Il regime processuale della c.d. domanda trasversale

Antonio Lombardi
21 Marzo 2022

La Corte di cassazione affronta le delicate – e poco arate – questioni processuali relative alla domanda c.d. trasversale, ossia quella che un convenuto può proporre nei confronti dell'altro.
Massima

Nel processo civile, caratterizzato da un sistema di decadenze e preclusioni, conseguente alla novella di cui alla l. 353/1990 e successive plurime modifiche e integrazioni, un convenuto può proporre una domanda nei confronti di altro soggetto, pure convenuto in giudizio dallo stesso attore, in caso di comunanza di causa o per essere da costui garantito, facendo a tal fine istanza con la comparsa di risposta tempestivamente depositata a norma degli artt. 166 e 167 c.p.c. e procedendo quindi ai sensi dell'art. 269 c.p.c., previa richiesta al giudice di differimento della prima udienza allo scopo di provvedere alla citazione dell'altro convenuto nell'osservanza dei termini di rito.

ll caso

Le questioni esaminate dalla Cassazione originano dalla proposizione di motivo di ricorso ai sensi dell'art. 360, n. 4, c.p.c., concernente la denunciata violazione o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 167 c.p.c. Il ricorrente lamentava, in particolare, che la domanda subordinata c.d. riconvenzionale trasversale, che aveva proposto, in qualità di convenuto nei confronti di altro convenuto, fosse tempestiva, benchè proposta nella memoria di costituzione e risposta depositata all'udienza di comparizione, risultando l'udienza rinviata per vizio di notificazione nei confronti dell'altro convenuto, destinatario della domanda trasversale. Quest'ultimo, pertanto, secondo quanto dedotto dal ricorrente, avrebbe beneficiato di un congruo termine per costituirsi e contraddire alla domanda trasversale.

La Corte territoriale aveva ritenuto inammissibile la domanda trasversale, sul presupposto che la stessa avrebbe dovuto essere proposta nella comparsa di costituzione e risposta, depositata tempestivamente, avuto riguardo ai termini di cui all'art. 166 c.p.c., facenti riferimento all'udienza originariamente fissata.

La questione

Prendendo spunto dal motivo proposto, la Corte esamina la «delicata questione processuale» dei tempi e modalità di proposizione della c.d. domanda riconvenzionale impropria o trasversale nel rito civile ordinario. Tale domanda, priva di espressa definizione e regolamentazione nel codice di rito, è quella proposta da parte di uno dei convenuti nei confronti di altro soggetto già evocato in giudizio dall'attore (c.d. coevocato).

Le questioni nodali, concernenti la domanda trasversale, sono di un duplice ordine, e risultano inscindibilmente collegate tra di loro.

In primo luogo, sotto il profilo dell'ammissibilità sostanziale, occorre chiedersi se tale domanda ricada nell'alveo di applicazione dell'art. 36 c.p.c., disciplinante la riconvenzionale in senso stretto e proprio, che ne confina l'ammissibilità alla dipendenza dal titolo dedotto in giudizio dall'attore o appartenente alla causa quale mezzo di eccezione, ovvero se il riferimento dogmatico sia rappresentato dall'art. 106 c.p.c., che regolamenta la chiamata di terzo in causa, condizionandola alla ricorrenza della comunanza di cause o alla sussistenza di un rapporto di garanzia.

Sotto il connesso profilo del regime processuale, trattandosi di domanda svolta nei confronti di soggetto già evocato in giudizio, all'infuori dell'ipotesi in cui il destinatario di tale domanda risulti contumace, ci si interroga sulla necessità di un differimento dell'udienza sulla falsariga di quanto previsto nel rito civile dall'art. 269 c.p.c., sulla base dell'assimilazione alla chiamata di terzo in causa. Viceversa, in caso di equiparazione alla domanda riconvenzionale, il differimento di udienza avrà luogo nel solo ambito del rito del lavoro per effetto del meccanismo di cui all'art. 418 c.p.c.

