Utenti della strada vs animali selvatici: attualità e prospettive di una storia infinita

15 Febbraio 2022

Lo studio si prefigge di fare il punto sullo stato della giurisprudenza in materia di responsabilità della p.a. per i danni causati dagli animali selvatici agli utenti delle strade, con riferimento ai diversi criteri di imputazione di cui agli artt. 2043, 2051 e 2052 c.c...
introduzione

Lo studio si prefigge di fare il punto sullo stato della giurisprudenza in materia di responsabilità della p.a. per i danni causati dagli animali selvatici agli utenti delle strade, con riferimento ai diversi criteri di imputazione di cui agli artt. 2043, 2051 e 2052 c.c.; al tempo stesso di analizzare criticamente alcuni aspetti del panorama giurisprudenziale, delineando le prospettive di una sua possibile evoluzione.

La trattazione è stata suddivisa in due parti: la prima riguardante la responsabilità dell'ente proprietario o gestore della fauna selvatica (ex artt. 2052 e 2043 c.c.), la seconda concernente quella dell'ente proprietario o gestore della strada (ex artt. 2051 e 2043 c.c.).

Fauna selvatica e circolazione stradale nella giurisprudenza

Quella fra fauna selvatica e circolazione stradale sembra essere una convivenza sempre più difficile. La costante proliferazione di alcune specie omeoterme, specie gli ungulati (cervidi e cinghiali), ha dato luogo ad un crescente numero di incidenti stradali e ad un progressivo incremento del contenzioso.

Salvo qualche rara sentenza di merito, la risposta della giurisprudenza è stata per decenni ferma nel negare l'applicabilità del disposto dell'art. 2052 c.c. alle pubbliche amministrazioni deputate alla tutela e gestione della fauna selvatica, riconducendo la fattispecie al paradigma dell'art. 2043 c.c. ed assoggettandola ad un regime probatorio tale da rasentare il limite della probatio diabolica (Cass. civ. nn. 4004/2020, 5722/2019).

Nel contempo, i danneggiati hanno privilegiato le azioni dirette a far valere la responsabilità degli enti gestori del patrimonio faunistico, relegando invece ad un ruolo residuale quelle che avrebbero potuto proporre contro gli enti proprietari o gestori delle strade, sia quali loro custodi (ex art. 2051 c.c.), sia per responsabilità aquiliana (ex art. 2043 c.c.).

Anche in questo caso, tuttavia, la lettura giurisprudenziale del quadro normativo vigente in tema di circolazione stradale è stata per lungo tempo estremamente restrittiva (Cass. civ. n. 16642/2016).

Era prevedibile che questa situazione non potesse perdurare.

Per un verso perché la proprietà pubblica della fauna selvatica sancita dapprima dalla l. n. 968/1977 e poi dalla l. n. 157/1992, con il conseguente superamento della sua secolare qualificazione giuridica come res nullius, suscettibile di acquisto per occupazione (come ribadito dall'art. 923 del codice civile del 1942), era stata dichiaratamente disposta per soddisfare finalità di interesse collettivo difficilmente conciliabili (sul piano razionale, prima ancora che giuridico) con un ordito giurisprudenziale che finiva, sul piano pratico, per porre quasi sempre a carico dei singoli consociati i costi dei danni causati dalla tutela faunistica così normativamente istituita.

Per un altro verso in quanto l'asserita irresponsabilità degli enti proprietari o gestori delle strade si fondava su una lettura superficiale delle norme dettate dal Codice della strada, quanto alla sicurezza della circolazione, e ad una contestuale sottovalutazione della loro responsabilità custodiale (e, dunque, oggettiva) correlata al diritto degli utenti ad un normale e sicuro uso delle carreggiate stradali.

Queste criticità hanno determinato, in epoca recente, un deciso cambiamento di rotta nella giurisprudenza di legittimità che merita di esser ben compreso nel suo significato e, per certi aspetti, rimeditato e portato a compimento.

La svolta della Cassazione in tema di responsabilità della p.a. per danno cagionato da animali selvatici (art. 2052 c.c.)

La sentenza n. 7969/2020 della Cassazione ha rappresentato il più importante (e pubblicizzato) punto di svolta di questo nuovo indirizzo.

La Corte era investita di una controversia relativa all'individuazione dell'ente “passivamente legittimato, sul piano sostanziale, a rispondere dei danni riportati dall'autovettura dell'attore… a seguito della collisione con un cinghiale avvenuta su una strada pubblica”.

La Regione ricorrente non metteva in discussione la responsabilità attribuitale (ex art. 2043 c.c.) dal Giudice del merito, bensì la propria titolarità del rapporto risarcitorio.

La Corte ha osservato che il thema decidendum era intimamente collegato a quello del “fondamento giuridico della responsabilità stessa per i danni causati da animali appartenenti a specie protette di proprietà pubblica” e presupponeva quindi “un esame analitico della relativa problematica” ovverosia dell'applicabilità alla fattispecie dell'art. 2052 c.c., sino ad allora categoricamente esclusa dalla propria consolidata giurisprudenza.

E si è orientata per una decisa inversione di rotta sulla scorta di una pluralità di argomenti interpretativi.

Anzitutto di ordine letterale, in quanto l'art. 2052 c.c.non risulta… espressamente limitato agli animali domestici, ma fa riferimento esclusivamente a quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell'uomo”.

Ed, inoltre, “prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell'animale da parte dell'uomo” ed, anzi, stabilisce la responsabilità del proprietario o dell'utente, sia che l'animale “fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito”.

Dovendosi, quindi, concludere che la norma prevede “un criterio di imputazione della responsabilità fondato (non sulla "custodia", ma) sulla stessa proprietà dell'animale e/o comunque sulla sua utilizzazione da parte dell'uomo per trarne utilità (anche non patrimoniali)”.

