. eur. dir. uomo, 9 luglio 2019, in Cass. pen., 2019, p. 4505).

In sintesi, secondo la Corte costituzionale, si deve evitare che la pur imprescindibile tutela del diritto fondamentale alla salute della persona richiesta in consegna comporti la sistematica impunità di gravi reati.

Così, escluso che la celebrazione del processo in assenza dell'imputato sia una strada percorribile, l'ordinanza afferma che una diretta interlocuzione tra le autorità giudiziarie degli Stati membri interessati consentirebbe di individuare soluzioni che permettano, nel caso concreto, di sottoporre a processo l'interessato nello Stato membro di emissione, garantendogli la pienezza dei diritti di difesa ed evitando, allo stesso tempo, di esporlo al pericolo di un grave danno alla salute. In questa ottica, seguendo il “metodo Aranyosi”, si potrebbe pervenire al rifiuto della consegna soltanto qualora l'interlocuzione non permetta di individuare entro un tempo ragionevole soluzioni soddisfacenti.

Osservazioni

Il complesso itinerario compiuto dalla Corte costituzionale evidenzia due aspetti della disciplina del mandato d'arresto europeo che attengono al rapporto tra la decisione quadro e la legge di attuazione italiana nella prospettiva della tutela dei diritti fondamentali, soprattutto alla luce della recente modifica realizzata con il d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10.

La convinzione che tutti gli Stati membri dell'Unione europea condividessero un comune patrimonio di principi e garantissero pertanto il rispetto dei diritti fondamentali era alla base della predisposizione di una disciplina che, al fine di superare le difficoltà dei meccanismi estradizionali, semplificasse i rapporti di cooperazione giudiziaria in materia penale, anche attraverso la riduzione dei motivi di rifiuto della consegna.

L'individuazione di ipotesi tassative nelle quali lo Stato membro di esecuzione potesse respingere la richiesta di cooperazione si basava sul principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie e sulla reciproca fiducia che doveva ispirare le relazioni tra gli Stati membri.

La prassi, tuttavia, ha dimostrato quanto il perseguimento di un simile obiettivo fosse difficile e quanto sia ancora distante il raggiungimento di un punto di quiete in questa materia.

Riscontro inequivoco di tale affermazione proviene dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che nell'arco di circa quindici anni è più volte intervenuta per chiarire il funzionamento del congegno cooperativo. Le sentenze del giudice europeo impartiscono un insegnamento secondo il quale il livello di protezione garantito dalla decisione quadro non può essere innalzato dallo Stato membro di esecuzione che pretenda di imporre nella relazione di cooperazione il livello di tutela predisposto nel proprio ordinamento. Il catalogo di motivi contenuto nella decisione quadro, infatti, assicura garanzie che rappresentano un punto di incontro tra le diverse discipline nazionali, nel rispetto delle previsioni delle carte sovranazionali. Al di là di tale livello, dunque, non è possibile spingersi, se non a costo di pregiudicare il nuovo corso della cooperazione.

Questa impostazione, tuttavia, è stata mitigata in arresti successivi, secondo i quali una deroga è possibile soltanto in situazioni eccezionali, nelle quali l'introduzione di un motivo di rifiuto extra ordinem è determinato dalla necessità di impedire violazioni dei diritti fondamentali.

Si tratta, come accennato, di ipotesi peculiari: il sovraffollamento delle carceri e la riforma delle istituzioni giudiziarie, ad esempio, costituiscono eventi che sfuggono all'inquadramento in casi predeterminati di rifiuto, ma che esigono allo stesso modo la predisposizione di una tutela poiché incidono sui diritti fondamentali.

È in questo contesto, quindi, che si colloca l'ordinanza della Corte costituzionale che prospetta un'ulteriore evoluzione nella misura in cui ritiene opportuno applicare il “metodo Aranyosi” anche quando la lesione di un diritto fondamentale non discende da carenze di carattere sistemico dell'ordinamento giuridico dello Stati membro, ma dalle coordinate fattuali del caso concreto.

L'auspicata introduzione di un'interlocuzione tra le autorità giudiziarie anche in tale contesto stimola una riflessione alla luce della implementazione nell'ordinamento italiano di altri strumenti di cooperazione. In questa ottica, constatata l'impossibilità di eseguire il mandato di arresto europeo, lo Stato membro di emissione potrebbe collocare la relazione di cooperazione su binari differenti, dopo aver sostituito la misura cautelare con altra meno afflittiva. Si potrebbe in tal modo far ricorso all'ordine di sorveglianza europeo, disciplinato dal d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 36. Esemplificando, nell'ipotesi in cui l'autorità giudiziaria italiana intraveda un ostacolo all'esecuzione del mandato d'arresto europeo determinato dalla necessità di salvaguardare la salute del ricercato, la soluzione potrebbe risiedere nella sostituzione da parte dello Stato membro di emissione della misura cautelare adottata nei confronti del ricercato e, quindi, nella trasformazione della richiesta di consegna in quella di sorvegliare l'applicazione di una coercizione extramuraria. L'esecuzione in Italia consentirebbe così di soddisfare le esigenze dello Stato richiedente evitando, allo stesso tempo, un sacrificio eccessivo per la persona richiesta in consegna. Si tratta, tuttavia, di una soluzione che deve essere di volta in volta vagliata alla luce della situazione concreta per verificare se effettivamente sia percorribile.

