La soggezione della madre ai maltrattamenti del padre non comporta lo stato di abbandono del figlio

Sabina Anna Rita Galluzzo
15 Febbraio 2022

Le Sezioni Unite si pronunciano su due questioni entrambe rilevanti. La prima concerne la giurisdizione relativa a un minore straniero dichiarato adottabile e che quindi si trova in stato di abbandono sul territorio italiano. La seconda riguarda i presupposti per la dichiarazione di adottabilità in particolare quando uno dei due genitori è violento e l'altro è soltanto una vittima di tali violenze.
Massima

Il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore, ai sensi della l. n. 184/1983, art. 15, è consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, a norma dell'articolo 8 della stessa legge, che devono essere specificamente dimostrati in concreto; una pronuncia di stato di abbandono di un minore, ai sensi della l. n. 184/1983, art.8, non può essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall'altro.

Il caso

La vicenda ha per protagonista una bambina moldava, nata e residente in Italia da madre e padre entrambi moldavi.

Le reiterate violenze e i maltrattamenti posti in essere dal padre contro la madre e i suoi tre figli, nati da un'unione precedente, avevano portato a una pronuncia di decadenza dalla responsabilità genitoriale nei confronti di entrambi. La donna in particolare si poneva in un atteggiamento di totale sottomissione verso il compagno tanto che aveva ritirato una denuncia sporta nei suoi confronti a seguito di una grave aggressione. Il Tribunale per i minorenni dichiarava successivamente la bambina in stato di abbandono con provvedimento confermato in Corte d'Appello. Contro la sentenza della Corte territoriale veniva proposto ricorso in Cassazione.

La Corte, con ordinanza n. 15693/2021, rilevando la mancanza di "precedenti specifici" in materia, rimetteva alle Sezioni Unite l'esame della questione relativa al difetto di giurisdizione del giudice italiano.

La questione

Le Sezioni Unite si pronunciano su due questioni entrambe rilevanti. La prima concerne la giurisdizione relativa a un minore straniero dichiarato adottabile e che quindi si trova in stato di abbandono sul territorio italiano. La seconda riguarda i presupposti per la dichiarazione di adottabilità in particolare quando uno dei due genitori è violento e l'altro è soltanto una vittima di tali violenze.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione interviene con una lunga e articolata sentenza soffermandosi, innanzitutto, sulla questione di giurisdizione.

Le Sezioni Unite analizzano la disciplina in materia richiamando sia la l. 218/1995 di riforma del sistema di diritto internazionale privato (artt. 38-40) che la l. 184/1983 in materia di adozione, norme, si precisa nella sentenza, da interpretare in maniera coordinata. In particolare i giudici evidenziano che secondo tali disposizioni “al minore straniero che si trova nello Stato in situazione di abbandono si applica la legge italiana in materia di adozione…” (art. 37-bis, l. 184/1983), e “si applica il diritto italiano quando è richiesta al giudice italiano l'adozione di un minore, idonea ad attribuirgli lo stato di figlio” (art. 38, l.218/1995). I giudici italiani inoltre hanno giurisdizione in materia allorché l'adottando è un minore in stato di abbandono in Italia (l. 218/1995 art.40). Allo stesso risultato, aggiungono le Sezioni Unite si arriverebbe considerando la dichiarazione di adottabilità come un istituto di protezione dei minori cui si applica, pertanto, la legge di residenza abituale del minore in base a quanto dispone l'art. 42, l. 218/1995, che richiama in materia la Convenzione dell'Aja del 5 ottobre 1961 secondo la quale "Le autorità, così giudiziarie come amministrative, dello Stato di dimora abituale d'un minorenne sono (...) competenti a prendere delle misure per la protezione della persona o dei beni dello stesso".

In conclusione, la Cassazione afferma che trattandosi di minore, anche straniero, in stato d'abbandono sussiste la giurisdizione del giudice italiano con applicazione della legge italiana sia in relazione all'adozione, che riguardo agli atti preliminari a questa, come la dichiarazione di adottabilità. Nello stesso senso peraltro si era già espressa la giurisprudenza di legittimità precisando che l'art. 37, l. 184/1983 (attualmente trasposto nel 37-bis) comporta, sul piano processuale, la giurisdizione del giudice italiano, a prescindere dagli elementi di collegamento previsti dalla legislazione interna, e anche, sul piano sostanziale, l'assoggettamento del rapporto alla normativa interna, in deroga alle comuni regole di diritto internazionale privato (Cass. 9576/1996).

Chiarita la questione preliminare la Corte prosegue ritenendo di affrontare anche il merito della vicenda a causa dell'urgenza di provvedere sulla situazione giuridica della bambina che è dichiarata in stato di adottabilità.

In proposito la Cassazione sottolinea innanzitutto il consolidato principio relativo all'eccezionalità dell'adozione, considerata da sempre extrema ratio cui si ricorre solo quando tutte le altre misure si siano dimostrate impraticabili. Norma cardine in questo contesto è l'art. 1, l. 184/1983, così come modificato dalla l. 149/2001, che attribuisce carattere prioritario al diritto del minore a essere educato nell'ambito della propria famiglia, considerata l'ambiente più idoneo al suo armonico sviluppo psicofisico. L'adozione infatti, secondo costante interpretazione giurisprudenziale, non è uno strumento cui ricorrere per consentire al minore di essere accolto in un contesto più favorevole per cui al giudice è richiesto un particolare rigore nella valutazione della situazione di abbandono (Cass. 1932/2017).