Essa, invero, prevede un “criterio oggettivo di allocazione della responsabilità per cui dei danni causati dall'animale deve rispondere il soggetto che dall'animale trae un beneficio”.

Ne consegue che l'acquisizione alla mano pubblica della proprietà della fauna selvatica (disposta da ultimo dalla l. n. 157/1992) per la soddisfazione di un'utilità di interesse collettivo (e cioè per rispondere alle “esigenze ecologiche, scientifiche, turistiche e culturali” indicate dall'art. 1 di quest'ultima) implica un suo “uso” tale da giustificare l'applicazione del criterio di imputazione dettato dall'art. 2052 c.c. allo Stato e, per esso, alle Regioni (cui gli artt. 1 e 9 della stessa l. n. 157/1992 hanno affidato le relative competenze gestorie d'ordine normativo ed amministrativo).

Secondo la Corte, “l'esenzione degli enti pubblici dal regime di responsabilità oggettiva di cui all'art. 2052 c.c.” implicava un ingiustificato “privilegio”, che era invece necessario superare, così come da tempo era avvenuto per il disposto dell'art. 2051 c.c. con riguardo ai danni causati dai beni demaniali e, specialmente, dalle strade.

Di qui il nuovo principio di diritto affermato dalla decisione, per cui “ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della legge n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione… la Regione potrà eventualmente rivalersi (anche chiamandoli in causa nel giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli altri enti ai quali sarebbe spettato di porre in essere in concreto le misure che avrebbero dovuto impedire il danno, in quanto a tanto delegati, ovvero trattandosi di competenze di loro diretta titolarità”.

Il revirement della Cassazione, assieme a molte adesioni, ha raccolto qualche dissenso e, al tempo stesso, ha evidenziato più di qualche criticità con riguardo ad alcuni corollari che la Corte ha ritenuto di puntualizzare.

Danni da fauna selvatica e fondamento della responsabilità ex art. 2052 c.c.

Le critiche che parte della dottrina ha rivolto al nuovo orientamento sono ispirate dalla fedeltà all'interpretazione tradizionale dell'art. 2052 c.c. che fondava la responsabilità per danni cagionati da animali sulla violazione di un dovere di custodia del proprietario o dell'utente.

Tuttavia, questa interpretazione, più che di una rigorosa lettura del diritto positivo, è il frutto della perdurante fascinazione esercitata sulla dottrina italiana dalla rilettura in senso soggettivistico delle fonti romane propria della trattazione giusnaturalistica del Domat (Le leggi civili disposte nel loro naturale ordine, traduzione italiana, Pavia, 1825, II, tit. VII, 286).

Infatti, nell'enunciato dell'art. 2052 c.c. non v'è alcun riferimento ad un presunto dovere custodiale del detentore dell'animale da cui possa inferirsi che la responsabilità stabilita dalla norma si limiti agli animali domestici, sui quali soli questi può esercitare un'effettiva custodia, e cioè un potere di fatto tale da consentirne il controllo ed il governo, sì da poter affermare che “la custodia è concetto di per sé incompatibile con la fauna selvatica, che, per definizione, vive allo stato brado, senza essere soggetta… alla sorveglianza del padrone” (Scalera, Una rondine non fa primavera: il nuovo statuto della responsabilità per danni cagionati da fauna selvatica, Corr. giur. 2020, 1021).

In realtà, l'art. 2052 c.c. imputa sic et simpliciter la responsabilità dei danni causati dall'animale al proprietario ed all'utente, a differenza di quel che prevede l'art. 2051 c.c. per i danni causati dalla cosa, imputandoli a colui che l'ha in custodia (a prescindere dal fatto che ne sia proprietario e dall'uso che eventualmente ne faccia).

Anzi, che la custodia dell'animale non sia il fondamento della responsabilità in esame lo dimostra la norma stessa, quando stabilisce che il proprietario o l'utente debbano rispondere dei danni di cui si discute pure se l'animale fosse “smarrito o fuggito”, e cioè quand'anche ne abbia concretamente perduto la custodia.

Tanto meno nell'enunciato dell'art. 2052 c.c. si rinviene un qualche riferimento addirittura ad un “dovere di custodia” dell'animale, sì da poterne derivare la responsabilità del proprietario o dell'utente per la violazione di un simile dovere, come pur sostiene una parte della dottrina (Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità oggettive, in Commentario Schlesingher, Milano, 2009, 355), facendo leva sulla teoria della “esposizione al pericolo” quale fondamento comune delle diverse fattispecie codicistiche di responsabilità oggettiva (ivi, 68).

Infatti, il testo normativo non menziona un simile dovere custodiale, bensì l'utilizzazione dell'animale per un interesse proprio, quale presupposto dell'imputazione della responsabilità per i danni che esso abbia a causare, poiché questa viene attribuita al suo “proprietario” o a “chi se ne serve per il tempo in cui lo ha in uso”.

Perciò nell'art. 2052 c.c. si può semmai ravvisare un'applicazione del principio cuius commoda, ejus incommoda (Paulus, l. 10, De regulis juris 50, 17), come da tempo afferma la dottrina maggioritaria (Carusi, Forme di responsabilità e di danno, in Tratt. Lipari e Rescigno, Milano, 2009, IV, II, 481; Alpa, La responsabilità civile, in Tratt. dir. civ., Milano, 1999, IV, 701; Rescigno, Obbligazioni e contratti, in Trattato di diritto privato, in Tratt. Dir. Civ., Torino, 1995, VI, 358).

Ed, a riprova dell'irrilevanza della mera custodia (o di un ipotetico dovere di custodia), vi è il fatto che, per costante giurisprudenza, si ritiene che la sola temporanea custodia, non accompagnata dalla soddisfazione di un interesse proprio del custode dell'animale (diverso e autonomo rispetto a quello del proprietario), non valga a rendere questi responsabile ex art. 2052 c.c. in luogo del proprietario.