Le soluzioni giuridiche

La migliore dottrina processuale ha evidenziato, in merito alla prima questione, la sostanziale affinità esistente tra la domanda proposta da un convenuto nei confronti di un altro e quella che lo stesso convenuto potrebbe proporre contro un soggetto terzo e ne ha ritenuto l'ammissibilità nei limiti di cui all'art. 106 c.p.c., quando essa è comune con quella già proposta dall'attore o è diretta a riversare sul terzo garante il peso economico dell'eventuale soccombenza dell'originario convenuto.

Diversamente, l'accostamento della fattispecie alla riconvenzionale, da intendersi, in senso rigoroso, quale domanda proposta dal convenuto nei confronti dell'attore del medesimo processo, soggetta ai limiti di cui all'art. 36 c.p.c., appare del tutto improprio, non potendosi assimilare l'espressione del diritto di azione da parte di un soggetto processuale, che ha come destinatario chi ha agito nei suoi confronti, all'iniziativa assunta da un soggetto nei confronti di un terzo, caratterizzata dall'attuale presenza del terzo nel processo, quale coevocato giudiziale.

La domanda di un convenuto contro l'altro, strutturalmente riconducibile all'azione nei confronti del terzo chiamato, finisce dunque con lo scontare gli stessi limiti di ammissibilità previsti dall'art. 106 c.p.c., dovendosi verificare il presupposto della «comunanza di causa», capace di includere una notevole varietà di fattispecie, ovvero della richiesta di garanzia.

Così, come evidenziato dalla Corte, la domanda tra convenuti sarà ammissibile, in caso di connessione per il titolo o per l'oggetto tra il diritto fatto valere dal convenuto e quello dedotto in giudizio dall'attore in via principale, oppure nell'ipotesi in cui il convenuto come debitore solidale o parziale, domandi che si accerti l'esclusiva responsabilità di un altro litisconsorte, o ancora allorché il convenuto pretenda di essere garantito dall'altro coevocato dalle conseguenze della sua soccombenza nei confronti dell'attore.

In merito alla seconda questione, Cass. civ., sez. III, sent., 26 ottobre 2017, n. 25415, in conformità con le elaborazioni teoriche della dottrina maggioritaria, aveva ritenuto inapplicabile il meccanismo dell'art. 269 c.p.c. (citazione del terzo e differimento dell'udienza), sulla base dell'assenza di necessaria applicazione di tale meccanismo nel caso di domanda rivolta nei confronti di soggetto che, sotto il profilo processuale, ha già assunto la qualità di parte, con conseguente non assimilabilità della posizione processuale di tale parte, agli effetti della concessione del termine a comparire di cui all'art. 163- bis c.p.c., a quella del soggetto estraneo al giudizio.

Secondo altra tesi, originariamente espressa da Cass. civ., sez. III, sent., 12 aprile 2011, n. 8315, la necessità di differimento e di chiamata diverrebbe attuale nelle circostanze in cui la domanda trasversale non si fonda sul medesimo titolo su cui si basa la domanda dell'attore, ma su di un diverso rapporto (tra cui la garanzia impropria), mentre, nel caso di medesimezza del titolo, ai sensi dell'art. 36 c.p.c., il regime sarebbe quello proprio della domanda riconvenzionale, che non necessita, quantomeno nell'ambito del rito ordinario, di differimento dell'udienza di prima comparizione.

La soluzione espressa dalla Corte nella pronuncia in commento, muove, tuttavia, dall'osservazione che la domanda svolta da un convenuto nei confronti dell'altro, in considerazione dell'analogia strutturale ed ontologica tra istituti, non può che scontare, sotto il profilo sostanziale, i limiti di ammissibilità non dell'art. 36 c.p.c., che reca la disciplina della riconvenzionale, bensì dell'art. 106 c.p.c., che pertiene alla chiamata di terzo in causa, e presuppone la sussistenza della comunanza di cause, nel senso innanzi evidenziato. Il concetto di «terzo», dunque, deve essere interpretato in senso estensivo, quale soggetto estraneo al rapporto processuale principale incardinato tra attore e convenuto, e non quale soggetto esterno al processo pendente.

