La nozione di “familiare” nella materia dei colloqui penitenziari

Lorenzo Cattelan
23 Marzo 2022

La questione affrontata dalla Suprema Corte nella pronuncia in commento involge la materia dei colloqui penitenziari ordinari, prevista e disciplinata dagli artt. 18 legge 26 luglio 1975 n. 354 e 37 d.P.R. n. 30 giugno 2000 n. 230.
Massima

La nozione di “congiunto” e di “familiare” prevista nell'ambito della disciplina dei colloqui ordinari di cui agli artt. 18 legge 26 luglio 1975 n. 354 e 37 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 non ricomprende anche la persona che sia convivente non già del soggetto recluso ma di un soggetto appartenente alla "famiglia" del detenuto. Difatti, l'identificazione dell'insieme dei "congiunti" non può che operarsi, anche in ambito penitenziario, con riferimento a quanto previsto dall'art. 307, comma 4, c.p., disposizione che – pure a seguito del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6 – non ricomprende i soggetti legati da vincoli familiari di fatto, avendo l'estensione in parola interessato la sola parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso.

Il caso

I fatti traggono avvio dalla richiesta di un detenuto, ristretto nel circuito di Alta Sicurezza, volta ad ottenere, in via ordinaria, l'ammissione ai colloqui con la convivente del figlio. Sul punto, tanto il Magistrato di Sorveglianza quanto il Tribunale di Sorveglianza territorialmente competenti hanno ritenuto di poter qualificare tale soggetto quale "familiare" del detenuto (e non già quale “terzo”), proponendo così una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata della nozione di nucleo familiare, anche alla luce della intervenuta normativa sulle unioni civili e la famiglia di fatto (cfr. l. 20 maggio 2016, n. 76). In altri termini, secondo gli intervenuti giudizi di merito, in capo a colui che convive con il discendente del detenuto si verrebbe a determinare quello status di "familiare" (previsto dall'art. 18 ord. penit.) per effetto del solo accertamento del richiamato presupposto coabitativo. A tal riguardo, prendendo a prestito quanto elaborato dalla giurisprudenza civile, è utile rammentare che la nozione di convivenza va individuata nel legame stabile tra due persone, connotato da duratura e significativa comunanza di vita.

Tornando al caso che qui ci occupa, oltre ad avanzare una lettura estensiva dell'art. 18 ord. penit., i Giudici di Sorveglianza hanno ritenuto non preclusivi alla ammissione al colloquio taluni rilievi negativi sollevati nel corso dell'istruttoria, a carico della convivente del figlio del detenuto istante, dagli organi di polizia territoriali.

Come anticipato, quindi, il Tribunale di Sorveglianza di L'Aquila, con ordinanza emessa l'8 settembre 2020, ha confermato – respingendo le doglianze del Ministero della Giustizia – la decisione, in tema di ammissione ai colloqui, resa dal Magistrato di Sorveglianza in data 1 aprile 2020.

Avverso tale provvedimento del Tribunale di Sorveglianza, il Ministero della Giustizia, per il tramite della competente Avvocatura dello Stato, ha proposto ricorso per cassazione, contestando l'interpretazione estensiva della l. n. 76/2016 ed affermando che «da tale intervento legislativo non può derivare una totale parificazione delle tutele offerte dall'ordinamento ai membri della famiglia di fatto, con necessario rispetto della tradizionale nozione di prossimi congiunti (ripresa all'art. 307 c.p.)». D'altronde, il ricorrente osserva che la novella del 2016 ha inciso nella materia penitenziaria esclusivamente con riguardo alla parificazione tra il "coniuge" e il convivente di fatto del soggetto recluso (cfr. art. 1, comma 38).

La questione

La questione involge la materia dei colloqui penitenziari ordinari, prevista e disciplinata dagli artt. 18 legge 26 luglio 1975 n. 354 (di seguito “ord. penit.”), e 37 d.P.R. n. 30 giugno 2000 n. 230 (di seguito “reg. esec.”). A tal proposito, va sin da subito chiarito che la dizione “colloqui ordinari” sta ad indicare che, per i familiari del detenuto, l'avvio a tale strumento di mantenimento dei legami affettivi e di contatto con la realtà extramuraria è favorita – ed è autorizzata – salvo particolari ragioni ostative. Diversamente, per i soggetti estranei al nucleo familiare, l'autorizzazione viene concessa «quando ricorrono ragionevoli motivi».