Infatti, “non chi detenga l'animale per conto e nell'interesse del proprietario, ma chi lo gestisca autonomamente e in modo indipendente, in vista del perseguimento di un interesse proprio ed autonomo rispetto a quello del proprietario” può reputarsi responsabile dei danni da esso cagionati, in alternativa al proprietario (Cass. civ. n. 22632/2012).

Inoltre, secondo una giurisprudenza parimenti univoca, la prova di aver apprestato una diligente custodia dell'animale, così osservando il supposto dovere custodiale anzidetto, non vale a salvare il suo proprietario o il suo utente dalla responsabilità oggettiva di cui si discute (Cass. civ. n. 10402/2016), come dovrebbe essere se realmente fosse l'inosservanza di quel dovere a giustificare quest'ultima.

Per non dire che la stessa Cassazione civile (n. 4742/2001) ha da tempo riconosciuto che, in linea generale, la responsabilità ex art. 2052 c.c.si fonda non su un comportamento o un'attività del proprietario, ma su una relazione (di proprietà o di uso) intercorrente tra questi e l'animale”, per cui “solo lo stato di fatto (e non l'obbligo di vigilanza) può assumere rilievo nella fattispecie”, così negando qualsiasi suo fondamento in termini di violazione del suddetto dovere.

Ciò che dimostra come l'orientamento giurisprudenziale superato dalla sentenza in esame, laddove invece riteneva che gli animali selvatici non fossero soggetti alla regula juris dettata dall'art. 2052 c.c. perché insuscettibili di custodia, si ponesse in contraddizione, per più aspetti, con lo statuto della responsabilità per danni cagionati da animali delineato da altri precedenti della stessa Cassazione civile.

L'escogitazione del predetto “dovere di custodia”, quale fondamento della responsabilità ex art. 2052 c.c., appare quindi del tutto arbitraria, perché priva di giustificazione sul piano dell'interpretazione letterale non meno che di quella sistematica, come la dottrina dominante aveva da tempo segnalato (Franzoni, L'Illecito, in Trattato resp. civ. 2010, I, 523; Ventrella, Danno cagionato da animali: fondamento della responsabilità e individuazione dei singoli responsabili, in Giust. civ. 1978, I, 744; Belfiore, Appunti in materia di danni cagionati da animali, in Giur. merito 1973, I, 12).

Si osservi, inoltre, che, sul piano della teoria generale del diritto, è ormai da tempo prevalente la tesi che, ravvisando nell'”esposizione al rischio” la ratio comune delle diverse fattispecie di responsabilità oggettiva previste dal codice, afferma “l'improponibilità di fondo di una ricostruzione della responsabilità civile radicata nell'esposizione al pericolo” (Castronuovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, 456).

Con l'ulteriore precisazione che l'utilizzazione dell'animale, ai fini del criterio di imputazione in esame, non viene intesa come limitata al solo sfruttamento economico, ma può consistere pure nella soddisfazione di interessi di natura non patrimoniale (in dottrina: Franzoni, ibidem, 524; Belfiore, ibidem, 14; in giurisprudenza: Cass. civ. 7093/2015).

Ragion per cui non sussisteva alcuna ragione per cui gli animali selvatici di proprietà pubblica potessero ritenersi sottratti all'ordinario regime della responsabilità oggettiva stabilita dall'art. 2052 c.c. per i danni cagionati agli utenti della strada (così come ad altre categorie di consociati, quali gli agricoltori le cui colture vengano da questi danneggiate).

Ed il principio giuridico formulato dalla sentenza n. 7969/2020 (e dalle numerosissime altre conformi che sono seguite) merita quindi di essere condiviso.

Danni da fauna selvatica, responsabilità ex art. 2052 c.c., onere della prova del danneggiato

Le criticità della sentenza n. 7969/2020 riguardano, invece, l'obiter dictum relativo alla prova di cui è onerato l'utente della strada danneggiato dall'animale selvatico che agisca ex art. 2052 c.c..

Secondo la Corte, l'attore, dovendo provare il nesso causale, e cioè “che il danno è stato causato dall'animale selvatico”, dovrebbe “dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell'animale e l'evento dannoso subito”.

A tal fine non sarebbe “sufficiente… la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l'impatto tra l'animale ed il veicolo”.

Una simile lettura dell'onere probatorio del danneggiato non può essere condivisa.

Ciò che questi deve dimostrare è, invero, solamente che il fatto dell'animale, inteso come “fatto naturale in sé” considerato, abbia causato il danno (Villanova, La responsabilità del danno cagionato da animali, in Resp. civ. e prev. 2021, 82).

Potendosi trattare di “qualsiasi fatto che, secondo un criterio naturalistico, possa considerarsi proprio dell'animale” (Comporti, op. cit., 360; nello stesso senso: Brizzolari, Responsabilità per danno cagionato da animali, in Danno e resp. 2021, 387; Apicella, Danno cagionato da animali, in Trattato resp. civ. Stanzione, Padova, 2012, II, 897 e 908).

Pertanto, il suddetto onere probatorio può dirsi assolto qualora il danneggiato dimostri che, in assenza quel fatto, “non si sarebbe verificato l'evento dannoso (Villanova, op. cit., 782; Scalfi, Danni cagionati da animali, in Resp. civ. e prev. 1986,175; Comporti, op. cit., 362).

Ne consegue che (come una lontana, ma puntuale decisione ebbe a precisare) “non deve aversi riguardo alla condotta dell'animale, ma al fatto materiale da esso posto in essere, e cioè al fatto che l'incidente sia avvenuto a causa dell'animale, indipendentemente dalla sua condotta” (Cass. civ. n. 1356/1970).

Assunto condiviso dalla dottrina, secondo la quale “non rileva… il comportamento dell'animale, avendosi invece riguardo all'incidenza causale della sua presenza” (Rescigno, op. cit., 359).

E che appare peraltro coerente con la giurisprudenza della stessa Cassazione civile, secondo la quale, in materia di responsabilità oggettiva ex art. 2051 c.c., “è necessario (e sufficiente) che il danno sia stato “cagionato” dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa”, dovendosi ritenere derivato l'evento dannoso dalla cosa “se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo” (Cass. civ. n. 2477/2018).

In conclusione, se può essere condiviso l'assunto per cui il danneggiato deve dimostrare la “dinamica del sinistro”, non altrettanto è a dirsi per quello secondo il quale non sarebbe a tal fine sufficiente provare la “presenza dell'animale sulla carreggiata”, dovendosi, in aggiunta, dimostrare quale sia stata “la condotta dell'animale”.

L'urto fra il veicolo e l'animale verificatosi nella sede stradale ovvero la turbativa creata dalla sua presenza nella carreggiata stradale, quand'anche un urto non vi sia stato, ma l'incidente si sia verificato in conseguenza della manovra di emergenza attuata dal conducente per evitarlo, sono, invero, “fatti” dell'animale selvatico sufficienti a causare l'evento dannoso, nel senso dianzi precisato.

E cioè “fatti” suoi propri, in senso naturalistico, in assenza dei quali indubbiamente detto evento non si sarebbe verificato.

Come già affermato da qualche recente sentenza di merito (Trib. Potenza, 6 maggio 2021, n.500).

Oltre a ciò, è impropria, non solo sotto il profilo linguistico, la pretesa di attribuire ad un animale una qualsivoglia “condotta”, poiché questa (intesa quale “modo di comportarsi nella vita, contegno, costume”, come si legge nel Vocabolario Treccani), è riferibile solo all'agire della persona umana, frutto di una consapevole volizione.

Per questo aspetto la Suprema Corte, anziché l'accertamento dell'oggettiva ed effettuale idoneità del fatto dell'animale (inteso in senso naturalistico) a causare l'incidente, pare postulare la necessità che si provi un suo comportamento rilevante ai fini della responsabilità, per poterlo comparare con quello del conducente.

Ciò che è palesemente inammissibile, sia in quanto, ai fini dell'art. 2052 c.c., il danneggiato non deve certo dimostrare una qualche “responsabilità” dell'animale, sia perché a questi non può attribuirsi un qualche “comportamento” rilevante ai fini giuridici, tale cioè da poter fondare una sua valutazione in termini di responsabilità.

Non a caso, come si è detto, dottrina e giurisprudenza fanno riferimento ad un “fatto” dell'animale, in contrapposizione alla “condotta” umana.

Volendo, poi, valutare la fattispecie in termini giuridici (ciò che in realtà non è necessario ai fini della prova della valenza causale del “fatto” dell'animale), si dovrebbe comunque prendere atto che, come poi si vedrà, il Codice della strada (all'art. 184) prevede la presenza di animali non “attaccati ad un veicolo, da soma o da sella” nella careggiata solo se guidati da “almeno un conducente” che li governi “in modo da evitare intralcio e pericolo per la circolazione”.

Ragion per cui non solo il repentino attraversamento di questa da parte di un animale selvatico privo di “conducente”, come solitamente avviene, ma anche la sua sola presenza statica nella carreggiata è suscettibile di creare una situazione di pericolo per la sicurezza della circolazione, di per sé idonea a cagionare un danno.

Conclusivamente, il principio di diritto espresso dalla sentenza n. 7969/2020, laddove dilata l'onere probatorio del danneggiato oltre i limiti della dimostrazione della relazione causale tra il “fatto” dell'animale, costituito dalla sua sola presenza nella carreggiata (in assenza di conduzione umana), e l'evento dannoso verificatosi, aggrava arbitrariamente l'”onus probandi” anzidetto “al di là del limite scandito dalla disciplina codicistica” (Di Rosa, nota a Cass. civ. n. 7969/2020, in Foro it., I, 2357).

Responsabilità ex art. 2052 c.c. e prova liberatoria

Provata la suddetta relazione, quindi, il danneggiato avrà adempiuto l'onere che gli incombe, mentre sarà la Regione a dover offrire la prova liberatoria, dimostrando la ricorrenza di un caso fortuito.

Secondo la sentenza in esame, a tal fine, si dovrebbe dimostrare “che la condotta dell'animale… non era ragionevolmente prevedibile (avendo ad esempio assunto carattere di eccezionalità rispetto al comportamento abituale della relativa specie) o comunque,anche se prevedibile, non sarebbe stata evitabile neanche ponendo in essere le più adeguate misure di gestione e controllo della fauna selvatica e di cautela per i terzi, comunque compatibili con la funzione di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema cui la protezione della fauna selvatica è diretta, che naturalmente richiede che gli animali selvatici vivano in stato di libertà e non in cattività (come nel caso di comportamenti degli animali oggettivamente non controllabili, quali ad esempio il volo degli uccelli)”.

Anche questo assunto, tuttavia, non è condivisibile.

Esso risulta, invero, difforme dal consolidato insegnamento della stessa giurisprudenza di legittimità (e dall'unanime opinione dottrinale) in materia di fortuito, per cui questo deve consistere in un “fattore esterno nella determinazione del danno, che può consistere anche nel fatto del terzo o nella colpa del danneggiato, ma che necessariamente presenti i caratteri dell'inevitabilità, imprevedibilità ed assoluta eccezionalità”, e quindi in un “evento imponderabile ed imprevedibile, tale da superare ogni possibilità di resistenza o contrasto da parte dell'uomo“ (Cass. civ. n. 25223/2015).

In proposito si osservi, in primis, che la “condotta” (rectius: il comportamento) dell'animale che ha cagionato il danno, diversamente da quanto ha affermato la sentenza in esame, non può integrare il caso fortuito, non rappresentando un “fattore esterno” alla fattispecie che costituisce il presupposto della responsabilità del suo proprietario o del suo utente, e cioè quella di un danno causato dal “fatto” dell'animale, bensì il suo stesso fatto costitutivo.

Per cui l'”imprevedibilità” o “eccezionalità” propria del fortuito non può essere riferita ad essa, come erroneamente afferma la sentenza in esame.

Lo ha affermato la stessa Cassazione in passato, osservando che “la rilevanza del fortuito attiene al profilo causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre all'elemento esterno, anziché all'animale che ne è fonte immediata, il danno concretamente verificatosi” (Cass. civ. nn. 7260/2013, 979/2010).

Ciò proprio perché il “fattore esterno”, “idoneo ad interrompere quel nesso causale”, deve essere “estraneo alla sfera soggettiva” del proprietario o utente dell'animale (Cass. civ. n. 10402/2016) e, quindi, all'animale stesso.

Secondariamente, è sempre la Cassazione ad insegnarci che “l'imprevedibilità del comportamento da parte di un animale non può costituire caso fortuito che esonera dalla responsabilità il proprietario/custode, atteso che l'imprevedibilità costituisce una caratteristica ontologica di ogni essere privo di raziocinio” (Cass. civ. n. 7093/2015).

Questa elementare osservazione, peraltro, è alla base di una tradizione giuridica che si perde nel tempo, secondo la quale il proprietario o l'utente rispondono di qualsiasi “fatto dell'animale, secundum o contra naturam, comprendendovi quindi qualsiasi atto o movimento dell'animale quod sensu caret, che dipenda dall'animale stesso e prescinda dall'agire dell'uomo” (Comporti, op. cit., 360; Cass. civ. nn. 10402/2016, 778/1979).

In definitiva, “il convenuto, per liberarsi dalla responsabilità, dovrà provare non già di essere esente da colpa o di aver usato la comune diligenza e prudenza nella custodia dell'animale, bensì l'esistenza di un fattore, estraneo alla sua sfera soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale” (Cass. civ. n. 7260/2013).

E, quindi, per un verso, la “condotta” dell'animale selvatico che abbia cagionato un incidente stradale (nei termini anzidetti), sia essa prevedibile oppure no, evitabile o meno, non può costituire “caso fortuito”.

E, per un altro verso, ad integrare quest'ultimo e ad escludere la responsabilità ex art. 2052 c.c. della Regione non potrebbe certo valere la prova di aver adottato “le più adeguate misure di gestione e controllo della fauna selvatica e di cautela per i terzi”, come afferma la sentenza n. 7969/2020, perché attinenti al profilo soggettivo della colpa, del tutto irrilevante ai fini dell'ipotesi di responsabilità oggettiva in questione.

Ma solo l'evento naturale, il fatto del terzo ovvero quello dello stesso danneggiato che presentino gli anzidetti caratteri dell'imprevedibilità ed inevitabilità ed assoluta eccezionalità.

Non vi è infatti alcuna ragione perché in caso di incidente stradale causato da un animale selvatico l'ordinaria nozione di “caso fortuito” debba essere derogata in favore di una regula juris completamente diversa, come quella suggerita dalla Cassazione nella sentenza testè citata.

Seguire la via indicata dalla Cassazione a questo riguardo significherebbe quindi perpetuare, seppur in diversa forma, l'ingiustificato privilegio sin qui riservato alla pubblica amministrazione che essa si prefiggeva di superare.

Responsabilità ex art. 2052 c.c. e presunzione di cui all'art. 2054, comma 1, c.c.

Nel lungo obiter dedicato all'”onere della prova gravante sull'attore” la sentenza in esame ripropone, poi, l'idea che “il criterio di imputazione della responsabilità a carico del proprietario di animali di cui all'art. 2052 c.c. non impedisca l'operatività della presunzione prevista dall'art.2054, comma 1, c.c., a carico del conducente di veicolo senza guida di rotaie per danni prodotti a persone o cose, compresi anche gli animali, dalla circolazione del veicolo”, in quanto l'art. 2054 c.c. esprimerebbe “principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione”.

Viene così confermato un assunto accolto da una risalente giurisprudenza (Cass. civ. n. 2875/1969) e poi tralaticiamente perpetuato, che, tuttavia, merita un'attenta riflessione critica.

Si osservi, infatti, come sia la Corte stessa, inavvertitamente, a palesare il punto debole di un simile sillogismo quando rileva che l'inversione dell'onere probatorio del primo comma dell'art. 2054 c.c. opera a carico del conducente convenuto per “risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo”, contraddicendosi, subito dopo, laddove sostiene che tale inversione sarebbe applicabile a “a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione”.

Ciò che non è affatto vero.

L'anzidetta presunzione legale, infatti, soccorre chi sia stato danneggiato dalla circolazione di un veicolo, facilitandogli la prova della responsabilità del suo conducente.

Quella di cui si discute, invece, è la fattispecie opposta.

Nella quale il proprietario (o il conducente) di un veicolo ha subito un danno (al veicolo stesso o alla propria persona) a causa dell'interferenza di un animale con la normale circolazione stradale.

Quindi, se l'assunto anzidetto fosse fondato, anzitutto si dovrebbe credere che la presunzione in parola operi in favore non già del danneggiato, ma del danneggiante, contrariamente a quanto dispone il primo comma dell'art. 2054 c.c..

E, per di più, per una finalità opposta a quella perseguita da tale disposizione.

Si noti come un simile postulato contraddica quanto affermato da un noto precedente della Suprema Corte, secondo il quale “l'art. 2054 c.c. esprime, in ciascuno dei commi che lo compongono, principi di carattere generale, applicabili a tutti i soggetti che [dalla] circolazione, comunque, ricevano danni” (Cass. civ. n. 10629/1998), e non a coloro che tali danni abbiano causato.

Contraddizione questa che sarebbe davvero radicale, poiché l'“inversione dell'onere probatorio” in questione, secondo la Corte, si giustifica proprio in quanto diretta “a salvaguardare più efficacemente gli interessi che siano apparsi meritevoli di essere valorizzati”, e cioè quelli del danneggiato.

Mentre la regola affermata dalla giurisprudenza in questione, all'opposto, tutelerebbe l'interesse del danneggiante.

Inoltre, una simile, anomala tutela appare priva di una qualche giustificazione razionale.

Infatti, l'inversione probatoria del primo comma dell'art. 2054 c.c. tutela chiunque sia stato danneggiato dall'esercizio di un'attività, quale la circolazione stradale, che il legislatore ha ritenuto pericolosa e quindi sul presupposto che sia stato il conducente a creare il rischio concretizzatosi nell'evento dannoso.

Mentre, nel caso dell'incidente causato dalla presenza di un animale privo di conduzione umana nella carreggiata, al contrario, è proprio quest'ultima a creare il rischio per la sicurezza della circolazione (e cioè per l'attività normalmente e legittimamente esercitata dagli utenti in quell'ambito spaziale) che si realizza in questa ipotesi.

Da queste osservazioni deriva un'ulteriore, importante conseguenza.

Il principio giuridico accolto dalla sentenza in esame, infatti, presuppone l'estensione di una presunzione legale (relativa) ad una fattispecie concreta completamente diversa rispetto a quella per la quale la legge l'ha prevista.

E cioè, come detto, a favore non già del danneggiato dalla circolazione di un veicolo, ma del danneggiante che debba rispondere del fatto di un animale.

Diversamente da quanto declamato dalla tralaticia giurisprudenza precitata, non si tratterebbe quindi di un “principio generale” desunto da una o più norme specifiche, bensì dell'applicazione analogica di una norma istitutiva di una presunzione legale ad un caso diverso da quello specificamente contemplato dalla legge.

Ciò che non è ammissibile, come ha da sempre ritenuto la dottrina, secondo la quale le norme implicanti “limitazioni alla libertà di prova” sono “di stretta interpretazione” ed insuscettibili di analogia legis (De Maria, Delle presunzioni, in Comm. cod. civ. Schlesinger, Milano, 2014, 90; Palazzo, Le presunzioni (dir. priv.), in Enc. dir. 1986, 266; Comoglio, L.P., Le prove civili, Torino, 2010, 650; Patti S., Della prova testimoniale e delle presunzioni, in Comm. Scialoja-Branca, 2001, 85; Ramponi, La teoria generale delle presunzioni nel diritto civile italiano, Torino, 1890, 145).

Opinione questa ricevuta anche in giurisprudenza, secondo la quale le disposizioni che prevedono presunzioni legali “danno luogo ad uno ius singulare, insuscettibile, come tale, di applicazione analogica ad altre situazioni giuridiche, dalle quali la praesumpio ex lege non sia espressamente prevista” (Cass. civ. nn. 2193/1969, 644/1973).

Quindi, l'estensione analogica della presunzione di responsabilità del conducente a favore del proprietario o utente di un animale che abbia cagionato un danno ad un veicolo e/o al suo conducente, quale in realtà postulata dalla anzidetta giurisprudenza, è strutturalmente inammissibile sotto il profilo giuridico.

In conseguenza, la Regione che intenda addurre la condotta del conducente quale fatto suscettibile di integrare il caso fortuito, per esimersi dalla responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., ovvero quale causa concorrente dell'evento dannoso, ai fini dell'art. 1227, comma 1, c.c., è gravata del relativo onere di allegazione e prova di una sua specifica condotta colposa.

E a tal fine non può giovarsi dell'inversione dell'onere probatorio che il primo comma dell'art. 2054 c.c. prevede a favore del danneggiato dalla circolazione di un veicolo, e non del danneggiate che debba rispondere per il fatto dell'animale di sua proprietà o di cui sia l'utilizzatore, ai sensi dell'art. 2052 c.c..

Responsabilità per danno cagionato da animali e circolazione stradale

Per quanto con la sentenza n. 7969/2020 la giurisprudenza di legittimità si sia affrancata dall'ipoteca soggettivistica in virtù della quale aveva, per lungo tempo, esonerato le Regioni e gli altri enti preposti alla gestione della fauna selvatica dalla responsabilità prevista dall'art. 2052 c.c., è evidente che essa non ha superato l'idea che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici costituisca una sorta di “sottosistema” retto da regole proprie, fortemente derogatorie rispetto a quelle che la stessa Cassazione ha elaborato per tal genere di responsabilità oggettiva.

Tuttavia, non è dato comprendere come un simile regime di favore per la p.a. possa radicarsi nel diritto positivo.

Certamente questo favor debitoris, che si pone in controtendenza rispetto all'indirizzo dominante della giurisprudenza in tema di responsabilità civile, non trova fondamento nell'art. 2052 c.c., che non distingue tra animali domestici e selvatici ovvero tra proprietà (o utenza) pubblica e privata degli animali, e, al contrario, denota l'intenzione del legislatore di favorire il danneggiato.

Né potrebbe essere giustificato sulla base dei principi generali o delle norme di comportamento che disciplinano la circolazione stradale.

Infatti, un attento esame della normativa del Codice della strada, sin qui trascurato tanto dalla dottrina, quanto dalla giurisprudenza, dimostra come questa sia univocamente diretta ad evitare la presenza stessa di animali privi di conduzione umana nelle carreggiate, dal che si desume che il legislatore l'abbia ritenuta (giustamente) un grave rischio per la sicurezza stradale.

In proposito si osservi anzitutto che, come si è detto, l'art. 184 del CDS consente la “circolazione degli animali, degli armenti e delle greggi” solo se assistita da uno o più “conducenti”, prescrivendo che costoro debbano “essere idone[i] per requisiti fisici e psichici e aver compiuto anni quattordici” (art. 115 CDS).

L'art. 160 CDS disciplina in modo assai rigoroso la stessa “sosta” degli animali nei “centri urbani” e vieta in modo assoluto “lasosta degli animali sulla carreggiata” al di “fuori dei centri abitati”.

Così dimostrando di ritenere pericolosa per la sicurezza stradale anche la sola sosta di qualsiasi genere di animale nella carreggiata e nelle sue pertinenze.

L'art. 15 CDS, poi, vieta la circolazione del “bestiame” (e cioè degli animali mansuefatti) privo di conduzione nelle strade di qualsiasi tipo.

Dall'insieme di queste norme si deduce agevolmente che, pur non essendo stabilito un analogo divieto per gli animali selvatici, stante la loro incoercibilità, pure la loro presenza nella sede stradale (naturaliter non soggetta a custodia umana) debba essere considerata una turbativa pericolosa per gli utenti delle strade, e non un normale fatto “di circolazione”.

Del resto, a ben guardare, il fatto stesso che l'art. 95 del regolamento del CDS (d.P.R. n. 495/1992) faccia obbligo di “presegnalare la vicinanza di un tratto di strada con probabile attraversamento” mediante un apposito segnale di pericolo inerente agli “animali selvatici” dimostra come la loro presenza nelle carreggiate sia considerata tale.

È, dunque, indiscutibile che il CDS escluda la presenza di animali incustoditi nelle strade e che tale esclusione costituisca, esso sì, un dato “strutturale” della normativa in materia di circolazione stradale.

Che, a sua volta, indubbiamente rappresenta un riflesso dei “principi generali” dettati dall'art. 1 CDS, secondo i quali “la sicurezza delle persone, nella circolazione stradale, rientra tra le finalità primarie di ordine sociale ed economico perseguite dallo Stato” e le singole norme del Codice “si ispirano alla sicurezza stradale”, con il corollario per cui uno degli “obiettivi” che il legislatore si è posto è stato quello di “migliorare la fluidità della circolazione”.

Quindi, anche alla luce dei principi espressi dal CDS, si deve ritenere che la sola presenza di un animale privo di conduzione umana (sia esso mansuefatto o selvatico) costituisca una turbativa della circolazione stradale e, al tempo stesso, un “fatto dell'animale” idoneo, sotto il profilo causale, a provocare l'evento verificatosi in danno dell'utente della strada.

Senza che questi sia tenuto a dimostrare particolari “dinamiche del sinistro”, se non appunto l'indebita presenza dell'animale stesso nella carreggiata.

A fortiori, atteso il suddetto principio giuridico desumibile dalla normativa del CDS, è dunque privo di giustificazione il penalizzante regime probatorio “speciale” che la sentenza n. 7969/2020 ha ipotizzato a carico degli utenti della strada danneggiati dagli animali selvatici, finendo di fatto per rovesciare il favor creditoris stabilito a suo favore dall'art. 2052 c.c.

Ciò che rende auspicabile un sollecito completamento del percorso di revisione che la giurisprudenza di legittimità ha intrapreso a questo proposito.

Responsabilità aquiliana per i danni causati dalla fauna selvatica e circolazione stradale (art. 2043 c.c.)

Il recente revirement della giurisprudenza quanto all'azione di cui all'art. 2052 c.c. non esclude che il danneggiato possa cumulare o promuovere in alternativa a questa l'azione aquiliana diretta a far valere la responsabilità per colpa dell'ente gestore della fauna selvatica.

Come si è detto, questa era l'unica azione che, prima di Cass. civ. 7969/2020, la giurisprudenza dominante riteneva esperibile contro la p.a., prevedendone, peraltro, dei presupposti assai rigorosi.

Si riteneva, invero, che non potesse derivarsi l'obbligo di prevenire gli incidenti stradali causati dalla fauna selvatica direttamente dal principio del neminem laedere ovvero dalle norme che assegnavano all'ente preposto compiti di tutela faunistica (conformemente alle concezioni dottrinali più risalenti in materia di illecito civile: DE CUPIS, Il danno: teoria generale della responsabilità civile, Milano, 1966).

Ma che sul danneggiato gravasse il duplice onere di identificare una specifica norma prescrittiva dell'adozione di specifiche misure dirette a prevenire eventi dannosi in presenza di una conosciuta “situazione di concreto pericolo” e di provare “la condotta colposa dell'ente pubblico causalmente efficiente rispetto al danno provocato dall'animale” in violazione di tale precetto (Cass. civ. n. 16642/2016).

Quest'ultima prova si riteneva raggiunta quando fosse stato dimostrato alternativamente che l'incidente fosse avvenuto in un tratto stradale interessato da precedenti, analoghi incidenti (Cass. civ. n. 2512/2016) ovvero che fosse ubicato in un'area notoriamente popolata da animali selvatici (Cass. civ. n. 5722/2019), sì da rendere prevedibile l'attraversamento della carreggiata da parte di questi (Cass. civ. n. 27673/2008).

Non poche sentenze, inoltre, affermavano che la mera installazione della segnaletica verticale di pericolo prescritta dal già citato art. 95 del regolamento CDS fosse sufficiente, in tal caso, ad esaurire gli obblighi della p.a. (Cass. civ. n. 4004/2020), perché “nessun dovere specifico di diligenza al di là di quello generale assolto con la segnaletica” anzidetta sussisterebbe “in capo all'ente delegato per la gestione della fauna dalla mera esistenza della… finalità” di tutela faunistica (Cass. civ. nn. 16808/2020, 22886/2015).

Tale orientamento, in realtà, si poneva in contraddizione con la generale tendenza della giurisprudenza di legittimità, da tempo dominante, ad affermare la responsabilità della p.a. pure per “colpa generica”, e cioè per l'inosservanza della comune prudenza e perizia, anche in mancanza della violazione di specifiche norme di condotta e, quindi, in virtù della clausola generale del neminem ledere, come ripetutamente affermato pure dalle Sezioni unite (SS.UU. nn. 17673/2016, 23834/2015, 22095/2015).

Era, infatti, un principio da tempo assodato quello della responsabilità della P.A. “non soltanto nel caso in cui questa si concretizzi nella violazione di una specifica norma, istitutiva dell'obbligo inadempiuto, ma anche quando detta condotta si ponga come violazione del principio generale di prudenza e diligenza” (Cass. civ. n. 28460/2013).

Questo anche nella specifica materia di sicurezza stradale, con riguardo alla pacifica responsabilità per colpa della p.a. che abbia “violato il precetto del "neminem laedere", violando i diritti di terzi”, laddove essa “con scelte improvvide, non garantisc[a] la sicurezza delle strade, ed a causa di tale omissione gli utenti della strada patiscano danno”, ad esempio per l'insicurezza di un guard rail (Cass. civ. n. 10916/2017), con riguardo ad incidenti causati da cani randagi (Cass. civ. nn. 2741/2015, 17528/2011) o all'inadeguatezza delle opere stradali (Cass. civ. n. 7/2010).

Anche in questo caso, quindi, il rigorismo adottato dalla Suprema Corte nella specifica materia dei danni cagionati dalla fauna selvatica si poneva (inspiegabilmente) in contraddizione col suo stesso, radicato orientamento in tema di responsabilità civile della p.a.

Parallelamente all'orientamento maggioritario, nella giurisprudenza di legittimità, tuttavia, se n'è formato uno di segno contrario che, seppur implicitamente, derivava la responsabilità della p.a. dal neminem ledere ovvero affermava il principio per cui “la titolarità di poteri di gestione e protezione della fauna selvatica si deve svolgere in una direzione, per così dire, biunivoca... se è indubbio che la fauna deve essere protetta e tutelata in vista del complessivo equilibrio dell'ambiente… è altrettanto vero che la protezione va rivolta anche nei confronti dei soggetti, come gli utenti della strada, che sono in condizione di subire potenzialmente dei danni a causa degli imprevedibili comportamenti degli animali selvatici… protezione degli animali, dunque, ma anche protezione degli utenti della strada dagli animali” (Cass. civ. n. 22886/2015).

In queste decisioni la Cassazione (n. 13448/2018) aveva osservato come “l'omissione di qualsivoglia cautela atta ad impedire il vagare incontrollato di animali selvatici”, in quanto “comportamento incidente eziologicamente sul danno”, costituisse una condotta colposa della p.a..

Precisando che l'omissione “di altri elementi dissuasori, quali recinzioni o linee elettrificate” o simili misure, oltre alla “segnaletica” (Cass. civ. n. 11210/2017), non fosse annullata dalla predisposizione di quest'ultima, perché “la presenza di cartellonistica stradale, che segnala l'esistenza della fauna selvatica, non è assolutamente sufficiente per tutelare la incolumità di chi si trova a transitare” (Cass. civ., n. 15753/2015).

Assunto questo che appare, invero, assiomatico, poiché la segnaletica può preavvertire di un pericolo, ma non evitare che questo possa concretizzarsi.

Quest'ultimo indirizzo è il solo coerente con i principi giurisprudenziali precitati, espressi dalla Suprema Corte in tema di responsabilità civile della p.a.

Mentre il rigorismo dominante appare un anacronistico riflesso di quell'“ingiustificato privilegio riservato alla pubblica amministrazione” di cui la sentenza n. 7969/2020 avrebbe inteso decretare la fine.

La rimeditazione dell'intera problematica dei danni in esame, quindi, non potrà evitare di coinvolgere pure la materia della responsabilità ex art. 2043 c.c. per i danni cagionati dalla fauna selvatica, per quanto la sua importanza sia oggi ridimensionata dall'affermarsi della responsabilità oggettiva prevista dall'art. 2052 c.c. anche in questa materia.

Un percorso giurisprudenziale da completare

In conclusione, la sentenza n. 7969/2020 ha iniziato un percorso di revisione dell'interpretazione giurisprudenziale della responsabilità della p.a. per i danni causati agli utenti della strada dagli animali selvatici che appariva ormai indilazionabile, per la palese incoerenza dell'orientamento tradizionale rispetto alla lettura giurisprudenziale dell'art. 2052 c.c. ormai da tempo consolidata.

Si tratta, tuttavia, di un percorso che appare ben lungi dall'essere completato.

Infatti, la Cassazione, dopo aver rinnegato, in linea di principio, la posizione di privilegio sin qui riconosciuta alla p.a. con l'anacronistica esenzione dalla responsabilità oggettiva per i danni causati dalla fauna selvatica, ha contraddittoriamente escogitato un regime probatorio suscettibile di vanificare tale risultato.

Le incongruenze e le contraddizioni che caratterizzano il nuovo indirizzo così espresso, tuttavia, sono di tale evidenza da imporre un'ulteriore e più matura riflessione che conduca a compimento questo percorso, estendendo anche ai danni causati dagli animali selvatici i principi di diritto da tempo affermatisi in tema di onere della prova nella responsabilità oggettiva e in quella aquiliana.

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