Il codice deontologico dei giornalisti per la protezione dei dati personali nel panorama della responsabilità civile del giornalista

Rita Tuccillo
28 Marzo 2022

Il contributo analizza una pronuncia della Corte di Cassazione in tema di responsabilità del giornalista e dell'editore per lesione del diritto alla riservatezza e all'immagine derivante dalla pubblicazione della foto di una minore senza consenso, attraverso l'esame di due direttrici: l'evoluzione del diritto di cronaca e il ruolo del codice deontologico dei giornalisti in materia di trattamento dei dati personali nella valutazione della diligenza professionale e nel giudizio di responsabilità del giornalista.
Il caso

Il caso deciso dalla Corte di cassazione affronta il tema della responsabilità del giornalista e dell'editore per lesione del diritto alla riservatezza e all'immagine derivante dalla pubblicazione della foto di una minore senza consenso.
In particolare, i genitori lamentavano l'avvenuta pubblicazione di foto, senza consenso, della minore in stato vegetativo in ospedale in compagnia di un noto calciatore, che le aveva fatto visita. In questa decisione, il collegio individua i limiti del diritto di cronaca e le fonti da cui gli stessi sono posti facendo riferimento non solo al codice civile e al codice della privacy - in particolare l'art. 137 - ma anche al codice deontologico dei giornalisti per il trattamento dei dati personali. L'ordinanza si sofferma, in particolare, sull'esame delle categorie della utilità pubblica e della essenzialità dell'informazione trasmessa, attribuendo al fine della loro determinazione un ruolo centrale al contesto di riferimento: l'utilità e l'essenzialità dell'informazione trasmessa andrebbero cioè calibrate in base all'articolo scritto e parametrate al tipo di periodico o di giornale che le ospita.

L'ordinanza in commento richiede l'esame di due direttrici: l'evoluzione del diritto di cronaca e il ruolo del codice deontologico dei giornalisti in materia di trattamento dei dati personali nella valutazione della diligenza professionale e nel giudizio di responsabilità del giornalista (Giorgianni, Buon padre di famiglia, in Novissimo Dig. It., II, Torino, 1957, 596 e ss. C. M. Bianca, voce Negligenza (diritto privato), in Nuovissimo Digesto Italiano, vol. XI, Torino, 1965, p. 190 e Dell'inadempimento delle obbligazioni, in Commentario Scialoja e Branca (a cura di) (Artt. 1218- 1229), 1979, 24).

Il diritto di cronaca e la essenzialità della informazione

La libertà di manifestazione del pensiero, di cui rappresentano corollari la libertà di stampa e di informazione, è considerata una delle pietre angolari della democrazia; una garanzia insopprimibile per tutti gli esseri umani in una società libera, democratica e pluralista. Questa libertà benché insopprimibile non è tuttavia priva di limiti, soprattutto quando collima con altri diritti, ugualmente fondamentali, della persona (M. PROTO, Il diritto e l'immagine. Tutela giuridica del riserbo e dell'icona personale, Milano, 2012).

L'art. 21 della Costituzione, nel garantire a “tutti” il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ne individua un primo limite, rappresentato dalla esigenza di rispettare il buon costume. Tuttavia, l'ordinamento giuridico introduce limiti ulteriori, “stante la necessità di tutelare beni diversi, parimenti garantiti dalla Costituzione”. Come precisato dalla Corte costituzionale fin dalla prima pronuncia, infatti, “il concetto di limite è insito nel concetto di diritto” e “nell'ambito dell'ordinamento le varie sfere giuridiche devono di necessità limitarsi reciprocamente perché possano coesistere nell'ordinata convivenza civile” (Corte Cost. 5 giugno 1956, n. 1, in Gazz. Uff., 14.6.1956, n. 146). Ciò implica il compimento, da parte del legislatore, di un giudizio di bilanciamento tra i valori contrapposti, diretto a stabilire, secondo criteri di ragionevolezza, quale di essi sia da considerare prevalente, peraltro non sino al punto che il diritto soccombente “ne risulti snaturato o ne sia reso arduo o addirittura impossibile l'esercizio”.

