Ancora ombre (e qualche luce) sugli sviluppi del caso Cappato: dignità e diritti dei pazienti terminali

Roberto Masoni
16 Febbraio 2022

La questione sollevata riguarda la sussistenza nell'ordinamento, a seguito delle richiamate pronunzie costituzionali sul caso Cappato, di un diritto soggettivo all'accertamento delle condizioni personali del paziente per accedere al suicidio assistito.
Massima

Le pronunzie sul caso Cappato del 2018-2019 hanno introdotto il diritto del malato di richiedere alla struttura sanitaria competente l'accertamento delle condizioni per l'operatività della causa di non punibilità, come pure il correlativo obbligo al riguardo in capo alla struttura sanitaria, la cui violazione è azionabile in giudizio.

Il caso

Antonio (nome di fantasia) ha richiesto ex art. 700 c.p.c. al Tribunale di Fermo di accertare il proprio diritto a che l'Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche verifichi che lo stesso versi nelle condizioni personali previste dalle pronunzie costituzionali sul caso Cappato (n. 207/2018 e n. 242/19) in tema di suicidio medicalmente assistito, previo parere del comitato etico territorialmente competente, come pure la verifica dell'idoneità del farmaco prescelto per assicurare una morte celere e dignitosa e infine la condanna del resistente al pagamento della somma € 500 per ogni giorno di ritardo.

L'istante ha esposto di avere 43 anni, di essere stato coinvolto in gravissimo sinistro stradale verificatosi nel 2014 e di risultare affetto da tetraplegia completa, dipendente da trattamento di sostegno vitale (in particolare, catetere necessario allo svuotamento della vescica). Esponeva che, persistendo piena capacità di intendere e volere, in presenza di una condizione di vita non migliorabile, aveva maturato la volontà di innescare la procedura di suicidio medicalmente assistito.

A questo proposito, Antonio aveva richiesto all'Azienda Sanitaria regionale unica Marche di effettuare tale accertamento. Quest'ultima aveva respinto la richiesta, argomentando sulla scorta del parere negativo espresso dal comitato etico regionale marche, che, a sua volta, aveva rilevato “l'assenza di un processo istruttorio dell'azienda sanitaria che accertasse la volontà del paziente”.

Il ricorrente aveva quindi diffidato formalmente e messo in mora l'azienda sanitaria resistente, depositando un esposto per omissione di atti d'ufficio ex art 328 c.p., indi, tramite l'Associazione Luca Coscioni, avanzato ricorso d'urgenza al Tribunale civile di Fermo.

La questione

La questione sollevata riguarda la sussistenza nell'ordinamento, a seguito delle richiamate pronunzie costituzionali sul caso Cappato, di un diritto soggettivo all'accertamento delle condizioni personali del paziente per accedere al suicidio assistito.

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso avanzato dal paziente è stato accolto sulla scorta dell'assunto seguente.

Il giudice ha evidenziato che le pronunzie sul caso Cappato non hanno introdotto solo una condizione di non punibilità in capo a chi abbia contribuito al suicidio assistito del paziente a date condizioni (art. 580 c.p.), ma hanno pure determinato significativi “risvolti sotto il profilo civilistico”, con riguardo in particolare alle “prestazioni che il cittadino-paziente ha diritto di richiedere al sistema sanitario nazionale e ai suoi attori-organi”.

Si afferma claris verbis che la pronunzia costituzionale del 2019 ha introdotto nell'ordinamento un diritto del malato a richiedere all'ausl competente di accertare le condizioni di operatività della causa di non punibilità, individuando la sussistenza di un correlato e speculare obbligo a carico della struttura sanitaria, la cui violazione in ipotesi di inadempimento, è azionabile in giudizio.

Il dispositivo della pronunzia ordina pertanto all'azienda sanitaria di provvedere, previa acquisizione del parere del comitato etico territoriale, ad accertare se la persona sia affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili, tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale, seppur pienamente capace di intendere e volere. Da ultimo, ordina, ancora, di accertare se il farmaco prescelto dal paziente sia idoneo in grado di garantirgli una morte “più rapida, indolore e dignitosa possibile”.

