Per gli enti interrompe la prescrizione anche l'atto nullo

Ciro Santoriello
07 Marzo 2022

In tema di interruzione della prescrizione del reato va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo.
Massima

In tema di prescrizione per la contestazione di illeciti da reato nei confronti di enti collettivi, il principio secondo cui la richiesta di rinvio a giudizio, in quanto atto di contestazione dell'illecito amministrativo, interrompe, per il solo fatto della sua emissione, la prescrizione e ne sospende il decorso dei termini fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, opera anche quando tale atto processuale presenti vizi da renderlo nullo o invalido.

Il caso

Nell'ambito di un procedimento avverso un ente collettivo relativo ad un illecito amministrativo derivante da reato, rappresentato dalle lesioni personali colpose conseguite al mancato rispetto di norme antinfortunistiche ai danni di un dipendente della società imputata, il tribunale di Cremona dichiarava non doversi procedere nei confronti della persona giuridica per essere il suddetto illecito estinto per prescrizione in quanto, stante la nullità dell'originario decreto di citazione, il primo atto di valida costituzione in mora era rappresentato dal decreto di citazione notificato all'ente oltre il quinquennio previsto dalla legge per il compimento del termine prescrizione.

Avverso la suddetta sentenza proponeva ricorso per cassazione la Procura Generale denunciando violazione di legge con riferimento agli artt. 160, comma 1, c.p. e 22 commi 2 e 4 d.lgs. 231/2001 laddove il giudice nel provvedimento impugnato aveva omesso di considerare che la prescrizione era stata interrotta dal primo decreto di citazione a giudizio tempestivamente notificato all'ente prima dei cinque anni previsti, sebbene ritenuto nullo ai fini della costituzione del rapporto processuale in quanto, per costante orientamento del giudice di legittimità lo stesso conservava validità quale atto di costituzione in mora nei confronti dell'ente, ai fini della responsabilità ad esso derivante dalla commissione dell'illecito.

La questione

La disciplina in tema di prescrizione nel processo contro gli enti è dettata dall'art. 22 d.lgs. n. 231/2001 che si differenzia profondamente dal regime della prescrizione previsto nel codice penale. Infatti, per le società il termine di prescrizione è di cinque anni dalla data di consumazione del reato ma quando, prima della scadenza del termine, la prescrizione è interrotta mediante la contestazione dell'illecito amministrativo dipendente da reato allora la stessa non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio.

Le ragioni per cui il legislatore è pervenuto ad una regolamentazione dell'istituto della prescrizione nell'ambito del procedimento contro le persone giuridiche così divergente rispetto al regime che il medesimo istituto ha in sede di processo penale nei confronti di persone fisiche sono rinvenute nella circostanza che da un lato l'illecito dell'ente è un illecito amministrativo e quindi pare opportuno il richiamo a quanto in tema di prescrizione dispone l'art. 28 l. n. 689/1981 e dall'altro che la disciplina contenuta nel d.lgs. n. 231/2001 realizza un adeguato bilanciamento fra le esigenze di durata ragionevole del processo – essendo comunque previsto un termine di prescrizione breve, pari a soli cinque anni dalla consumazione dell'illecito – e le esigenze di garantire un'adeguata completezza dell'accertamento giurisdizionale riferito ad una fattispecie complessa come quella relativa all'illecito amministrativo dell'ente. In particolare, l'effetto di un tale bilanciamento risiede nella tendenziale riduzione del rischio di prescrizione una volta che, esercitata l'azione penale, si instauri il giudizio, con il contrappeso rappresentato dalla ridotta durata del termine di prescrizione, fissato per tutti gli illeciti in cinque anni, termine sensibilmente più breve rispetto a quanto previsto dal codice penale (sul punto, in dottrina Galluccio, Ancora in tema di sospensione condizionale e procedimento penale a carico dell'ente, in Cass. Pen., 2012, 3516; Bendoni, Il rapporto fra confisca per equivalente e prescrizione, ivi, 2014, 1226; Salvatore, L'interruzione della prescrizione nel sistema del d.lgs 231/2001, in Riv. Resp. Amm. Enti,2009, n. 2; Beltrani, La responsabilità dell'ente da reato prescritto (Commento a Cass. pen., n. 21192, 25 gennaio 2013), ivi, 2014, n. 2).