Argomentando in tal senso, le situazioni giuridiche idonee a giustificare limitazioni alla libertà di espressione possono essere individuate, da un lato, nell'ambito dei c.d. “diritti della personalità” - diritto alla riservatezza, all'onorabilità, alla reputazione, alla dignità sociale – e, dall'altro, nell'ambito di interessi di natura pubblicistica, come quelli concernenti l'amministrazione della giustizia e la sicurezza dello Stato.

Muovendo da questi principi la giurisprudenza di legittimità (Cass., sez. III, ord. 5 novembre 2018, n. 28084) ha elaborato e sviluppato i criteri di bilanciamento fra tutela dei diritti della personalità e il diritto - dovere di cronaca. Risale al 1984 la sentenza (n. 5259, in Foro It., 1984, I, 2711) della Corte di cassazione che ha individuato i limiti all'esercizio del diritto di cronaca giornalista, fissando il cd. decalogo del giornalista. Tra i criteri individuati dalla Cassazione, quale confine tra uso e abuso del diritto di cronaca, assumono rilievo in questa sede la pertinenza e la essenzialità dell'informazione. Con questi termini si intende far riferimento alla utilità sociale della notizia e alla rilevanza sociale della stessa, che giustificano la divulgazione di fatti, circostanze o immagini anche in violazione dei diritti della personalità. Le oscillazioni della giurisprudenza sotto questo profilo testimoniano, peraltro, la difficoltà di distinguere in concreto fra notizie che presentano indubbio interesse per la collettività in ragione della rilevanza morale o sociale dell'argomento e notizie che tale rilevanza non hanno. A ciò si aggiunga che gli artt. 136 e art. 137 cod. privacy - pure richiamati nella ordinanza in commento - proprio nel prioritario rispetto della libertà di cronaca, consentono il trattamento dei dati personali senza il consenso dell'interessato a condizione che sia rispettata la finalità della essenzialità dell'informazione e l'interesse pubblico della notizia.

Ebbene la difficoltà di conferire ai criteri della pertinenza ed essenzialità delle informazioni un contenuto oggettivo risulta ancor più evidente quando le notizie riguardano la cronaca scandalistica, ossia quando all'interesse dei consociati non corrisponde una rilevanza morale, politica o sociale strictu sensu dell'informazione, ma la curiosità sulle vicende di un personaggio noto.

In questa ipotesi diviene, infatti, più complesso individuare il bilanciamento tra il diritto alla riservatezza garantito dall'art. 2 Cost. e il diritto di cronaca tutelato dall'art. 21 Cost., atteso che non può essere consentita la compressione senza alcun limite del diritto alla riservatezza e non ogni lesione del diritto soccombente può ritenersi giustificata. La lesione può essere giustificata solo nei limiti in cui è strettamente funzionale al corretto esercizio del diritto vittorioso, e solo all'esito della necessaria valutazione di proporzionalità tra la causa di giustificazione (esercizio del diritto vittorioso) e la lesione del diritto antagonista; valutazione che va effettuata in relazione al concreto atteggiarsi dei diritti in contrapposizione (Cass., sez. III, 9 giugno 1998, n. 5658). Allora bisogna domandarsi se la pubblicazione di foto di una minore in ospedale, unitamente ad un noto calciatore, risponda ad un'utilità sociale e se questa utilità pur sussistente, sia apprezzabile al punto da prevalere, in un giudizio di proporzionalità, sul diritto ad esso contrapposto, tanto da determinarne una data lesione. In altre parole, occorre verificare quali siano i limiti alla lecita utilizzazione dell'immagine di una persona contestualmente alla pubblicazione (pacificamente autorizzata) della notizia ad essa corrispondente.

La decisione della Corte è preceduta da un excursus sulle fonti normative che specificamente tutelano l'immagine quali l'art. 10 c.c. e gli artt. 96 e 97 della legge n. 633/1994, cd. legge sul diritto d'autore.

Dal complessivo quadro normativo in materia si desume che, fuori dei casi in cui l'esposizione o la pubblicazione (e, in generale, ogni forma di riproduzione o di utilizzazione) dell'immagine di una persona è consentita dalla legge, l'immagine non può essere esposta o pubblicata senza consenso. Tale consenso alla diffusione dell'immagine può essere dato in qualsiasi forma, quindi non necessariamente in modo esplicito bensì anche in modo tacito o per fatti concludenti. Ed infatti, l'art. 137, comma 2, del d.lgs. n. 196/2003 consente il trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche, anche senza il consenso dell'interessato, ma pur sempre con modalità che garantiscano il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, della dignità dell'interessato e del diritto all'identità personale. Ebbene secondo la Corte di cassazione, l'attinenza a fatti di interesse pubblico non richiede che le notizie o le fotografie pubblicate siano indispensabili per informare l'opinione pubblica su un fatto di una qualche utilità. A ciò si aggiunga che “il diritto alla riservatezza del minore deve essere, nel bilanciamento degli opposti valori costituzionali (diritto di cronaca e diritto alla privacy) considerato assolutamente preminente, laddove si riscontri che non ricorra l'utilità sociale della notizia e, quindi, con l'unico limite del pubblico interesse della notizia stessa”.

In tale prospettiva, la presenza delle condizioni legittimanti l'esercizio del diritto di cronaca non implica, di per sé, la legittimità della pubblicazione o diffusione anche dell'immagine delle persone coinvolte, la cui liceità è subordinata, oltre che al rispetto delle prescrizioni contenute negli artt. 10 c.c., 96 e 97 della legge n. 633/1941, nonché dell'art. 137 del d.lgs. n. 196/2003 e dell'art 8 del codice deontologico dei giornalisti, anche alla verifica, in concreto, della sussistenza di uno specifico ed autonomo interesse pubblico alla conoscenza delle fattezze dei protagonisti della vicenda narrata, nell'ottica della essenzialità di tale divulgazione ai fini della completezza e correttezza della informazione fornita.

Nella ordinanza che si annota, la Corte, infine, prima di cassare con rinvio la sentenza del giudice di merito, esamina l'art. 8 del codice deontologico dei giornalisti sul trattamento dei dati personali, che dedica una particolare attenzione alla pubblicazione dell'immagine delle persone, subordinando proprio alla essenzialità dell'informazione la pubblicazione di immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona; condizionando alla sussistenza di rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e polizia la ripresa e la produzione d'immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato.

L'art. 7 del medesimo Codice, inoltre, si riferisce alla tutela del minore, sancendo che al fine di tutelarne la personalità, il giornalista non pubblica i nomi dei minori coinvolti in fatti di cronaca, né fornisce particolari in grado di condurre alla loro identificazione; e assicurail diritto del minore alla riservatezza quale interesse primario rispetto al diritto di critica e di cronaca.

Pertanto, la Corte di Cassazione invita il giudice di merito a tenere in adeguato conto i limiti alla diffusione delle immagini previsti non solo dalla legge ma anche dal Codice deontologico dei giornalisti, approvato dal Consiglio Nazionale dell'Ordine nelle sedute del 26 e 27 marzo 1998, al quale questa Corte ha già avuto modo di riconoscere valore di fonte normativa, in quanto richiamato dal d.lgs. n. 196/2003 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, e dal cui rispetto gli iscritti all'Ordine non possono quindi prescindere, perché la relativa violazione non solo li esporrebbe all'applicazione di sanzioni disciplinari da parte del Consiglio dell'Ordine competente, ma potrebbe essere anche fonte di responsabilità civile sia per l'autore che per la sua testata (Cass., Sez. III, 12.10.2012, in Guida al Diritto Il Sole 24 ore settimanale, 2013, 15, 37).

Codici di condotta e codici deontologici

La Corte di cassazione fa, in particolare, applicazione dell'art. 8 del codice deontologico dei giornalisti del trattamento dei dati personali, riconoscendo ad esso il rango di fonte normativa. Tale statuizione impone di esaminare il ruolo delle linee guida, dei codici deontologici e in genere dei corpus normativi di cd. soft law nella valutazione della diligenza dell'obbligato e nell'accertamento della responsabilità civile.

L'interesse per il tema è stato stimolato, oltre che dal proliferare di disposizioni che disciplinano, o quanto meno rinviano, a questi insiemi di norme di condotta, altresì da un consolidato orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto al Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attività giornalistica il rango di fonte normativa, con la conseguenza che la violazione di tale codice espone i giornalisti alla applicazione di sanzioni disciplinari da parte del Consiglio dell'Ordine competente, ma è anche fonte di responsabilità civile (Cass., sez. I, ord. 9 luglio 2018, n. 18006). Orientamento confermato dalla pronuncia in esame e dal consolidato orientamento dell'Autorità Garante per la protezione dei dati personali (provv. 6.2.2020, Reg. n. 28 del 6.2.2020).