Osservazioni

I. Le pronunzie costituzionali sul caso Cappato del 2018 e 2019, in assenza di un intervento legislativo (per quanto a vario titolo sollecitato) volto alla regolamentazione dei nodi problematici della materia del suicidio medicalmente assistito, hanno plasticamente determinato l'effetto di un sasso gettato in uno stagno, che nell'acqua ha determinato molteplici cerchi concentrici progressivi.

Infatti, l'applicazione dei principi affermati dalla Corte sull'aiuto al suicidio dei pazienti terminali sta impegnando la giurisprudenza di merito in un'opera ricostruttiva; un'interpretazione indispensabile nell'ottica di colmare le lacune ordinamentali esistenti, in difetto di un testo normativo in grado di eliminare ogni incertezza al riguardo.

In ottica sollecitatoria, nel tentativo di vincere l'inerzia del Parlamento, renitente a regolamentare la delicata materia del “fine vita”, si segnala il referendum (parzialmente) abrogativo del testo dell'art. 579 c.p., promosso dall'Associazione Luca Coscioni.

In giurisprudenza vanno ricordati almeno due precedenti editi al riguardo.

Sul versante penalistico, la pronunzia assolutoria resa sul caso c.d. Trentini da parte della Corte d'Assise di Massa nel luglio 2020 che ha mandato assolti gli imputati dal delitto di aiuto al suicidio prestato al paziente terminale (ex art. 580 c.p.). La corte ha applicato senza infingimenti gli enunciati proclamati dalla Corte Costituzionale al caso sottopostole, in particolare fornendo un'interpretazione in bonam partem della scriminante procedurale introdotta, con riguardo al requisito della sussistenza di trattamenti di sostegno vitale.

Sul versante civilistico, nel mese di giugno dello scorso anno, il Tribunale di Ancona ha accolto (in sede di reclamo) un ricorso cautelare avente analogo contenuto rispetto a quello depositato innanzi al Tribunale di Fermo. Nella vicenda giudiziaria decisa dal Tribunale anconetano, il ricorrente era un paziente terminale che, desideroso di porre termine alla propria vita di dolore e sofferenza, aveva richiesto all'azienda sanitaria delle Marche di compiere su di lui gli accertamenti necessari ad accertare la sussistenza delle condizioni soggettive introdotte dalla Corte Costituzionale con le pronunzie del 2018 e 2019, in tema di suicidio assistito.

II. Nella sua linearità, il caso affrontato dalla Corte marchigiana nel provvedimento annotato si rivela speculare rispetto a quello deciso nel mese di giugno dello scorso anno dal Tribunale di Ancona.

Anche in tal caso emerge trasparente una resistenza da parte dell'azienda sanitaria nell'applicazione dei principi enunciati dalla Corte Costituzionale sul caso Cappato, che, va ribadito, costituiscono norme dell'ordinamento a cui tutti i consociati sono chiamati ad attenersi. Una resistenza sorda, quella della p.a. marchigiana, nonostante diffide, atti di messa in mora ed un ricorso giudiziario, corredata pure dalla denuncia presentata alla Procura della Repubblica per omissione di atti d'ufficio (art. 328 c.p.).

Accogliendo il ricorso cautelare, il Tribunale di Fermo è pervenuto al medesimo risultato cui era pervenuto il precedente marchigiano del giugno scorso. Nel dispositivo viene ordinato all'azienda sanitaria inadempiente di verificare in capo al ricorrente la sussistenza dei presupposti di accesso al suicidio assistito indicati dalla Corte Costituzionale, previa acquisizione del parere del comitato etico territoriale.

Compiendo un passo in avanti rispetto al giudicato anconetano, l'ordinanza in epigrafe ha affermato claris verbis l'esistenza di un “diritto soggettivo del malato a richiedere alla struttura competente l'accertamento delle condizioni per l'operatività della causa di non punibilità”, quale portato delle pronunzie del 2018-2019. Al punto da affermare (pena altrimenti “un'abrogazione tacita della pronunzia della Corte Costituzionale”, come si precisa testualmente) che, se il cittadino è titolare di un diritto soggettivo a conseguire siffatto accertamento, la p.a. si trova, a sua volta, in una “correlativa posizione di obbligo”, la cui violazione è azionabile in giudizio.