Può il soggetto recluso essere ammesso alla fruizione, in via ordinaria, dei colloqui con soggetti solo in senso lato appartenenti al suo nucleo familiare?

Ulteriori questioni collegate a quella principale:

  • Qual è la nozione di famiglia accolta nell'ordinamento penitenziario?
  • Qual è il regime giuridico applicabile, in tema di colloqui, al soggetto legato al detenuto dal sol fatto di convivere con il di lui figlio?
  • Vi è corrispondenza fra la nozione di “congiunti” richiamata dall'art. 18 ord. penit. e quella prevista in ambito sostanzial-penalistico dall'art. 307 c.p.?
Le soluzioni giuridiche

La Cassazione, con la sentenza in commento, ha accolto il ricorso presentato dal Ministero della Giustizia e, per l'effetto, ha annullato senza rinvio la decisione adottata dal Tribunale di Sorveglianza, che, con un'interpretazione assai estensiva della normativa sopra richiamata, aveva concesso al detenuto di accedere – in via ordinaria – ai colloqui con la convivente del figlio.

In prima battuta, i giudici ricordano la già esposta differenziazione tra colloqui con i familiari ed i colloqui con “altre persone”. Solo in quest'ultimo caso, infatti, è richiesta un'esplicita motivazione nonché la subordinazione della relativa autorizzazione alla presenza di “ragionevoli motivi”. Dal punto di vista sistematico, poi, si ricorda che il legislatore penitenziario, con volontà di restringere ulteriormente la platea dei potenziali fruitori dell'istituto, in relazione al cd. regime di carcere duro indica all'art. 41-bis comma 2-quater lett. b) ord. penit. quali legittimati al colloquio i soli "familiari" e i "conviventi" (salvo, ovviamente, il ricorrere di circostanze eccezionali).

In simile contesto – evidenzia la Cassazione – è intervenuta la l. 20 maggio 2016, n. 76 in particolare l'art. 1, comma 38, che stabilisce: «i conviventi di fatto hanno gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall'ordinamento penitenziario». Si tratta tuttavia di una disposizione che, nell'ambito che qui ci occupa, non ha apportato novità effettive, posto che il riferimento alla "convivenza" era già presente nelle disposizioni regolatrici, in contrapposizione a quello di "congiunti" e "familiari".

Sul punto, è opportuno sottolineare che la cd. Legge Cirinnà ha imposto un adeguamento sistematico dell'ordinamento penale laddove, con riferimento alla nozione di prossimo congiunto, così come previsto dall'art. 307, comma 4, c.p., si è ricompresa anche la figura della “parte di un'unione civile” (cfr. art. 1 lett. a) d.lgs. 6/2017, «Agli effetti della legge penale, s'intendono per i prossimi congiunti gli ascendenti, i discendenti, il coniuge, la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, i fratelli, le sorelle, gli affini nello stesso grado, gli zii e i nipoti: nondimeno, nella denominazione di prossimi congiunti, non si comprendono gli affini, allorché sia morto il coniuge e non vi sia prole»). Come evidenziato in dottrina, tale Riforma ha prodotto conseguenze applicative significative nei confronti di quei casi in cui la posizione personale ha effetti in bonam partem per il responsabile per un fatto astrattamente sussumibile sotto una fattispecie di reato. Ci si riferisce, cioè:

  • alle circostanze attenuanti per la procurata evasione (art. 386, comma 4, c.p.);
  • alla procurata inosservanza di pene o misura di sicurezza (art. 390, comma 2 e 391, comma 1, c.p.);
  • alla scusante per la falsa testimonianza commessa nei confronti di un prossimo congiunto (art. 384 c.p.).