Soprattutto, precisa la Corte nel caso in esame, l'adozione è possibile soltanto quando entrambi i genitori non siano in grado di assicurare al figlio quel minimo di cure materiali, calore affettivo, aiuto psicologico indispensabili per lo sviluppo e la formazione della sua personalità e la situazione non sia dovuta a forza maggiore di carattere transitorio (Cass.4503/2002; Cass., 10809/2008).

Tale assunto, sottolineano le Sezioni Unite, si ricava anche dalla normativa e dalla giurisprudenza sovranazionale. Gli Ermellini in particolare evidenziano la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (art. 7) e la Convenzione europea dei diritti umani (art. 8) che tutelano il diritto al rispetto della “vita privata e familiare”. Ricordano inoltre la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'Uomo che ha più volte precisato che l'accertamento giudiziale in ordine alla capacità genitoriale deve tendere a risultati quanto più possibile “certi” in relazione all'eventuale incapacità dei genitori. Gli Stati membri infatti, secondo la CEDU, devono attivare ogni loro risorsa per consentire al minore, di vivere preferibilmente nella sua famiglia di origine (CEDU, 17/04/2021, A.I. c. Italia; Corte EDU, 12/08/2020, E.C. c. Italia).

Fondamentale, in questo contesto, prosegue la Cassazione, è il principio secondo cui l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente (art. 3 Convenzione sui diritti del fanciullo). Tale principio è espressamente richiamato anche in materia di immigrazione sancendo così la sussistenza di un diritto all'unità familiare, e l'importanza della non disgregazione della famiglia d'origine (d.lgs. 286/1998, art. 28). In materia la giurisprudenza ha di conseguenza più volte affermato come gli Stati devono vigilare affinché il minore non sia separato dai propri genitori biologici (Cass., 26831/2019; Cass., 4197/2008).

Di fronte a tale quadro normativo e giurisprudenziale, precisa la sentenza in esame, le posizioni dei due genitori non possono essere considerate allo stesso modo. Riguardo al padre, la Corte ritiene convincente la motivazione dei giudici d'Appello che si fonda su una condanna in via definitiva per il reato di maltrattamenti in famiglia, nonché sui suoi rifiuti a intraprendere percorsi di ravvedimento. In relazione alla donna invece la Cassazione sottolinea come, nonostante la mancanza di gravi fatti specifici rivelatori di un'incapacità genitoriale, (si parla di mera insicurezza e posizione di soggezione nei confronti dell'uomo) non era stato fatto tutto ciò che era possibile per salvaguardare il diritto del minore alla propria famiglia d'origine, come invece richiesto dalla giurisprudenza europea.

Pertanto, affermano le Sezioni Unite, una pronuncia di stato di abbandono di una minore non può essere in alcun caso fondata sullo stato di sudditanza e di assoggettamento in cui vive la madre per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dal proprio partner. Tali aspetti non possono fondare, come invece è stato nella specie, la presunta inidoneità a svolgere il ruolo di genitore; al contrario, è necessario evitare, precisa la Cassazione, la c.d. “vittimizzazione secondaria", fenomeno in forza del quale persone già vittime di violenze diventano vittime una seconda volta a causa delle mancanze delle autorità.

Riguardo alla madre nella specie infatti non solo non è stata dimostrata un'incapacità genitoriale, ma la stessa non è stata nemmeno adeguatamente supportata dalle istituzioni a ciò preposte.

Le Sezioni Unite in conclusione ribadiscono il consolidato principio di diritto secondo cui si può ricorrere alla dichiarazione di adottabilità solamente in presenza di fatti gravi, indicativi, in modo certo, dello stato di abbandono, morale e materiale, al quale aggiungono un nuovo tassello ossia che non è sufficiente uno stato di sudditanza e di assoggettamento fisico e psicologico in cui versi uno dei genitori, per effetto delle reiterate e gravi violenze subite dall'altro a dichiarare un minore in stato di abbandono.

Osservazioni

In questi ultimi anni il tema della vittimizzazione secondaria ha acquisito una progressiva rilevanza sollecitato, anche, dall'allarme sociale provocato dall'escalation della violenza contro le donne.

Tale situazione si riscontra quando la vittima di un reato rivive le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta. È una conseguenza spesso sottovalutata nei vari interventi di giustizia, e l'effetto principale è quello di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa. Si tratta di una sorta di seconda aggressione, portata avanti questa volta dalle istituzioni che rende il soggetto di nuovo vittima.

Vari sono in materia i contributi sovranazionali tra i quali la Cassazione cita la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, 11 maggio 2011, c.d. Convenzione di Istanbul che invita espressamente gli Stati ad evitare la vittimizzazione secondaria (art. 18) e a formare figure professionali che siano in grado di prevenirla (art.15).

La dottrina definisce il fenomeno come una “condizione di ulteriore sofferenza e oltraggio sperimentata dalla vittima in relazione ad un atteggiamento di insufficiente attenzione, o di negligenza, da parte delle agenzie di controllo formale nella fase del loro intervento e si manifesta nelle ulteriori conseguenze psicologiche negative che la vittima subisce” (La vittimizzazione secondaria: ambiti di ricerca, teorizzazioni e scenari Giovanna Fanci; Rivista di Criminologia, Vittimologia e Sicurezza – Vol. V – N. 3 – Settembre-Dicembre 2011).

La stessa giurisprudenza di legittimità aveva già in precedenza prestato attenzione al fenomeno sottolineando come le donne vittime di violenza e i loro figli hanno spesso bisogno di protezioni speciali a motivo dell'elevato rischio di vittimizzazione secondaria, intimidazione e di ritorsioni connesse a tale violenza (Cass. sez. un., 10959/2016).

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