Fatta questa condivisibile e doverosa precisazione, che invece il Tribunale di Ancona solo implicitamente aveva compiuto accogliendo il ricorso (per quanto negando in motivazione l'esistenza di siffatto diritto iure civili), la pronunzia, oltre a disporre la compensazione delle spese di giudizio, pur a fronte della soccombenza di ASUR Marche come emergente all'esito del procedimento, ha respinto la richiesta di coercizione indiretta avanzata ex art. 614-bisc.p.c. (di pagamento della somma di € 500 per ogni giorno di ritardo), sul presupposto dell'insussistenza del “pericolo di un'ulteriore stasi da parte di ASUR e del comitato etico”.

Criticamente su questa statuizione si osserva che il giudicato del Tribunale di Ancona risalente a giugno 2021, che aveva ordinato alla p.a. di compiere gli accertamenti sulla condizione personale del paziente ricorrente, non deponeva certo per alcuna forma di “attivismo” da parte della struttura sanitaria, se è vero ad oltre sette mesi dalla pronunzia, il paziente ancor oggi attende che gli accertamenti ordinati dal giudice vengano effettivamente compiuti dal S.S.N.N.

III. Quello che anche in questa sede va rimarcato è un ulteriore profilo di criticità della decisione fermana, per quanto il ragionamento giuridico compiuto costituisca un passo in avanti rispetto a quanto aveva affermato il precedente prossimo.

Il provvedimento d'urgenza, quale misura anticipatoria e cautelare, consente di superare l'inerzia, l'inadempimento, la ritrosia del debitore all'adempimento (in presenza della “minaccia di un pregiudizio imminente ed irreparabile”). In tal caso, l'inadempimento viene sostituito dalla statuizione giurisdizionale che conferisce al richiedente il “bene della vita” negato.

Alla decisione il giudice del procedimento cautelare perviene sulla base di una cognitio sommaria fondata su fumus e periculum, come emergenti ex actis.

Nel caso oggetto di discussione è emerso oltremodo palese l'inadempienza, la resistenza, il rifiuto e l'ottuso ostruzionismo della p.a. all'attuazione dei principi emergenti dai giudicati Cappato, pur in presenza di diffide, atti di messa in mora e non ultima denunzia penale per omissione di atti d'ufficio.

Una situazione già stigmatizzata a livello istituzionale, seppur in termini sfumati (scrive al riguardo il Capo di Gabinetto del Ministero della Salute in data 9 novembre 2021, rivolgendosi alla Conferenza delle Regioni: “le strutture del SS.NN. ed i comitati etici risultano direttamente investiti di una funzione immediatamente attivabile a fronte di eventuali richieste di suicidio medicalmente assistito”, per quanto, si soggiunga, “ciò non abbia avuto pieno riscontro dal punto di vista operativo...”).

Ci si chiede allora come mai il giudicante, in forza della documentazione versata in atti (tra cui una perizia medica di parte) e una volta riscontrata la palese inadempienza della Regione Marche, non abbia direttamente accertato, sempre a livello di fumus, la sussistenza delle quattro condizioni indicate dalla Corte, sostituendosi all'autorità inadempiente; in modo particolare, accertando in capo al ricorrente le condizioni legittimanti il suicidio medicalmente assistito.

In alternativa, il giudicante avrebbe potuto nominare un consulente tecnico d'ufficio che, a sua volta, verificasse nel caso concreto la ricorrenza dei presupposti dedotti in giudizio, con successiva acquisizione del parere del comitato etico. Anche in tal caso il provvedimento d'urgenza avrebbe potuto e dovuto sostituirsi all'accertamento che la p.a. aveva completamente omesso, per quanto vi fosse istituzionalmente tenuta, in modo da garantire al ricorrente il “bene delle vita” che lo stesso a gran voce reclamava.