Alcuni autori, tuttavia, in merito agli effetti della riforma del diritto di famiglia in materia penale, hanno osservato come il legislatore sia rimasto inerte nei confronti delle coppie di fatto, salvo le ipotesi tassative di volta in volta considerate. Ad esempio, il delitto di maltrattamenti (art. 572 c.p.) a seguito della modifica operata dall'art. 4 legge 1 ottobre 2012, n. 172, da Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, si è trasformato in Maltrattamenti contro familiari e conviventi, e punisce, oggi, «chiunque […] maltratta una persona della famiglia o comunque convivente». La modifica di tale disposizione è frutto, evidentemente, dell'adeguamento delle norme penali alla mutata realtà sociale fatta non solo di vincoli formali, ma anche di rapporti di fatto, stabili e duraturi. Proprio nella medesima prospettiva, poi, si inserisce il menzionato art. 1, comma 38, legge Cirinnà, che – in ambito penitenziario – ha previsto gli stessi diritti del coniuge anche al convivente.

La Cassazione, alla luce di quanto esposto, ha sostenuto che «l'identificazione dell'insieme dei "congiunti" non può che operarsi – anche in ambito penitenziario – in riferimento a quanto previsto dall'art. 307 comma 4 c.p. disposizione che – pure a seguito del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6 – non ricomprende i soggetti legati da vincoli familiari di fatto, essendo stata – l'estensione in parola – limitata alla parte di una unione civile tra persone dello stesso sesso. La interpretazione del complesso delle disposizioni in precedenza citate non può condurre, pertanto, a ritenere titolare della facoltà di colloquio "ordinario" una persona che sia convivente non già del soggetto recluso (aspetto pacifico già prima e solo rafforzato dalla previsione contenuta all'art. 1, comma 38, l. n. 76/2016) ma che sia convivente di un soggetto appartenente alla "famiglia" del detenuto».

In definitiva, la pronuncia in commento ritiene non superabile, in chiave ermeneutica, il cd. "doppio limite" derivante da un lato dal testo dell'art. 307 comma 4 c.p. la cui estensione a situazioni diverse dalla famiglia basata sul matrimonio è limitata alle unioni civili, dall'altro dalla stesso contenuto del citato comma 38 (art. 1 l. n. 76/2016,), incidente sul settore specifico dell'ordinamento penitenziario e teso a parificare i diritti del convivente con quelli del coniuge, in ciò riferendosi alla necessità di tutelare la diretta relazione interpersonale (convivenza/coniugio) e non le relazioni di fatto di tipo indiretto.

Osservazioni

La regolamentazione dei colloqui penitenziari (art. 18 ord. penit., a cui va aggiunto l'art. 37 reg. esec.) va esaminata, come visto, prendendo in considerazione quali sono gli interlocutori (familiari, altre persone, difensore, garante dei diritti dei detenuti, autorità investigative), dato che il tipo di rapporto esistente col detenuto influisce sulla ragion d'essere del colloquio, e, in secondo luogo, la forma di comunicazione (colloquio visivo, telefonico o tramite programmi di videochiamata):

a) i familiari del detenuto, ricomprendenti il coniuge, la persona che conviveva stabilmente con lui prima della carcerazione o che a lui era legata da unione civile, e tutti coloro che vantano un rapporto di parentela o affinità entro il quarto grado, determinato ai sensi degli artt. 74-18 c.c. Il comma 4 dell'art. 18 prevede che debba essere accordato «particolare favore» ai colloqui con i familiari. Tale particolare favore si riflette sulla configurazione del colloquio con i familiari alla stregua di un diritto soggettivo del detenuto, nel senso che l'autorità competente a decidere sull'autorizzazione ha un limitatissimo potere di negarla. Inoltre, solo per i colloqui con i congiunti e i conviventi è consentita la comunicazione via Skype e valgono le facilitazioni previste dall'art. 37 comma 10 reg. esec. Infine, grazie ad una innovazione da ricondurre al d.lgs. 123/2018, viene precisato che i locali destinati ai colloqui con i familiari «favoriscono, ove possibile, una dimensione riservata del colloquio e sono collocati preferibilmente in prossimità dell'ingresso dell'istituto».

b) le altre persone, vale a dire quanti, al di fuori della cerchia familiare, sono legati al detenuto da rapporti affettivi (ad esempio, la fidanzata non convivente) o di amicizia, oppure coloro che il detenuto ha necessità di incontrare per il compimento di atti giuridici. Per tutti costoro l'autorizzazione viene concessa «quando ricorrono ragionevoli motivi» (art. 37 reg. esec.).