Posta la questione in questi termini, secondo la Corte sarebbe illogico non applicare, nel rito ordinario, il modello posto dagli artt. 167, comma 3, e 269 c.p.c., quanto alle modalità di proposizione e alla tutela dei diritti di difesa del destinatario, non sussistendo alcuna valida ragione per negare al destinatario della trasversale il godimento di un termine a comparire, in considerazione delle decadenze che verrebbero a maturare.

Osservazioni

Il modello proposto dalla Corte contempla, dunque, l'applicazione alla domanda trasversale, nell'ambito del rito ordinario di cognizione, del sistema complesso riferibile agli artt. 106, 167, comma 3 e 269 c.p.c., sintetizzabile nella necessaria ricorrenza della comunanza di cause o del rapporto di garanzia, nel rispetto delle preclusioni processuali e nella necessità di istanza di differimento dell'udienza, per garantire al terzo destinatario un'adeguata difesa.

Tale regime processuale viene ritenuto dalla Corte da un lato rispettoso delle affinità processuali tra istituti e, dall'altro, dell'esigenza di efficace e tempestiva informazione del convenuto contro cui la domanda è proposta, funzionale allo svolgimento del diritto di difesa di tale parte, rispetto alle quali l'esigenza dell'attore di non vedere ritardate le cadenze processuali, destinate a condurre il processo a definizione, appare cedevole.

Sul versante del rito del lavoro, la non assimilazione della trasversale alla domanda riconvenzionale induce ad escludere il meccanismo congegnato dall'art. 418 c.p.c., prevedente la necessità di proposizione di istanza di differimento dell'udienza da parte di chi svolge la trasversale, a pena di decadenza, e del connesso rinvio ad altra udienza con concessione di termine per il deposito di memoria difensiva, appannaggio del destinatario della domanda, secondo il meccanismo elaborato dalla Corte cost., sent., 14 gennaio 1977, n. 13.

La rilevata affinità con l'istituto della chiamata di terzo indurrebbe, comunque, a ritenere applicabile il disposto di cui all'art. 420, commi 9 e 10, c.p.c. che, sia pure in assenza di espressa istanza di parte, prevede il differimento dell'udienza di discussione, con ordine di notificazione della memoria contenente la domanda al destinatario nel rispetto dei termini a comparire di cui all'art. 415 c.p.c., ed onere di deposito di memoria difensiva nel termine di almeno dieci giorni dalla nuova udienza, ai sensi dell'art. 416 c.p.c.

La specialità del rito del lavoro, e le pregnanti esigenze di garanzia delle ragioni di economia processuale e del principio di ragionevole durata del processo, attesa la peculiarità dei diritti in contesa, ha tuttavia indotto la giurisprudenza ad individuare un potere discrezionale del giudice nella valutazione dell'opportunità di dare seguito alle istanze di chiamata di terzo (cfr. ad es. Trib. Roma, sez. lav., 27 febbraio 2018, n. 1457). Il simultaneus processus non avrà, dunque, luogo, nelle circostanze in cui il giudice ritenga che la chiamata del terzo sacrifichi in modo irragionevole l'esigenza del ricorrente ad una rapida definizione della contesa.

In tale prospettiva, non appare irragionevole ipotizzare, quale soluzione processuale che assicuri l'equo contemperamento degli interessi del destinatario della domanda trasversale e dell'attore principale, rispettivamente all'adeguato svolgimento del diritto di difesa ed alla celere definizione della controversia, quella di non procedere d'ufficio al differimento dell'udienza di discussione, al cospetto di una domanda trasversale, procedendovi soltanto nei casi di contumacia del coevocato destinatario della domanda (ai sensi dell'art. 292 c.p.c.) oppure, nel caso di coevocato costituito, laddove costui ne faccia espressa istanza all'udienza ex art. 420 c.p.c., rappresentando l'esigenza di meglio articolare le difese processuali per contrastare la domanda trasversale.

Riferimenti
  • E. Vullo, La domanda proposta da un convenuto contro l'altro: condizioni di ammissibilità, termini e forme, in Giur. It., 2002, 1778
  • V. Morello, Note sulla c.d. domanda trasversale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2013, 389.

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