Rimettere, ancora una volta, l'accertamento all'azienda sanitaria marchigiana che, già nel caso deciso nel mese di giugno 2021, si era mostrata completamente sorda al grido di dolore del paziente, oltrechè inadempiente ad un obbligo istituzionale, latitante al limite dell'ostruzionismo, ci pare non garantire al paziente un servizio giurisdizionale dotato di effettività, in spregio all'enunciato costituzionale in tema di “tutela dei diritti” (art. 24, comma 1, Cost.). Col rischio di procrastinare sine die il soddisfacimento dei diritti dei più fragili, di cui sono titolari i pazienti in condizione di terminalità.

Molteplici sono le posizioni di diritto soggettivo che oggi l'ordinamento riconosce ai pazienti terminali e che rappresentano un vero e proprio “statuto”.

Per diritto positivo competono al morente le seguenti posizioni soggettive
, quali limiti invalicabili all'intervento terapeutico ed a tutela della dignità esistenziale del paziente.

In particolare:

– il diritto di rifiutare le cure (art. 1, comma 5, l. n. 219/2017);

– il diritto a fruire della terapia del dolore (art. 2, l. n. 219/2017).

– il diritto di valersi della sedazione palliative (art. 2, comma 2, l. cit., in fine);

– il diritto a non subire ostinazione irragionevole delle cure (art. 2, comma 2, l. cit.);

– il diritto di godere delle cure palliative, di cui alla l. n. 38/2010 (art. 2, comma 1, l. cit.);

- il diritto di accedere al suicidio assistito, in forza degli enunciati contenuti nella pronuncia della Corte Costituzionale n. 242/2019, in presenza delle quattro condizioni ivi espresse.

- il diritto di redigere il proprio testamento biologico (art. 4 l. cit.), ovvero di partecipare alla pianificazione condivisa delle cure (art. 5 l.cit.).

Garantire ai pazienti terminali una morte dignitosa, secondo la propria individuale autodeterminazione, costituisce una scelta di civiltà, che permette alla medicina di umanizzarsi nei confronti alla persona fragile, bisognosa di solidarietà ed assistenza spirituale più che di cure e terapia ad ogni costo. Il richiamato statuto dei diritti dei terminali costituisce l'indispensabile argine ordinamentale eretto contro la spersonalizzazione e gli abusi della medicina intensiva, che intende mantenere in vita il paziente a qualunque costo, anche sacrificando la sua dignità esistenziale. Secondo questo approccio “intensivista” il decesso del paziente viene vissuto come una sconfitta professionale.

Concludiamo queste note con un'amara riflessione che suscita la vicenda giudiziaria di “Antonio”.

Nella tutela dei diritti civili dei più fragili quali sono i pazienti in terminalità, sembra che la storia intenda ripetersi, nei suoi corsi e ricorsi storici, secondo precise cadenze temporali.

Come ricordano le dolorose ed eclatanti vicende di Pier Giorgio Welby ed Eluana Englaro (rinfocolate dall'esito del caso di “Antonio”) la via crucis giudiziaria sembra costituire tappa obbligata nell'affermazione dei diritti civili dei sofferenti.

Come se i patemi d'animo, le preoccupazioni, le lunghe attese dell'esito del giudizio, non dovessero venire risparmiate neppure a chi, per propria patologica condizione personale di grave fragilità esistenziale, dovrebbe invece esserne, umanamente e cristianamente, esentato, a tutela della primaria dignità esistenziale.

In materia, quindi, il punto migliore di equilibrio rimane quello tra il “non abbandonare” e il “non mortificare” (Cendon).

Riferimenti

Cendon, I diritti dei più fragili, Rizzoli, 2018.

Cappelli, La nozione di trattamenti di sostegno vitale dopo la sentenza n. 242/2019 della Corte Costituzionale: il caso Trentini, in Giust. Civ., 2021 (nota ad Assise Massa 27 luglio 2020);

Castellano, Suicidio di Stato: una discutibile ordinanza propedeutica, in Filo dir., 24 giugno 2021;

Passaro, La rivoluzione clandestina dopo il caso dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021, in Giust. Insieme, 9 luglio 2021;

Masonin, Caso Cappato sviluppi successivi: un idem sentire di idee in fase di affermazione ?, in Dir. Fam. Pers., 2021, 4, 1811 e segg.

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