Uno strumento alternativo, nel caso di euromandato esecutivo, potrebbe invece essere rappresentato dal trasferimento dell'esecuzione ai sensi del d.lgs. 7 settembre 2010, n. 161. In questa ipotesi, la pena inflitta verrebbe eseguita applicando gli istituti - in primis le misure alternative alla detenzione - che nell'ordinamento italiano presidiano il diritto alla salute del condannato. Anche in tal caso, si dovranno tenere presenti le caratteristiche del caso concreto per verificare la percorribilità di una simile soluzione.

La vicenda, da un differente punto di vista, evidenzia le criticità derivanti dalla scelta compiuta dal legislatore italiano con la modifica degli artt. 1 e 2 della legge sull'euromandato. Il d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, ha infatti soppresso le cause ostative estranee al testo della decisione quadro, si è astenuto dal recepirne alcune e ha rimodulato la natura - facoltativa ovvero obbligatoria - di quelle residue. Un'azione tesa a eliminare gli ostacoli alla cooperazione che si pone in contrasto proprio con quanto previsto dall'art. 2. Secondo la Relazione di accompagnamento, tale previsione dovrebbe agire come una sorta di “trasformatore permanente” che, al fine di predisporre una tutela efficace dei diritti fondamentali, adegui costantemente il dato legislativo, affidando al giudice il compito di individuare le situazioni meritevoli di tutela, ancorché non siano più consacrate in esplicite previsioni di legge. La Suprema Corte di Cassazione ha già fatto uso della norma (Cass. sez. VI, 25 giugno 2021, n. 25333, in C.E.D. Cass., n. 281533, in tema di rifiuto della consegna di madre con prole di età inferiore a tre anni), che, tuttavia, ha destato perplessità per un duplice ordine di ragioni. Il rifiuto del metodo casistico, infatti, rende più complessa e incerta l'interpretazione nella misura in cui l'individuazione dei casi di rifiuto risente della discrezionalità e della sensibilità del giudicante, che possono determinare applicazioni difformi della medesima disposizione. Inoltre, l'affermazione secondo la quale il nuovo assetto escluderebbe una lettura riduttiva delle cause ostative appare in controtendenza rispetto allo scopo di accelerare e semplificare le procedure poichè il controllo su questo aspetto è più complicato e richiede un approfondimento precluso - ovvero fortemente limitato - dalle serratissime cadenze temporali introdotte dalla novella e, in fase di impugnazione, dall'eliminazione della cognizione nel merito da parte della Suprema Corte.

La Corte costituzionale, come accennato, ha stigmatizzato l'opzione legislativa, escludendo che il giudice possa ricavare casi di rifiuto diversi da quelli ammessi dal legislatore europeo.

Guida all'approfondimento

Abate, Il sovraffollamento delle carceri come motivo di non esecuzione del mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2016, p. 3809.

Bargis, Mandato di arresto europeo e diritti fondamentali: recenti itinerari “virtuosi” della Corte di giustizia tra compromessi e nodi irrisolti, in www.penalecontemporaneo.it

Bargis, Meglio tardi che mai. Il nuovo volto del recepimento della decisione quadro relativa al m.a.e. nel d.lg. 2-2-2021, n. 10: una prima lettura, in www.sistemapenale.it.

Bartole, La Corte Europea di Giustizia fra Taricco e Aranyosi, in Giur. cost., 2016, p. 1562.

Bernardoni, Il Mae all'esame della Corte EDU: un passo ulteriore verso il “diritto costituzionale europeo” applicato?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2021, p. 1137.

Chelo, Il mandato di arresto europeo, Cedam, 2010.

Colaiacovo, La nuova disciplina del mandato d'arresto europeo tra esigenze di semplificazione della procedura e tutela del diritto di difesa, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 868.

Colaiacovo, Mandato d'arresto europeo e diritti fondamentali secondo la Corte di giustizia, in Studium iuris, 2019, p. 162.

Falcone, La corte di Strasburgo si sofferma sulle regole di applicazione della «presunzione di protezione equivalente» nell'ambito del mutuo riconoscimento e ravvisa la prima violazione dell'art. 3 Cedu a causa dell'esecuzione di un mandato d'arresto europeo, (nota a C. eur. dir. uomo, 25 marzo 2021), in Foro it., 2021, p. IV, c. 409.

Geraci, Il mutuo riconoscimento nella cooperazione processuale: genesi, sviluppi e morfologie, Bari, 2020.

Gialuz - Grisonich, Crisi dell'Unione Europea e crepe nel reciproco riconoscimento: il dialogo costruttivo tra le Corti assicura il rispetto dei diritti fondamentali e l'efficacia del mandato di arresto europeo, in Cass. pen., 2021, p. 2650.

Guerini, Mandato d'arresto europeo, divieto di consegna e tutela del diritto alla salute: una ‘nuova' questione di legittimità costituzionale, in www.sistemapenale.it.

Marandola, Reciproco riconoscimento, in Marandola, Cooperazione giudiziaria penale, Giuffrè, 2018, p. 861.

Marcolini, La circolazione delle pronunce cautelari personali non detentive, in Ruggieri (a cura di), Processo penale e regole europee: atti, diritti, soggetti e decisioni, Giappichelli, Torino, 2017.

Martufi, La Corte di Giustizia al crocevia tra effettività del mandato d'arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1243.

Picciotti, La riforma del mandato di arresto europeo. Note di sintesi a margine del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in www.lalegislazionepenale.eu.

Spencer, Il principio del mutuo riconoscimento, in Kostoris, Manuale di procedura penale europea, IV ed., Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, p. 341.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario