Impossibilità di provvedere al proprio sostentamento e diritto agli alimenti

Sabrina Apa
14 Febbraio 2022

Il caso in esame concerne l'obbligazione alimentare, istituto giuridico funzionalmente orientato ad assicurare al beneficiario i bisogni essenziali e primari, e dunque, a garantirgli una vita dignitosa, in ossequio al dovere di solidarietà costituzionale di cui all'art. 2 Cost.
Massima

Il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche dell'impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di un'attività lavorativa. Ne consegue che ove l'alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l'impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un'occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata.

Il caso

Il figlio citava in giudizio i propri genitori per sentirli condannare al pagamento di un assegno alimentare, riferendo che nonostante il conseguimento della laurea e nonostante si fosse attivato per la ricerca di un lavoro, la propria condizione lavorativa era rimasta precaria e tale da non permettergli una vita dignitosa. In particolare, affermava di vivere in un dormitorio dopo lo sfratto seguito alla vendita dell'alloggio in cui viveva con la madre e con la nonna.

Nel contraddittorio con i genitori, il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere sulla domanda proposta dall'attore nei confronti del padre, e respingeva la domanda volta ad ottenere il contributo alimentare da parte della madre.

Il figlio impugnava la statuizione di rigetto della pretesa da lui azionata nei confronti della madre, ma la Corte di appello respingeva l'impugnazione.

Avverso detta pronuncia il figlio presentava ricorso per cassazione, affidato a sei motivi di censura.

La questione

La questione giuridica sottoposta alla Suprema Corte riguarda l'istituto dell'obbligazione alimentare di cui al titolo XIII del codice civile, la cui ratio si rinviene nel vincolo di solidarietà intercorrente tra i membri della famiglia.

Le soluzioni giuridiche

Occorre fare una breve premessa. Nella nozione di alimenti strettamente necessari non rientra soltanto il vitto e l'alloggio, bensì anche il vestiario, le cure mediche e, più in generale, tutto ciò che sia indispensabile per la vita del beneficiario, quale soddisfazione delle sue esigenze primarie.

Sul punto sembra opportuno sottolineare che il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche dell'impossibilità da parte dell'alimentando di provvedere in tutto o in parte al proprio sostentamento attraverso l'esercizio dell'attività lavorativa. Fermo restando che se dopo l'assegnazione degli alimenti, mutano le condizioni economiche di chi li somministra o di chi li riceve, l'autorità giudiziaria provvede per la cessazione, la riduzione o l'aumento, secondo le circostanze (art. 440 c.c.).

Con riferimento ai presupposti del diritto agli alimenti, mette conto evidenziare che la situazione di bisogno va intesa come incapacità della persona di provvedere alle fondamentali esigenze di vita; esprimendo, dunque, l'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari, quali il vitto, l'abitazione, il vestiario, le cure mediche, e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell'alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie (Cass., n. 25248 del 2013).

Merita altresì precisare che il non essere in grado di provvedere al proprio mantenimento indica l'involontaria e non imputabile mancanza di un reddito di lavoro.

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire che il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di un'attività lavorativa, sicché, ove l'alimentando non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l'impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un'occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass., n. 21572/2006; Cass., n. 1099/1990; Cass., n. 1820/1981).

Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che l'accertamento dell'impossibilità per il soggetto di provvedere al soddisfacimento dei suoi bisogni primari non può prescindere dalla verifica dell'accessibilità dell'alimentando a forme di provvidenza che consentano di elidere, ancorché temporaneamente, lo stato di bisogno (si pensi al reddito di cittadinanza di cui al d.l. n. 4/2019, convertito dalla l. n. 26/2019). È da credere, infatti, - sostiene la Corte - che, nella partita del diritto agli alimenti, la colpevole mancata fruizione di tali apporti giochi lo stesso ruolo dell'imputabile mancanza di un reddito di lavoro; delineandosi, nell'uno e nell'altro caso, l'insussistenza di quell'impedimento oggettivo ad ovviare al lamentato stato di bisogno che è condizione per l'insorgenza del diritto in questione.

Il caso in esame risulta di particolare interesse perché consente di riflettere sulla portata dei presupposti delineati dall'obbligazione alimentare ex art. 438 c.c.

La norma in questione prevede che gli alimenti possano essere richiesti solo da chi versa in stato di bisogno e non è in grado di provvedere al proprio mantenimento.

Con riferimento al caso di specie, la Cassazione ha osservato che la Corte d'appello ha mostrato di aver ben applicato la fattispecie delineata dall'art. 438 c.c. Invero, l'incapacità dell'alimentando è stata correttamente intesa come "esistenza di una situazione indipendente dalla sua volontà, che non gli consenta di procurarsi autonomamente i mezzi necessari al sostentamento". In proposito la Suprema Corte ha sottolineato che il termine "sostentamento" assume, qui, un valore lessicale pienamente sovrapponibile a quello di "mantenimento" (parola che assume comunemente il detto significato, quando è riferita a una persona); precisando che il modulo di definizione della fattispecie fatto proprio dalla Corte d'appello è pienamente conforme a quello adottato nelle pronunce di legittimità richiamate.

In particolare, merita aggiungere che la Corte d'appello aveva fatto riferimento alle condizioni del ricorrente (laureato e in possesso delle competenze specialistiche che gli avrebbero consentito di svolgere attività lavorativa in un settore che non può definirsi in crisi), non per conferire rilievo a vicende future, ma per chiarire che il figlio non versava nell'impossibilità, per circostanze a lui non imputabili, di trovarsi un'occupazione confacente.

Al riguardo, la Suprema Corte ha osservato che il rilievo in questione era stato svolto in sentenza dopo aver richiamato le deposizioni testimoniali acquisite al processo; deposizioni che, secondo la Corte d'appello, avevano dato conto delle opportunità di avviamento al lavoro offerte al ricorrente.

Osservazioni

In conclusione, sembra interessante soffermarsi, sia pur brevemente, sul concetto di capacità lavorativa, in ragione del fatto che il diritto agli alimenti è ancorato non solo alla prova dello stato di bisogno, ma anche alla prova dell'impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l'esplicazione di un'attività lavorativa.

La nozione di capacità lavorativa va intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro, in particolare un lavoro remunerato.

Sul punto la giurisprudenza di legittimità, ha precisato che essa si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l'autonomia ed attribuisce piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di voto): salva la prova di circostanze che giustificano, al contrario, il permanere di un obbligo di mantenimento (Cass., n. 17183/2020).

Riferimenti

C. M. Bianca, Diritto Civile. Vol. 2: La Famiglia, Giuffrè, 2017;

C. Argiroffi, Degli alimenti. Artt. 433 – 448 in Il Codice Civile. Commentario. Giuffrè, 2009.

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