Anticipando sinteticamente i risultati della ricerca può dirsi che la variabilità e l'indeterminatezza del criterio della diligenza nell'adempimento delle obbligazioni e della colpa professionale hanno indotto un interessante dibattito sulla opportunità di individuare parametri oggettivi per conferire a tali categorie una maggiore certezza e, dunque, ridimensionare il ruolo discrezionale della giurisprudenza.

Oggettività e mutevolezza del criterio della diligenza

La Relazione al Codice Civile giustifica la scelta del criterio della diligenza del buon padre di famiglia sulla scorta dell'esigenza di assicurare alla responsabilità del debitore una “base certa”. A discapito della enunciazione di principio contenuta nella citata Relazione, per cui la diligenza è un criterio da valutare in astratto in termini oggettivi e generali; gli interpreti dell'art. 1176 c.c. si sono presto avveduti della genericità e mutevolezza del criterio, difficilmente adeguato ad assicurare la certezza del diritto.

Tali considerazioni hanno, quindi, portato alla conclusione che il legislatore ha affidato alla giurisprudenza il compito di stabilire il significato di comportamento diligente e, dunque, di dare concreta attuazione alla clausola generale contenuta nell'art. 1176 c.c.

Il criterio della diligenza si presenta come un concetto elastico: una direttiva in base alla quale dovrà poi l'interprete procedere alla sua determinazione nelle varie situazioni. La valorizzazione del ruolo dell'interprete che ne consegue, benché rappresenti una importante strumento di salvaguardia dello “spontaneo processo di adeguamento delle forme giuridiche, proprie del diritto civile alla sostanza dei rapporti umani” (NICOLÒ, Codice Civile, in Enc. Dir., VII, Milano, 1960, 204), pur tuttavia non risponde alle esigenze connesse al perseguimento del maggior grado di certezza dei rapporti giuridici.

La indeterminatezza della clausola e la necessità di rimettere all'arbitrio di un giudice il compito di riempire la stessa di contenuto hanno probabilmente indotto il legislatore a riconoscere un crescente ruolo a criteri normativi di determinazione del contenuto del criterio della diligenza, allontanando così il timore dell'incontrollabile soggettivismo della decisione giudiziale. La variabilità del parametro della diligenza si ripercuote, infatti, in una rilevante difficoltà di accertamento della colpa tale da aver indotto il legislatore ad attribuire una crescente rilevanza giuridica esterna ai codici di condotta o di «autodisciplina» dettati da organismi pubblici o da associazioni private in alcuni determinati settori di mercato. Il ricorso a tali codici è finalizzato a fornire un parametro oggettivo per la ricognizione dei doveri di diligenza posti a carico del debitore/professionista.

Codici di condotta e diligenza professionale

Prima di affrontare il tema di interesse, è opportuno rammentare che i tentativi di conferire al criterio della diligenza maggiore certezza e minore discrezionalità all'autorità giudiziaria sono stati negli ultimi anni svariati.

Il riferimento è innanzitutto ai codici deontologici professionali che, in linea di principio, contengono regole di comportamento in base alle quali valutare la diligenza e la correttezza del professionista. Si tratta notoriamente di forme di autonomia privata che hanno ad oggetto alcuni canoni di comportamento e di correttezza professionale concernenti gli appartenenti ad una certa arte o professione. Le norme deontologiche possono presentarsi come la codificazione di principi tradizionali e consuetudinari, oppure come l'adeguamento dei canoni professionali a nuove esigenze dell'arte. Il controllo sull'osservanza dei precetti deontologici è rimesso ad organismi interni al gruppo professionale, che esercitano il potere disciplinare nei confronti dei soggetti appartenenti a quel gruppo. La rilevanza di tali codici nel nostro sistema ha seguito tre itinerari (Del Prato, Regole deontologiche delle professioni e principio di sussidiarietà: l'esperienza italiana, in Riv. dir. civ., 2014, I, p. 764 e ss.).