La giurisprudenza è ormai orientata nel senso di ritenere che, ai fini dell'interruzione della prescrizione, è sufficiente che la richiesta di rinvio a giudizio sia stata solo “emessa” dall'autorità giudiziaria senza che sia necessaria che la stessa sia stata anche “notificata” entro cinque anni dalla consumazione del reato presupposto (Cass. pen., sez. VI, 15 gennaio 2020, n. 12278; Cass. pen., sez. III, 1 ottobre 2019, n. 1432; Cass. pen., sez. IV, 9 aprile 2019, n. 30634; Cass. pen., sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012; Cass. pen., sez. V, 22 settembre 2015, n. 50102. In senso contrario, Cass. pen., sez. VI, 12 febbraio 2015, Buonamico, in Mass. Uff., n. 263171). In particolare, secondo quest'ultimo orientamento deve considerarsi risolutivo il rinvio dell'art. 59 d.lgs n. 231/2001 all'art. 405 comma 1 c.p.p., che individua fra gli atti di contestazione dell'illecito la richiesta di rinvio al giudizio, ovverosia un atto la cui efficacia prescinde dalla notifica alle parti, posto che «il richiamo che la legge delega effettua alle norme del codice civile non consente di trasformare la richiesta di rinvio a giudizio in un atto recettizio, in assenza di ogni indicazione normativa al riguardo; del pari, non è consentito interpolare la norma riconducendo l'effetto interruttivo alla notifica dell'avviso di udienza, ovvero ad un atto a cui la legge non riconosce tale effetto»; di conseguenza, anche nell'ambito del procedimento verso gli enti collettivi, deve ritenersi operante la giurisprudenza secondo cui «in tema di interruzione della prescrizione del reato, va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo. Gli atti interruttivi della prescrizione, infatti, hanno valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza nello Stato dell'interesse punitivo» (Cass. pen., sez. V, 2 febbraio 1999, n. 1387).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato accolto, con annullamento con rinvio della decisione impugnata.

La ragione della decisione risiede nell'affermazione, costante in giurisprudenza, secondo cui in tema di interruzione della prescrizione del reato va riconosciuta anche agli atti processualmente nulli la capacità di conseguire lo scopo. Gli atti interruttivi della prescrizione hanno infatti valore oggettivo, in quanto denotano la persistenza dello Stato a perseguire il reato e comunque a porre in luce l'interesse punitivo (Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 1998 n.1387; Cass. pen., sez. III, 19 marzo 2015, n.29081), sicché l'atto interruttivo della prescrizione, pure quando sia nullo, conserva la sua efficacia, siccome univocamente idoneo manifestare la volontà punitiva dello Stato (Cass. pen., sez. III, 24 ottobre 2007, n. 43836).

Questi principi secondo la decisione in commento risultano applicabili anche nell'ipotesi di cd. reato degli enti, in quanto l'interruzione della prescrizione è posta a presidio della tutela della pretesa punitiva dello Stato, sicché il regime non può che essere quello previsto per l'interruzione della prescrizione nei confronti dell'imputato e coincidere con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, in modo del tutto indipendente dalla sua notificazione (Cass. pen., sez. II, 20 giugno 2018, n. 41012). D'altronde, la giurisprudenza ha più volte affermato che il rinvio alle norme del codice civile, pure contenuto alla lettera r) dell'art. 11 della legge delega n. 300/2000, argomento utilizzato dall'indirizzo minoritario a sostegno della tesi secondo cui l'effetto interruttivo debba essere ricondotto alla notificazione della richiesta di rinvio a giudizio (o più in generale dell'atto di contestazione), vada nondimeno inteso facendo riferimento al regime previsto dall'art. 2945, comma 2, c.c., nel senso che, una volta interrotta la prescrizione, con l'emissione della richiesta di rinvio a giudizio, essa «non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio». Tale interpretazione del richiamo normativo vale ad escludere qualsiasi riferimento della disposizione in esame al dies a quo della produzione degli effetti dell'atto interruttivo, valendo la stessa a fissare il contenuto e la durata di quegli effetti, rispetto ai quali, diversamente da quanto previsto per la prescrizione del reato ai sensi dell'art. 160 c.p., l'interruzione impedisce la decorrenza del termine prescrizionale fino a che il giudizio penale non sia terminato.