La soluzione adottata dalla Suprema Corte con la sentenza in commento appare rispettosa del dettato normativo e dei recenti approdi giurisprudenziali elaborati in ambito processual-penalistico. D'altra parte, l'utilizzo dell'espressione “familiari” all'interno dell'art. 18 ord. penit. non può essere inteso come rimando ad un'entità giuridica ultronea rispetto a quanto si ricava dalle altre branche dell'ordinamento. Conseguentemente, non v'è alcuna ragionevole motivazione per introdurre nella materia penitenziaria una nozione di “congiunti” diversa da quella elaborata e, soprattutto, positivizzata all'art. 307 c.p.

A ben vedere, la portata della nozione “familiari” (richiamata anche nella materia dei colloqui penitenziari) ha ragionevolmente occupato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale relativamente all'equiparabilità del coniuge al convivente more uxorio. Ulteriori dilatazioni della categoria in parola, oltre a comportare incertezze applicative (dal momento che richiedono un accertamento in concreto da parte del giudice) non paiono nemmeno trovare una base normativa di sostegno.

In una prospettiva di più ampio respiro, quindi, l'equiparabilità del coniuge al convivente more uxorio era stata affrontata già prima dell'intervento della legge Cirinnà, sia a livello nazionale (Corte di Cassazione e Corte costituzionale) sia sul piano europeo. Si pensi, in questo senso, ai seguenti approdi giurisprudenziali interni:

  • Cass. pen., sez. un., 26 novembre 2020 (dep. 16 marzo 2021), n. 10381, secondo cuil'art. 384, comma 1, c.p., in quanto causa di esclusione della colpevolezza, è applicabile analogicamente anche a chi ha commesso uno dei reati ivi indicati per esservi stato costretto dalla necessità di salvare il convivente more uxorio da un grave e inevitabile nocumento nella libertà e nell'onore;
  • allargando l'analisi all'esimente di cui all'art. 649 c.p., altra giurisprudenza di legittimità, in maniera pressoché analoga, ha riconosciuto l'operatività della causa di esclusione della punibilità, prevista in materia di reati contro il patrimonio, per il coniuge non legalmente separato e la parte di un'unione civile tra persone dello stesso sesso, anche in favore del convivente more uxorio (Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2004, n. 22398; Cass. pen., sez. IV, 6 agosto 2009, n. 32190; Cass. pen., sez. V, 30 settembre 2015, n. 39480);
  • con riguardo alla giurisprudenza costituzionale, invece, il richiamo corre alla sentenza Corte cost. n. 416/1996, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 384, comma 2, c.p., nella parte in cui non prevedeva che la violazione dell'obbligo d'informazione previsto dall'art. 199, comma 2, c.p.p. comportasse l'esclusione della responsabilità anche nei confronti del convivente per fatti, evidentemente, verificatisi o appresi durante la convivenza.

In definitiva, la nozione di congiunto è giuridicamente accostabile al solo convivente more uxorio, attesa la precisa ratio che guida la normativa di riferimento. Come precisato dalla giurisprudenza (anche costituzionale), la nozione di famiglia accolta dalla disposizione della Cedu (art. 8 Cedu) non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su diversi legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La coabitazione, quindi, deve coinvolgere i soggetti interessati e non può estendersi in via indiretta anche ai conviventi dei discendenti o – più in generale – degli altri componenti il nucleo familiare originario.

Ne deriva che il particolare favore con cui l'ordinamento penitenziario saluta i colloqui con i “familiari” non riguarda anche persone ulteriori rispetto a quelle contemplate nell'art. 307, comma 4, c.p. Conseguentemente, per i soggetti estranei al nucleo familiare del detenuto si apre la via dei colloqui solo dopo aver assolto l'onere di indicazione di “giustificati motivi” e, naturalmente, dopo aver ottenuto l'autorizzazione da parte della competente Autorità (salva la disciplina in materia di colloqui investigativi, per gli imputati fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio, le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica e agli altri tipi di comunicazione sono di competenza dell'Autorità Giudiziaria procedente; dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, invece, provvede il Direttore dell'istituto).

Guida all'approfondimento
  • Bartoli, Unioni di fatto e diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., fasc.4, 2010, pag. 1599;
  • Cattelan, Corrispondenza del detenuto, in ilpenalista.

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