Le preclusioni assertive in ambito risarcitorio

Andrea Penta
31 Gennaio 2022

Il vero punctum dolens di ogni processo è quello di individuare quando maturano le preclusioni avuto riguardo all'attività di allegazione dei fatti (preclusioni assertive) ed a quella, connessa e successiva, di articolazione dei mezzi istruttori volti a dimostrarli (preclusioni asseverative). Con particolare riferimento alle prime, ci si domanda, in dottrina e in giurisprudenza, se il termine ultimo per introdurre in giudizio fatti nuovi, nell'esercizio dello jus poenitendi sganciato dalla dialettica processuale, sia rappresentato dall'udienza di comparizione delle parti e di trattazione o dalla prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.
Inquadramento

Il vero punctum dolens di ogni processo è quello di individuare quando maturano le preclusioni avuto riguardo all'attività di allegazione dei fatti (preclusioni assertive) ed a quella, connessa e successiva, di articolazione dei mezzi istruttori volti a dimostrarli (preclusioni asseverative).

Con particolare riferimento alle prime, ci si domanda, in dottrina e in giurisprudenza, se il termine ultimo per introdurre in giudizio fatti nuovi, nell'esercizio dello jus poenitendi sganciato dalla dialettica processuale, sia rappresentato dall'udienza di comparizione delle parti e di trattazione o dalla prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c.

Ferme restando le distinzioni tra fatti principali e fatti secondari e tra diritti autodeterminati e diritti eterodeterminati, occorre analizzare quali ricadute abbia avuto sul sistema la sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015, chiarendo, in particolare, se la stessa abbia introdotto, di fatto, una nuova figura (quella della domanda modificata che, pur riguardando il petitume/o la causa petendi, si sostituisca alla pretesa iniziale) contraddistinta da un regime giuridico particolare.

Il tutto va, poi, calato nel contesto del principio di unitarietà del diritto al risarcimento del danno, che si traduce sul piano processuale in quello dell'infrazionabilità della domanda risarcitoria, prendendo posizione sulle questioni che più di frequente si agitano nelle aule giudiziarie.

Le preclusioni assertive: la posizione della dottrina e della giurisprudenza

Concentrando nel presente contributo l'attenzione sull'attività assertiva (vale a dire, di allegazione dei fatti), il dubbio più ricorrente e difficile da sciogliere attiene all'individuazione del momento processuale in cui matura la relativa preclusione che, secondo alcuni, scatterebbe già con la chiusura della verbalizzazione in udienza ex art. 183, anziché in occasione della prima memoria [cfr. CONSOLO, La trattazione della causa: gli artt. 167, 180, 183 e 184 – e altre disposizioni sul processo di cognizione – così come novellati dalle leggi n. 80 e n. 263 del 2005, in Consolo-Luiso-Menchini-Salvaneschi, Il processo civile di riforma in riforma, Milano, 2006, 51].

Stante il tenore letterale dell'art. 183, comma 6, c.p.c. (“già proposte”), la prima memoria sembrerebbe essere destinata esclusivamente all'eventuale jus poenitendi, che le parti non abbiano ritenuto di esercitare già all'udienza, al fine di beneficiare di uno spatium deliberandi adeguato all'analisi del caso, per modificare o precisare le proprie difese e, soprattutto, le proprie conclusioni, ma senza poter introdurre alcuno dei possibili nova deducibili all'udienza [così, in dottrina, SANTANGELI, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile ordinario alla luce delle recenti riforme, in www.judicium.it, 4].

In quest'ottica, l'eventuale epilogo scritto di cui al comma 6 – e, in particolare, le prime due memorie di trattazione – non consentirebbe l'esercizio dei poteri difensivi giustificati dalla dialettica processuale sopravvenuta in corso di causa e non costituirebbe, per l'effetto, una chance per le parti di sottrarsi alla trattazione orale di cui al comma 5 e di prediligere la trattazione scritta [cfr. BALENA, Le preclusioni nel processo di primo grado, in Giur. it., 2006, 95, il quale esclude che dal raffronto tra i due commi si possa evincere che tutte le attività processuali contemplate nel comma 5 possano essere compiute, indifferentemente, tanto nella stessa udienza quanto negli scritti difensivi previsti dal comma 6].

Secondo questo indirizzo (più rigoroso), non sarebbe convincente l'argomentazione ermeneutica che fa leva sul riferimento, contenuto nel n. 2 del comma 6 relativo alla seconda memoria, al potere di replica alle domande ed eccezioni «nuove», oltre che modificate, per sostenere il riconoscimento implicito del generale potere di proporre nuove domande e nuove eccezioni ancora nella prima memoria [in questo senso, CAPPONI, cit., 881]; il legislatore potrebbe, infatti, alludere [CONSOLO, cit., 49] solo a quelle nuove domande ed eccezioni che (per esigenze di rispetto del principio inviolabile del contraddittorio e della parità delle armi) devono essere eccezionalmente consentite anche in questa prima memoria, come le ulteriori domande ed eccezioni del convenuto che trovino causa nei nova legittimamente formulati dall'attore nel corso della prima udienza [cfr. BALENA, cit., 84. in nota].

In giurisprudenza, questa opinione è stata fatta propria da Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 30745 del 26 novembre 2019, a tenore della quale la memoria di cui all'art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c. consentirebbe all'attore di precisare e modificare le domande "già proposte", ma non di proporre le domande e le eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni formulate dal convenuto, le quali andrebbero, invece, presentate, a pena di decadenza, entro la prima udienza di trattazione.

Il criterio-guida posto alla base di questa impostazione è quello per cui ogni attività deve essere compiuta entro la prima occasione successiva al momento in cui può dirsi insorta l'opportunità o l'esigenza dell'esercizio del potere de quo [CONSOLO, cit., 51]. Sulla base di tale premessa, se è indubbio, perché codificato, che alla prima memoria scritta del comma 6 le parti possano posticipare il potere di precisare e modificare le domande, eccezioni c conclusioni già formulate, per converso, in ordine ai possibili nova, si dovrebbe escludere l'incondizionata facoltà per le parti di posticipare nella prima memoria tutte le attività previste dal comma 5 in sede di trattazione orale. Ciò in quanto, poiché tali nova rappresenterebbero la reazione dell'attore ad attività (domande riconvenzionali, eccezioni in senso stretto e chiamate di terzi) che, a pena di decadenza, devono essere compiute dal convenuto costituendosi in giudizio almeno 20 giorni prima dell'udienza di trattazione, l'attore stesso avrebbe già a sua disposizione uno spetium deliberandi sufficiente (in base al combinato disposto degli artt. 163-bis, comma 1, e 166 c.p.c., di almeno 70 giorni) per operare una discovery completa già all'udienza di prima comparizione delle parti.

Un'altra parte della dottrina afferma, invece, che, nonostante la dizione letterale del n. 1 del comma 6, nella prima memoria potrebbero essere proposte anche domande riconvenzionali ed eccezioni nuove (oltre che le chiamate di terzo), siccome conseguenza delle riconvenzionali o delle eccezioni (o chiamate) del convenuto [BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni (dalla l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), in Giur. it., 2006, 647; CAPPONI, L'art. 183 c.p.c. dopo le ‘correzioni' della L. 28 dicembre 2005, n. 263, in Giur. it., 2006, IV, 880].

Si è affermato, al riguardo, che il raccordo fra i nuovi commi 5 e 6 ed i vecchi commi 4 e 5 dell'art. 183 sarebbe sostanzialmente rimasto inalterato e non sarebbe perciò possibile attribuire all'espressione che fa riferimento alla modificazione delle domande e delle conclusioni di cui all'attuale comma 6 un significato riduttivo rispetto al passato e tale da non ricomprendere la formulazione, nella prima memoria scritta, di reconventio reconventionis, o di nuove eccezioni consequenziali alle ‘difese' del convenuto [BRIGUGLIO, cit., 647].

Tuttavia, è a rilevarsi che la S.C. riteneva che l'art. 183 c.p.c., nel testo di cui alla l. n. 353 del 1990 (vigente fino al 1° marzo 2006), mentre, al comma 4, consentisse all'attore, entro la prima udienza di trattazione, di proporre le eccezioni e le domande che fossero conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni formulate dal convenuto, permettesse alle parti, nel termine di cui al successivo comma 5, solo la precisazione e la modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte, ma non la proposizione di ulteriori e diverse eccezioni e domande (sez. 1, sentenza n. 3806 del 26 febbraio 2016).

E così, ad esempio, ove l'attore avesse voluto eccepire la prescrizione del diritto azionato dal convenuto in riconvenzionale, sarebbe stato tenuto, a pena di decadenza, trattandosi di eccezione non rilevabile d'ufficio, a proporla al più tardi in sede di prima udienza di trattazione, non potendo avvalersi delle memorie da depositare nei termini fissati all'art. 183, comma 5, c.p.c., in quanto finalizzate esclusivamente a consentire alle parti di precisare e modificare le domande e le eccezioni già proposte e di replicare alle domande ed eccezioni formulate tempestivamente, ma non a proporne di ulteriori, non essendo ammissibile estendere il thema decidendum (Sez. U, Sentenza n. 3567 del 14 febbraio 2011; conf. Sez. 3, Sentenza n. 25409 del 12 novembre 2013).

Peraltro, tale approccio non era univoco, atteso che vi era anche chi sosteneva che nel sistema di preclusioni introdotto dalla legge 26 novembre 1990 n. 353 anche per le allegazioni di parte il thema decidendum non fosse più modificabile solo dopo la chiusura della prima udienza di trattazione (art. 183, comma 1, c.p.c.) o la scadenza nel termine concesso dal giudice ai sensi dell'art. 183, comma 5, c.p.c., potendo soltanto, dopo dette scadenze, formulare istanze istruttorie per provare i fatti allegati (Sez. 2, Sentenza n. 9323 del 17 maggio 2004).

L'orientamento che si lascia preferire

Si lascia preferire l'opinione secondo cui, in linea di principio, nella prima memoria non sia innanzitutto possibile per l'attore formulare domande nuove [CONSOLO, cit., 40; in linea di principio, anche BALENA, cit., 76], con la conseguenza che egli dovrebbe proporre a pena di decadenza la reconventio reconventionis nell'udienza a verbale, così come a questa udienza dovrebbero essere proposte quelle altre domande nuove che potessero eccezionalmente ammettersi a fronte di difese o eccezioni del convenuto realmente inattese. Ciò anche in osservanza del generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.

Tuttavia, questo approccio deve essere inteso cum grano salis, soprattutto nel caso in cui l'esigenza della formulazione della reconventio reconventionis emerga solo in udienza, essendosi il convenuto costituito direttamente in quella occasione allegando nuovi fatti impeditivi, modificativi o estintivi, la cui efficacia sia rilevabile anche d'ufficio (e, come tali, deducibili dal convenuto anche dopo la prima barriera preclusiva del nuovo art. 167): si pensi al caso in cui il convenuto si costituisca in udienza e sollevi l'eccezione di nullità del contratto.
Al riguardo, non sembrerebbe conforme al principio della parità delle armi costringere nella stessa udienza l'attore a prendere posizione al riguardo, imponendogli a pena di decadenza di mettere a verbale la formulazione della propria eventuale domanda riconvenzionale di restituzione della controprestazione eseguita [in questi termini SANTANGELI, cit., 4, e BALENA, cit., 96 ss.].
In siffatta evenienza dovrebbe ammettersi eccezionalmente lo slittamento della barriera preclusiva per l'attore per la proposizione della reconventio reconventionis nella memoria n. 1. Pertanto, tutte le volte in cui il convenuto si costituisce in udienza - quando, cioè, egli non propone nuove domande, eccezioni in senso stretto, e non ha interesse alla chiamata in causa di terzi — sarebbe impossibile per l'attore compiere illico ed immediate le attività previste dal comma 5; se, dunque, si ritenesse l'ambito della trattazione scritta più ristretto dell'ambito possibile della trattazione orale, sarebbe giocoforza concedere, all'attore che lo chiedesse, la fissazione di una nuova udienza per poter replicare.

Se è vero che la posticipazione (allorquando ammissibile) di nuove domande nella prima memoria legittima le parti a proporre nuove eccezioni, anche in senso stretto, ciò è comunque ancora consentito nella seconda memoria. In quest'ottica [BRIGUGLIO, cit., 647], il secondo termine di trenta giorni può essere chiesto dalle parti per il deposito di una memoria per replicare (anche attraverso l'allegazione di fatti secondari) alle domande ed eccezioni nuove o modificate dall'altra parte, ovvero per proporre nuove eccezioni in senso stretto (ma non anche, ed è qui pacifico, eventuali domande; v. postea), che siano conseguenza delle nuove domande avversarie (proposte in udienza o, eccezionalmente, nella memoria n. 1), ovvero delle eccezioni nuove o modificate ex adverso nella prima memoria, od anche delle nuove mere difese. Nel complesso, quindi, anche in questi casi di eccezionale slittamento delle barriere preclusive per proporre nuove domande alla prima memoria ex n. 1, il sistema disegnato dall'attuale codice di rito regge discretamente.

È chiaro che il rischio che l'attore alleghi nuovi fatti costitutivi in sede di emendamento delle proprie domande si pone soprattutto con riferimento alle domande autodeterminate.

Si può, invece, discutere se le eccezioni in senso stretto da parte dell'attore, per contrastare le difese svolte dal convenuto già nella comparsa di risposta tempestivamente depositata, debbano necessariamente essere proposte in udienza ovvero ancora nella prima memoria [nel primo senso, rigorosamente, BALENA, cit., 77 e 84; nel senso che anche le eccezioni in senso stretto a parte actoris, allorchè necessitate e conseguenti a domande riconvenzionali o eccezioni tempestivamente proposte dal convenuto in comparsa di risposta (come l'eccezione di prescrizione del controcredito opposto in compensazione) devono essere introdotte a pena di decadenza all'udienza di prima trattazione, CONSOLO, cit., 29,il quale, tuttavia, dopo ampie riflessioni sull'intera nuova disciplina dell'art. 183, tollera la loro eventuale proponibilità nella prima memoria, a differenza delle domande nuove: CONSOLO, cit., 51].

Si potrebbe, invero, accedere ad una interpretazione meno rigida del sistema delle preclusioni a carico dell'attore in punto di eccezioni in senso stretto, se si considera che queste non ampliano comunque il thema decidendum [cfr., invece, CAVALLINI, Il nuovo art. 183 c.p.c. e la riforma della trattazione della causa, in Riv. dir. proc., 2006, 249, che riconosce come proponibili in generale le eccezioni in senso stretto per entrambe le parti fino alla memoria ex n. 2 del comma 6]. Pertanto, con riferimento almeno alle eccezioni in senso stretto proponibili dall'attore, ma allora per coerenza anche di quelle sollevabili dal convenuto (là dove siano conseguenziali ai nova introdotti dall'attore in udienza), si dovrebbe ammetterne la proponibilità fino alla prima memoria.

Avuto riguardo, infine, alle eccezioni in senso lato, se si accede alla più restrittiva interpretazione, andrebbe configurato in capo alla parte l'onere di tempestiva allegazione del fatto, su cui si fonda l'eccezione, sicché la parte medesima sarebbe tenuta a sollevare dette eccezioni a pena di decadenza entro il termine di cui alla prima memoria del comma 6, con l'onere contestuale (o, tutt'al più, posticipato alla seconda memoria) di produrre i documenti all'uopo probanti. Peraltro, recentemente (Cass., sez. un., 4 settembre 2012, n. 14828) le Sezioni Unite hanno affermato e nuovamente precisato (ord. 7 maggio 2013, n. 10531) che la rilevabilità officiosa delle eccezioni in senso lato (anche in appello) presuppone soltanto che le stesse risultino comunque documentate ex actis, non essendo invece necessaria la previa specifica allegazione della parte che di tale eccezione si giova.

La distinzione tra fatti principali e fatti secondari

Nell'ambito dell'esercizio del cd. jus poenitendi (che, cioè, è sganciato dalla dialettica processuale), con riferimento ai cc.dd. fatti principali di causa, la barriera preclusiva per allegare nuovi fatti costitutivi (nei limiti della cd. emendatio libelli) è costituita dalla scadenza del termine per il deposito della prima memoria di cui al comma 6 [in tal senso CARRATTA, La ‘nuova' fase preparatoria del processo di cognizione: corsi e ricorsi di una storia ‘infinita', in Giur.it., 2006, IV, 2236; in senso conforme Cass. 5.3.2009, n. 53561] o, a voler accedere alla tesi più rigorosa, dall'udienza di trattazione, mentre per i nuovi fatti dedotti in via di eccezione, il potere di allegazione della parte subisce la stessa preclusione del potere di eccezione medesimo.

Con riferimento ai fatti cc.dd. secondari, poiché si tratta di fatti rilevanti ai soli fini probatori [Cass., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761, in Foro it., 2002, I, 2017 ss.], la relativa allegazione soggiace semmai al regime delle preclusioni istruttorie, ben potendo essere allegati anche ai fini della capitolazione delle circostanze a prova diretta o a prova contraria di cui alle memorie nn. 2 e 3 del comma 6.

In tema di preclusioni processuali, è, quindi, necessario distinguere tra fatti principali, posti a fondamento della domanda, e fatti secondari, dedotti per dimostrare i primi, l'allegazione dei quali non è soggetta alle preclusioni dettate per i fatti principali, ma trova il suo ultimo termine preclusivo in quello eventualmente concesso ex art. 183, comma 6, n. 2, c.p.c., anche se richiesto ai soli fini dell'indicazione dei mezzi di prova o delle produzioni documentali. In applicazione di tale principio, Sez. 3, Ordinanza n. 8525 del 06/05/2020 ha, ad esempio, cassato la decisione impugnata - riguardante un'azione di responsabilità promossa contro un avvocato che, secondo il suo assistito, aveva determinato, con la sua inerzia, la mancata soddisfazione coattiva del credito azionato - ritenendo che il giudice di merito avesse erroneamente considerato tardivo il riferimento, effettuato per la prima volta nella memoria istruttoria, ad una iscrizione ipotecaria di terzi sui beni del debitore del cliente, avvenuta proprio nel periodo durante il quale il difensore era rimasto inattivo, mentre, invece, si trattava di un'allegazione avente finalità probatoria, volta a dimostrare la riduzione, in quell'arco di tempo, della garanzia patrimoniale del credito poi rimasto insoddisfatto.

Sono comunque deducibili anche una volta maturate le preclusioni al potere di allegazione e prova:

a) i fatti rilevanti sopravvenuti per la decisione della causa, quali i fatti estintivi o modificativi sopravvenuti [cfr. Cass. 24 ottobre 2012, n. 18195, in materia di transazione novativa; Cass. 20 settembre 2012, n. 15931; Cass. 4 settembre 2012, n. 14803, in materia di danni sopravvenuti; Cass. 4 novembre 2004, n. 21100];
b) i fatti che acquistino rilevanza per effetto di una sopravvenuta disciplina normativa [Cass. 6 ottobre 1986, n. 7252, in Arch. loc. e cond., 1987, 73].

Dalle considerazioni che precedono si evince già che la cristallizzazione definitiva del thema decidendum si realizza non con gli atti introduttivi del giudizio, ma nel corso dello stesso, pur nel rispetto di determinati termini decadenziali.

La distinzione tra modificazione e precisazione della domanda

Resta da chiarire cosa significhi «precisare» e «modificare» domande, eccezioni e conclusioni.

Si ha precisazione allorché la parte esplicita quanto già contenuto nelle sue precedenti difese (essendo in pratica confinata alle variazioni quantitative del petitum). La precisazione delle domande e delle eccezioni consiste essenzialmente nell'allegazione dei cc.dd. fatti secondari. Ad esempio, richiesto il risarcimento dei danni derivati da un incidente stradale, rientra nel concetto di precisazione, vuoi della domanda vuoi delle difese del convenuto, ogni ulteriore introduzione in giudizio delle modalità di svolgimento dell'incidente stesso. Ancora: chiesto l'annullamento del contratto per dolo, costituisce precisazione ogni elemento relativo all'artificio o raggiro perpetrati. Infine: fatta valere in giudizio l'usucapione di un diritto, si ha precisazione quando si allegano fatti storici relativi alle modalità del possesso.

Si ha, al contrario, modificazione della domanda quando la parte allega in giudizio nuovi fatti storici principali, cioè nuovi e diversi elementi (costitutivi) della fattispecie del diritto fatto valere. Infatti delle due l'una: o la parte fa riferimento a norme diverse senza alterare il quadro dei fatti storici allegati, e allora ciò costituisce solo un problema di qualificazione giuridica dei fatti stessi, e fuoriesce dal concetto di modificazione della domanda per ricadere nello iura novit curia; oppure il riferimento a norme diverse costituisce implicita allegazione in giudizio dei nuovi fatti, da quelle norme previsti, perché la fattispecie astratta di queste altre norme diverge dai fatti allegati in precedenza. È chiaro, ad es., che, se una parte, dopo aver chiesto il risarcimento danni per un incidente stradale ad un soggetto, qualificato come conducente dell'autovettura, in un secondo momento invoca l'art. 2054, comma 3, c.c., implicitamente deduce in giudizio il diverso fatto storico «proprietà» dell'autoveicolo danneggiante.

È noto che la distinzione fra mutatio ed emendatio libelli è fondamentale, sia in ordine alla tecnica processuale (la domanda nuova, salve le deroghe autorizzate dall'art. 183, comma 5, c.p.c.,è inammissibile nel corso del processo di primo grado e in appello; la modificazione, invece, può essere inserita nel processo con la prima memoria concessa dall'art. 183, comma 6, c.p.c. e in grado d'appello; sulla questione v. MERLIN, Sulla "morfologia" della modifica della domanda in appello, in Riv. dir. proc., 2020, 172 ss.) che alla tutela giurisdizionale, identificando la causa petendi i limiti oggettivi del giudicato (se un fatto costituisce soltanto una modificazione della domanda, non potrà essere fatto valere in un nuovo giudizio).

All'indomani della sentenza delle Sezioni Unite n. 12310 del 2015, il potere di modificare le domande già proposte esercitabile fino alla prima memoria di trattazione scritta (art 183, comma 6, n. 1, c.p.c.) non può essere confinato alla possibilità di introdurre nuovi fatti ininfluenti (oltre che sui soggetti e sul petitum, anche) sulla causa petendi, ma deve essere considerato in relazione alla (unica) vicenda sostanziale ed esistenziale dedotta in giudizio: perciò anche nelle azioni relative a diritti eterodeterminati non si può escludere l'inserimento di nuovi fatti costitutivi. In particolare, La modificazione della domanda ammessa ex art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa ("petitum" e "causa petendi"), sempre che la domanda così modificata risulti comunque connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio (oltre che, ovviamente, riguardi gli stessi soggetti) e senza che, perciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali. Tutto ciò, evidentemente, comporta una significativa svalutazione della rilevanza della distinzione fra azioni (e diritti) autodeterminati o eterodeterminati.

Trattasi di deduzioni che in passato (e tuttora) avrebbero integrato gli estremi di una mutatio libelli (modificando il petitumo la causa petendi, o entrambi, e, dunque, potendo essere fondate su fatti costitutivi diversi da quelli originariamente allegati), ma che, sul piano processuale, soggiacciono al regime giuridico che in passato era applicato alle ipotesi di emendatio, pur consentendone la proponibilità, oltre che nella fase orale dell'udienza di trattazione, con la prima memoria scritta ex art. 183, comma 6, c.p.c.

A ben vedere, il problema fondamentale è se le domande inserite dall'attore nella prima memoria di trattazione scritta siano comunque domande nuove o soltanto domande originarie modificate. La risposta è decisiva sul piano non solo della tutela giurisdizionale (se domanda nuova, qualora non proposta, resterà fuori dei limiti oggettivi del giudicato e perciò della preclusione del deducibile; laddove la domanda originaria modificata, siccome deducibile, sarebbe, se non proposta, coperta dal giudicato), ma anche della tecnica processuale (se domanda modificata, potrà essere articolata direttamente in appello, non cadendo nel divieto di cui all'art. 345, comma 1, c.p.c.; cfr. OLIVIERI, la mutatio e l'emendatio libelli in tema di responsabilità, Relazione al corso CSM 1 marzo 2021).

Secondo le sezioni unite, la « ... differenza fra le domande "nuove" implicitamente vietate ... e le domande "modificate" espressamente ammesse ... sta ... nel fatto che le domande modificate non possono essere considerate "nuove" nel senso di "ulteriori" o "aggiuntive", trattandosi pur sempre delle stesse domande iniziali modificate – eventualmente anche in alcuni elementi fondamentali – o, se si vuole, di domande diverse che però non si aggiungono a quelle iniziali ma le sostituiscono e si pongono pertanto, rispetto a queste, in rapporto di alternatività».

Tuttavia, nei giudizi a carattere risarcitorio, di regola, le pretese formulate in corso di causa non si sostituiscono a quelle originarie, ma si aggiungono alle stesse.

Ma allora la pronuncia a sezioni unite non ci torna utile, se non nel senso di identificare in astratto tre possibili fattispecie:

1) una modificazione (e, a maggior ragione, una precisazione) della domanda che non incida in alcun modo sul petitume sulla causa petendi originari: ammissibile senz'altro anche con la memoria di cui all'art. 183, comma 6, n. 1), c.p.c.;

2) una domanda modificata (rispetto a quella originaria) che, pur riguardando il petitume/o la causa petendi, si sostituisca alla pretesa iniziale: ammissibile anch'essa come sub 1);

3) una domanda modificata che, concernendo il petitum e/o la causa petendi, si aggiunga a quella iniziale: inammissibile nel corso del giudizio e, a maggior ragione, in appello.

L'unitarietà del diritto al risarcimento del danno: il principio dell'infrazionabilità della domanda risarcitoria

Non tutti i principi in precedenza esposti sono applicabili tout court, quanto ai diritti eterodeterminati, al caso in cui, nel corso di un giudizio di tipo aquiliano, vengano formulate ulteriori (rispetto a quelle originariamente proposte) pretese risarcitorie.

L'unitarietà del diritto al risarcimento del danno, che si traduce sul piano processuale nel principio dell'infrazionabilità della domanda risarcitoria, da tempo è stata affermata dalla Suprema Corte (cfr., fra le tante, Cass. n. 15523/2019, Cass. n. 2038/2019, Cass. n. 11789/2017, Cass. n. 22514/2014), che ne ha tratto quale conseguenza l'inammissibilità dell'azione, successivamente proposta (id est, in un separato autonomo giudizio)in relazione al medesimo fatto illecito, nei casi in cui il diritto al risarcimento era già stato fatto valere con una prima iniziativa assunta in sede giudiziale (Cass. n. 17019/2018; Cass. n. 22503/2016).

Sempre sul principio dell'unitarietà riposa, poi, l'orientamento secondo cui, nell'ambito di un giudizio risarcitorio, la domanda, in assenza di una specifica diversa manifestazione di volontà dell'attore, comprende tutti i possibili pregiudizi causalmente riconducibili all'inadempimento o al fatto illecito, con la conseguenza che, da un lato, alle indicazioni delle voci contenute nell'atto introduttivo si deve riconoscere un valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro (Cass. n. 15523/2019); dall'altro, la domanda stessa si intende estesa ai pregiudizi che si produrranno nel corso del giudizio (Cass. n. 11789/2017) e, pertanto, è consentita a chi agisce non solo la modifica quantitativa dell'originaria domanda (cioè la modificazione quantitativa del risarcimento del danno in origine richiesto, intesa come modifica della valutazione economica del danno costituito dalla perdita o dalla diminuzione di valore di una cosa determinata),ma anche l'allegazione di un pregiudizio diverso ed ulteriore rispetto a quello inizialmente dedotto, se manifestatosi a giudizio già instaurato e derivato dal medesimo fatto illecito (cfr. Cass. n. 2038/2019, per cui deve ritenersi ammessa, finché non si precisano le conclusioni, anche la richiesta dei danni, provocati dallo stesso fatto che ha dato origine alla causa, che si manifestano solo nel corso del giudizio; v. altresì Cass. n. 9453/2013 e Cass. n. 16819/2003). In particolare, l'unitarietà del diritto al risarcimento ed il suo riflesso processuale sull'ordinaria infrazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si deve riferire a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta.

In tal modo il principio dell'unitarietà della domanda, del diritto e del processo risarcitorio è stato armonizzato con quello della necessaria integralità del risarcimento, assicurata dalla possibilità concessa al danneggiato di far valere anche i danni non ancora apprezzabili al momento dell'instaurazione del giudizio e verificatisi in corso di causa.

Deve altresì tenersi presente l'indirizzo secondo cui la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci, sicché una eventuale richiesta volta a conseguire il ristoro di altre non potrebbe considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile (Sez. 3, Sentenza n. 7193 del 10 aprile 2015).

Il bilanciamento così realizzato produce, poi, effetti sulla delimitazione dell'efficacia oggettiva del giudicato, perché, una volta affermata l'unitarietà del danno e ritenuta ammissibile la deduzione anche dei pregiudizi verificatisi in pendenza del giudizio, questi ultimi, se non espressamente dedotti, rilevano ai fini del deducibile, e ciò impedisce che gli stessi possano essere fatti valere in un successivo giudizio risarcitorio, nel quale si discuta degli effetti della medesima condotta inadempiente o illecita, esauritasi al momento dell'instaurazione della prima controversia (cfr. Sez. L, Sentenza n. 26078 del 12 dicembre 2007, secondo cui il giudicato sulla domanda risarcitoria si forma, in siffatta evenienza, anche in difetto di riserva espressa di diversa azione sul punto). Pertanto, non è ammissibile che taluno agisca in giudizio per il risarcimento del danno esponendo in proposito determinate voci e, poi, definito il giudizio con il giudicato, chieda ex novo il risarcimento di altri danni derivanti dallo stesso fatto, ma in relazione a nuove voci, diverse da quelle prima esposte (il principio è stato enunciato da Sez. 3, Sentenza n. 17873 del 22 agosto 2007 in una fattispecie in cui la S.C., avendo l'attore con la domanda iniziale richiesto il risarcimento di tutti i danni fisici conseguenti al sinistro stradale in cui era rimasto coinvolto, ha affermato che tale domanda si riferiva non solo ai danni già manifestatisi, ma anche a quelli che si sarebbero potuti manifestare nel corso del giudizio, quali il danno ischemico comparso nel corso del giudizio di primo grado).

L'unitarietà del danno e l'infrazionabilità della domanda risarcitoria, declinate nei termini sopra esposti, comportano, quindi, che una nuova domanda risarcitoria sarà proponibile nei soli casi in cui si sia protratta la condotta illecita ed il danno sia riferibile ad un'azione sopravvenuta, oppure qualora si manifesti a giudizio già concluso non un mero sviluppo o un aggravamento del danno già insorto, bensì una lesione nuova ed autonoma rispetto a quella esteriorizzatasi con l'esaurimento dell'azione del responsabile (in questi casi, infatti, secondo Cass. sez. un. n. 580/2008 e Cass. sez. un. n. 5023/2010, il diritto al risarcimento acquista una sua autonomia rispetto a quello relativo alle conseguenze pregiudizievoli già verificatesi).

Non si condivide l'indirizzo secondo cui i detti princìpi generali non escluderebbero (in virtù del principio dispositivo della domanda di cui agli artt. 99 e 112 c.p.c.) la proponibilità di una successiva domanda di liquidazione delle voci di danno non comprese nell'originaria domanda, qualora si possa ragionevolmente ricavare la volontà attorea di escludere dal petitum le voci non menzionate (Sez. 3, Sentenza n. 17879 del 31/08/2011; conf. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 15523 del 07/06/2019; per Sez. 3, Sentenza n. 15823 del 28/07/2005, la limitazione dell'iniziale domanda soltanto ad alcune voci, risolvendosi sostanzialmente nell'abbandono del relativo diritto, potrebbe essere desunta soltanto da una volontà inequivoca della parte). A voler, invece, aderire a tale indirizzo, il principio dell'unitarietà del diritto al risarcimento non potrebbe trovare applicazione qualora l'attore ab initio o durante il corso del giudizio avesse esplicitamente escluso il riferimento della domanda a tutte le possibili voci di danno, dovendosi coordinare il principio di infrazionabilità della richiesta di risarcimento con il principio della domanda (Sez. 3, Sentenza n. 22987 del 07/12/2004). Ne consegue che, a titolo esemplificativo, qualora nell'atto di citazione fossero indicate specifiche voci di danno e tra le stesse non venisse indicata quella relativa ai danni materiali, l'eventuale domanda proposta in appello sarebbe inammissibile per novità, mentre dovrebbe intendersi abbandonata se precedentemente formulata e non riproposta nella precisazione delle conclusioni.

In definitiva, in tema di risarcimento dei danni, al di là delle varie voci dell'unitario pregiudizio il cui ristoro sia stato ab origine invocato in termini omnicomprensivi, il principio generale della immodificabilità della domanda originariamente proposta è senz'altro derogabile in tre ipotesi: nel caso di riduzione della domanda (riduzione della somma originariamente richiesta), nel caso di danni incrementali (quando il danno originariamente dedotto in giudizio si sia ulteriormente incrementato nel corso dello stesso, ferma l'identità del fatto generatore) e nel caso di fatti sopravvenuti, quando l'attore deduca che, dopo il maturare delle preclusioni, si siano verificati ulteriori danni, anche di natura diversa da quelli descritti con l'atto introduttivo, che dunque gli fu impossibile prospettare ab initio (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 25631 del 15 ottobre 2018). La riduzione della domanda, la domanda di danni incrementali e i fatti sopravvenuti sono, dunque, le tre ipotesi in cui è sicuramente consentito all'attore domandare il risarcimento di danni diversi, per quantità o (nel terzo caso) anche per qualità rispetto a quelli prospettati con la citazione od il ricorso introduttivi del giudizio. Ma ciò non esclude, come si è già visto e come si vedrà nel prosieguo, che la originaria domanda possa essere modificata, nel corso del giudizio, anche in altre evenienze.

La natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale: domanda nuova o mera emendatio libelli?

Nel processo civile di cognizione, ciò che rende ammissibile l'introduzione in giudizio da parte dell'attore di un diritto diverso da quello originariamente fatto valere oltre la barriera preclusiva segnata dall'udienza ex art. 183 c.p.c. è il carattere della teleologica "complanarità", dovendo pertanto tale diritto attenere alla medesima vicenda sostanziale già dedotta, correre tra le stesse parti, tendere alla realizzazione (almeno in parte) dell'utilità finale già avuta di mira con l'originaria domanda (salva la differenza tecnica di petitum mediato, inteso come bene o utilità della vita perseguito) e rivelarsi di conseguenza incompatibile con il diritto per primo azionato (Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 18546 del 7 settembre 2020).

Come è noto, infatti, la modificazione della domanda, consentita dall'art. 183, comma 6, c.p.c., può riguardare uno o entrambi gli elementi oggettivi della stessa (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio e senza che, per ciò solo, si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte, ovvero l'allungamento dei tempi processuali [sez. 3, ordinanza n. 4322 del 14 febbraio 2019; conf. sez. 3, ordinanza n. 31078 del 28 novembre 2019 e sez. 3, ordinanza n. 4031 del 16 febbraio 2021 (nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di appello che, in un giudizio intentato in origine nei confronti di una struttura sanitaria per ottenere il risarcimento dei danni subiti per avere contratto l'epatite C in conseguenza di una trasfusione di sangue, aveva ritenuto inammissibile la successiva domanda, avanzata nella memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., volta ad accertare che l'attore era stato contagiato dal virus non con tale trasfusione, ma per effetto di una "generica infezione nosocomiale nel periodo di degenza")].

Tuttavia, questi principi generali vanno adattati alla materia risarcitoria.

Invero, la natura unitaria ed omnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle sezioni unite della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall'evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità, procedendo ad un accertamento concreto e non astratto, dando ingresso a tutti i mezzi di prova normativamente previsti, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni (cfr., di recente, sez. 3, sentenza n. 901 del 17 gennaio 2018).

La categoria generale del danno non patrimoniale - che attiene alla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da valore di scambio - presenta natura composita, articolandosi in una serie di aspetti (o voci) aventi funzione meramente descrittiva, quali il danno morale (identificabile nel patema d'animo o sofferenza interiore subìti dalla vittima dell'illecito, ovvero nella lesione arrecata alla dignità o integrità morale, quale massima espressione della dignità umana), quello biologico (inteso come lesione del bene salute) e quello esistenziale (costituito dallo sconvolgimento delle abitudini di vita del soggetto danneggiato), dei quali - ove essi ricorrano cumulativamente - occorre tenere conto in sede di liquidazione del danno, in ossequio al principio dell'integralità del risarcimento, senza che a ciò osti il carattere unitario della liquidazione, da ritenere violato solo quando lo stesso aspetto (o voce) venga computato due (o più) volte sulla base di diverse, meramente formali, denominazioni (sez. 3, sentenza n. 1361 del 23 gennaio 2014).

La persona umana ed i suoi diritti fondamentali costituiscono, infatti, un unicum inscindibile. Pertanto, quando tali diritti siano lesi ed abbiano provocato un pregiudizio non patrimoniale, uno ed unitario è il danno ed uno e unitario deve essere il risarcimento, ferma restando la necessità che il giudice di merito, nella liquidazione di esso, tenga conto di tutte le concrete conseguenze dannose del fatto illecito (principio affermato sin da sez. 3, sentenza n. 25157 del 14 ottobre 2008).

E così, ad esempio, la circostanza che in un giudizio per il risarcimento dei danni alla persona, conseguenti ad un sinistro stradale, venga formulata soltanto in sede di precisazione delle conclusioni la richiesta di liquidazione anche del "danno esistenziale" (che non costituirebbe autonoma categoria di danno, ma sintagma ampiamente invalso nella prassi giudiziaria) non osterebbe alla possibilità dell'accoglimento di una domanda volta al ristoro di un pregiudizio ulteriore rispetto a quello biologico strettamente inteso, purché l'attore avesse richiesto tempestivamente il risarcimento di tutti i danni derivanti dal sinistro, e quindi anche del danno non patrimoniale (Sez. 3, Sentenza n. 23147 del 11 ottobre 2013).

Va, peraltro, dato atto del consolidarsi di un più recente orientamento, in base al quale il danno biologico, quello morale e quello dinamico-relazionale costituiscono pregiudizi non patrimoniali ontologicamente diversi e tutti risarcibili; né tale conclusione contrasterebbe col principio di unitarietà del danno non patrimoniale, sancito dalla sentenza n. 26972 del 2008 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, giacché quel principio impone una liquidazione unitaria del danno, ma non una considerazione atomistica dei suoi effetti. Nel solco di questa impostazione, Sez. 3, Sentenza n. 20292 del 20 novembre 2012 ha, ad esempio, confermato la sentenza di merito la quale, in un caso di danno da uccisione del prossimo congiunto, aveva liquidato ai congiunti due diversi danni, definiti l'uno morale e l'altro esistenziale (conf. Sez. L, Sentenza n. 9770 del 23 aprile 2013).

Ma allora, a ben vedere, la riconosciuta autonomia, anche sul piano ontologico, di “voci” di danno quale la sofferenza morale non inciderebbe sul thema decidendum, bensì avrebbe ricadute solo in sede di liquidazione del pregiudizio complessivo da riconoscere.

In quest'ottica, il danno morale, pur costituendo un pregiudizio non patrimoniale al pari di quello biologico, non sarebbe ricompreso in quest'ultimo e andrebbe liquidato autonomamente, non solo in forza di quanto espressamente stabilito - sul piano normativo - dall'art. 5, lettera c), del d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37, ma soprattutto in ragione della differenza ontologica esistente tra di essi, corrispondendo, infatti, tali danni a due momenti essenziali della sofferenza dell'individuo, il dolore interiore e la significativa alterazione della vita quotidiana (Sez. 3, Sentenza n. 22585 del 3 ottobre 2013; conf. Sez. L, Sentenza n. 21917 del 16 ottobre 2014).

Sulla scia di questa impostazione, si è detto chela liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva, e cioè tale da coprire l'intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del "danno biologico" e del "danno morale" continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile (Sez. L, Sentenza n. 687 del 15 gennaio 2014).
Nel caso di lesioni di non lieve entità e, dunque, al di fuori dell'ambito applicativo delle lesioni cc.dd. micropermanenti di cui all'art. 139 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209, il danno morale costituirebbe una voce di pregiudizio non patrimoniale, ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali presi in considerazione dall'art. 138 del menzionato d.lgs. n. 209 del 2005, con la conseguenza che andrebbe risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria (Sez. 3, Sentenza n. 11851 del 9 giugno 2015; conf. Sez. L, Sentenza n. 23793 del 20 novembre 2015 e Sez. 3, Sentenza n. 7766 del 20 aprile 2016).

Osservazioni conclusive

Come è noto, nel 2008 le Sezioni Unite – mettendo ordine fra danno biologico, danno esistenziale, danno morale – ritennero che nel danno non patrimoniale andavano compresi e liquidati il danno biologico, quello esistenziale, parentale e derivante da sofferenze fisiche o morali, da considerare componenti di un pregiudizio unico (Cass., sez. un., 11 novembre 2008, nn. 26972, 26073, 26974, 26975).

L'unicità del danno non patrimoniale comporta che l'inserimento di fatti (costitutivi) in grado di dimostrare una sua componente ulteriore rispetto a quelle reclamate nella domanda rientra nelle modificazioni, ammesse in primo grado fino alla prima memoria istruttoria, sostituendo a quella originaria, una domanda più ampia, complanare.

L'unitarietà del danno non patrimoniale esclude che l'inserimento del nuovo fatto costitutivo introduca una nuova domanda con oggetto un nuovo rapporto giuridico (o un diverso petitum). Pertanto, restando nell'ambito delle modificazioni, siffatto inserimento potrà essere operato anche in appello.

La semplice richiesta di aggiungere alla liquidazione una delle componenti del danno non patrimoniale fondata su fatti tempestivamente allegati va considerata mera precisazione di domande già proposte. Così come resta nell'ambito della precisazione la richiesta di riconoscere il cd. danno differenziale e, in generale, quella di applicare nuovi criteri di valutazione (ad esempio, quelli somministrati dalla legge n. 24 del 2017) al danno lamentato (Cass. 11 novembre 2019, n. 2899, ha affermato che i criteri di valutazione del danno non individuano un nuovo elemento costitutivo della fattispecie normativa della responsabilità civile).

Anche i fatti idonei a giustificare conseguenze dannose anomale e peculiari, tali da consentire, sul piano della personalizzazione, una liquidazione superiore alla misura tabellare, vanno qualificati fatti costitutivi (cfr. Cass. 11 novembre 2019, n. 28988). Si tratta, però, di fatti che appartengono alla medesima vicenda sostanziale e sostituiscono alla domanda risarcitoria iniziale una domanda più ampia di identico contenuto: essi perciò vanno fatti rientrare nei fatti modificativi deducibili nella prima memoria istruttoria. Questi fatti – non ampliando i limiti oggettivi del giudicato (non mutano causa petendi, né petitum immediato) – devono essere inclusi nella categoria (non delle nuove domande ammissibili, ma in quella) delle modificazioni, con conseguente deducibilità anche in appello. È il caso, ad esempio, della deduzione postuma del pregiudizio subito, in conseguenza dell'illecito, sotto forma di rinuncia agli hobbies in precedenza coltivati.

Un altro aspetto da considerare ai fini delle possibilità di correzione in corso di giudizio è quello dei rapporti fra risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, dovendoci chiedere se e fino a quando sia possibile aggiungere alla domanda originaria limitata al risarcimento del danno patrimoniale anche quella del danno non patrimoniale (e viceversa).

L'unitarietà del fatto illecito produttivo di danni (e del diritto al risarcimento) – che obbliga a qualificare abusivo frazionamento della domanda una richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale separata da quella concernente il danno patrimoniale (Cass. 15 ottobre 2019, n. 26089) – agevola la soluzione del quesito. La deduzione del fatto costitutivo del danno non patrimoniale non darà vita a una nuova domanda (né altererà i limiti oggettivi del giudicato), sicché potrà essere consentito lo ius poenitendi, non solo in primo grado, ma anche in appello: sostanzialmente è un aspetto diverso della questione prima affrontata.

In quest'ottica, deve, ad esempio, reputarsi ammissibile, nel contesto di un giudizio finalizzato a conseguire il risarcimento dei danni non patrimoniali, la proposizione, con la memoria di cui all'art. 183, comma 6, n. 1), c.p.c., di una richiesta di ristoro anche dei danni patrimoniali (recte, delle spese) connessi al trasporto dell'autovettura con il carroattrezzi.

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