Viene inoltre sottolineato che la scelta legislativa di far riferimento alla disposizione civilistica, anziché alle previsioni di cui all'art. 160 c.p., deriva dalla natura della pretesa punitiva che sanziona la violazione da parte dell'impresa di norme che implicano limiti di compatibilità dell'azione imprenditoriale con l'interesse generale, come espresso dall'art. 41 Cost., il quale non può declinare di fronte al vantaggio dell'attività d'impresa. Siffatta prevalenza determina la necessità del ricorso ad una normativa – quella civilistica appunto – che renda indifferente il tempo del processo penale all'irrogazione della sanzione, al fine di non stravolgere priorità collettive, costituzionalmente garantite (Cass. pen., sez. IV, 12 luglio 2019 30634).

Sulla base di tali considerazioni viene escluso che alla eventuale invalidità della richiesta di rinvio a giudizio dell'imputato, con citazione altresì dell'ente responsabile dell'illecito, in quanto non preceduta da specifici adempimenti a garanzia dei soggetti interessati (nel caso di specie si era riscontrata la mancata notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari), possa essere riconosciuto un effetto preclusivo alla interruzione della prescrizione, tenuto conto della lettera dell'art. 160 comma 2 c.p., della giurisprudenza di legittimità in tema di prescrizione e dello specifico indirizzo giurisprudenziale che riconosce l'applicazione della norma di rito processual-penalistica anche agli atti di contestazione della responsabilità degli enti ai sensi degli artt. 59 e 22, commi 2 e 4 d.lgs. 8 Giugno 2001 n. 231.

Considerazioni conclusive

La sentenza della Cassazione non presenta profili di novità giacché ribadisce principi consolidati in tema di rilevanza, ai fini dell'interruzione della prescrizione, dell'atto processuale invalido (purché non inesistente). Da ultimo, Cass. pen., sez. 1 luglio 2021, n. 40996. In dottrina, accenni critici in Alesiani, Principio di legalità e prescrizione a confronto: la risposta delle sezioni unite alle oscillazioni giurisprudenziali, in Giur. It., 2002, 577; Ferrari, Quegli atti interruttivi della prescrizione. Perchè non si può aggirare la tipicità, in Dir. Giust., 2006, 45, 81), unitamente alla riaffermazione della posizione secondo cui nell'ambito del procedimento de libertate è sufficiente, per l'interruzione della prescrizione la sola emissione della richiesta di rinvio a giudizio nei confronti dell'ente.

Rimane invece ancora inesplorato il tema relativo all'applicabilità, per gli enti collettivi, dell'art. 344-bis c.p.p. giusto il quale la mancata definizione dei giudizi di impugnazione di appello e cassazione entro limiti temporali predeterminati dal legislatore comporta l'improcedibilità dell'azione penale.

Secondo l'Ufficio del Massimario presso la Corte di cassazione la riforma che ha introdotto il citato art. 344-bis «ha avvicinato i due modelli di prescrizione [quello previsto per le persone fisiche e la disciplina relativa alle società], pur senza renderli del tutto omogenei [giacché] pur essendo diversi i momenti e i fattori processuali che determinano la definitiva interruzione del corso della prescrizione, per entrambe le forme di responsabilità l'effetto estintivo dell'illecito non può sopraggiungere durante l'intera durata del giudizio, fino alla sentenza definitiva, bensì si può realizzare solo in una fase iniziale (prima della sentenza di primo grado, per il reato, o della contestazione, per l'illecito amministrativo). In definitiva, pur differendo il dies ad quem, per entrambe le forme di responsabilità attualmente vale la regola per cui, al verificarsi dell'atto che comporta la definitiva interruzione del decorso del termine, questo non riprende più il suo corso».

Alla luce di queste considerazioni, si conclude per l'applicabilità dell'art. 344-bis c.p.p. anche al processo nei confronti degli enti. A sostegno di tale tesi, in primo luogo si evidenzia la natura processuale della disposizione in discorso che dà vita ad un istituto – quello dell'improcedibilità dell'azione – che, pur avendo innegabili risvolti sostanziali, opera all'interno del processo, determinandone l'impossibilità della prosecuzione, con il che l'art. 344-bis c.p.p.in discorso sarebbe immediatamente applicabile anche al processo de societate stante il richiamo previsto dall'art. 34 d.lgs. n. 231/2001, non rivenendosi ragioni per sostenere che la nuova previsione del codice di procedura penale sia incompatibile rispetto alle norme del capo III del d.lgs. n. 231/2001. In secondo luogo, escludere l'operatività dell'art. 344-bis c.p.p. con riguardo all'illecito dell'ente – sostenendo, ad esempio, che l'improcedibilità dell'azione sia una disciplina complementare rispetto alla prescrizione del reato e per ciò solo assuma una sua autonoma valenza sicché la prescrizione del reato e l'analogo istituto previsto per la responsabilità degli enti continuerebbero ad essere distinti e tali da non consentire l'innesto della novella normativa – determinerebbe un possibile contrasto con la Carta costituzionale, determinandosi una violazione del principio di parità di trattamento fra ente e persona fisica, entrambi coinvolti in un procedimento che può concludersi con l'applicazione di significative sanzioni, e ragionevole durata del processo escludere, posto che la società sarebbe esposta al rischio di vedersi sottoposto ad un processo per la cui conclusione non è previsto alcun termine “decadenziale”.

Non rappresenterebbe una significativa obiezione a tali conclusioni quella secondo cui l'art. 344-bis c.p.p., prevede che il decorso del tempo determina l'improcedibilità “dell'azione penale”, che viene ad essere esercitata solo nei confronti dell'imputato, in tal modo escludendo dall'ambito applicativo della norma l'azione con la quale si fa valere l'illecito amministrativo. In primo luogo, l'equiparazione operata dallo stesso legislatore dell'ente all'imputato e l'estensione della disciplina processuale avrebbe comportato una sostanziale assimilazione dell'azione propriamente penale rispetto a quella che attiva il procedimento a carico dell'ente, dato che l'iniziativa è rimessa al medesimo organo e l'iter processuale che ne consegue è retto dalla stessa disciplina. Inoltre, il riferimento all'azione penale contenuto nell'art. 344-bis c.p.p. avrebbe, secondo la posizione che stiano esaminando, una scarsa portata definitoria giacché la norma, più che incidere sull'esercizio dell'azione che, evidentemente, una volta intervenuta, ha esaurito il suo effetto propulsivo, avrebbe voluto introdurre un'ipotesi impeditiva rispetto alla prosecuzione del giudizio nel senso che il decorso del tempo escluderebbe che il giudizio possa giungere al suo esito naturale, senza che ciò incida sull'azione a suo tempo esercitata.

Ci sono ragioni per dubitare della fondatezza di queste osservazioni che non considerano come il legislatore fin dal momento dell'introduzione della normativa in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi abbia inteso regolamentare l'istituto della prescrizione in termini radicalmente diversi rispetto a quanto dispone la medesima disciplina con riferimento alla persona fisica. Questa considerazione rende irrilevante l'argomento secondo cui escludere l'applicabilità dell'art. 344-bis c.p.p. alle persone giuridiche darebbe luogo ad una (ingiustificata e censurabile) disparità di trattamento rispetto alla posizione dell'imputato persona fisica, giacché tale diversità di disciplina è stata ab origine voluta ed indicata dallo stesso legislatore, come dimostrato dalla circostanza che l'art. 22 d.lgs. n. 231/2001 – peraltro tuttora vigente – segue le cadenze proprie del giudizio civile o del processo amministrativo. Né si può ora sostenere, sulla scorta della mera introduzione nel codice penale dell'art. 344-bis c.p.p., che tale differenza fra le due regolamentazioni rappresenti una violazione del dettato costituzionale posto che è stata la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione aver escluso più volte, come detto sopra, che tale divaricazione si pone in contrasto con la Carta fondamentale e non si vede per quale ragione tale conclusione debba essere oggi abbandonata.

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