Il primo, negando rilevanza giuridica ai codici deontologici, riconosce alle regole ivi contenute, il valore di parametri di interpretazione di norme primarie. Il secondo reputa le norme deontologiche rilevanti esclusivamente nel rapporto tra ordine professionale ed iscritto, e quindi in funzione di una eventuale responsabilità disciplinare. Il terzo riconosce invece ai codici deontologici rilevanza esterna, spiegando i loro effetti non solo nel contratto d'opera professionale, o nel diverso contratto che costituisce titolo dell'attività, ma anche sul piano extracontrattuale.

Tradizionalmente la giurisprudenza ha qualificato le regole deontologiche alla stregua di “norme extragiuridiche o norme interne alla categoria e non invece norme dell'ordinamento statale” (Cass., sez. III, 15 febbraio 2006, n. 3287). La violazione di questi standard etici espone, quindi, il professionista ad una responsabilità disciplinare: sarà, quindi, l'organismo, dotato del potere sanzionatorio, ad, eventualmente, comminare, al professionista che ha violato la regola, sanzioni disciplinari. Risulta, quindi, indubitabile che nel giudizio disciplinare, l'autorità competente sarà chiamata alla applicazione diretta delle regole deontologiche: si tratta d'altra parte di regole emanate dall'organismo di governo della categoria cui il professionista ha deciso di appartenere, accettandone, con l'iscrizione, il contenuto.

Nell'ultimo decennio si è assistito, però, ad un graduale mutamento di orientamento, riconoscendo che le regole deontologiche passano costituire un parametro per l'accertamento della diligenza professionale, andando a concretizzare la clausola generale contenuta nell'art. 1176 c.c. e costituendo un criterio per la valutazione della condotta del professionista nel giudizio di responsabilità. Tale efficacia delle regole deontologiche è palese quando è la legge a rinviare ai codici deontologici, come nel caso del codice deontologico dei giornalisti per il trattamento dei dati personali. Al contrario, quando la legge non abbia effettuato un rinvio recettizio alle norme del codice, queste non potranno autonomamente fondare un giudizio di responsabilità del professionista, ma in ogni caso potranno “essere adoperate nella fase preliminare per determinare il contenuto precettivo della fattispecie”, come quella di cui all'art. 1176, commi 1 e 2, c.c. (Franzoni, Violazione del codice deontologico e responsabilità civile, in Danno e resp., 2013, 2, 121 e ss.). Se, come sembra, le regole deontologiche costituiscono espressione dell'esperienza operativa di una certa categoria professionale, risulta evidente che possano assumere un ruolo decisivo nella valutazione della diligenza del professionista. Pertanto, se vi è una norma elastica da applicare, come quella sulla diligenza, la funzione dei codici deontologici è quella di integrare la legge.

Ebbene proprio il contenuto generico dell'art. 1176 c.c. ha indotto giurisprudenza e dottrina a ritenere che anche quando manchi un rinvio espresso nella legge ai codici deontologici questi rappresentino, in ogni caso, una fonte integrativa e, dunque, il parametro attraverso il quale valutare la diligenza professionale.

In altre parole, i codici deontologici rappresentano delle semplificazioni o delle concretizzazioni del generico dovere di diligenza professionale, di cui all'art. 1176, comma 2, c.c., anche in assenza di un rinvio di legge alle stesse e a maggior ragione “ogniqualvolta ad essa rinvii direttamente ed esplicitamente il contratto” (Di Lorenzo, Clausola sulla diligenza, in Clausole negoziali. Profili teorici e applicativi di clausole negoziali tipiche e atipiche, a cura di Confortini). A ciò si aggiunga che, secondo alcune autorevoli voci dottrinali, le regole deontologiche potrebbero entrare nel rapporto tra professionista e cliente, rilevando quali usi negoziali.

Le regole deontologiche, collocandosi sul piano degli usi negoziali, diverrebbero vincolanti per le parti, mediante il meccanismo di eterointegrazione del contratto, previsto dall'art. 1374 c.c. e rileverebbero quindi come “fonti secondarie di integrazione del contratto (art. 1374 c.c.) quando non collidono con disposizioni cogenti o di rango superiore o, per il loro tenore, rivelano una portata limitata al rapporto dell'iscritto con l'ordine”. Il meccanismo integrativo si riferirebbe, poi, non alle singole e specifiche regole deontologiche, ma “contenuto della prassi” è “il rinvio ad esso” (Del Prato, Regole deontologiche delle professioni e principio di sussidiarietà: l'esperienza italiana, cit.). Ne consegue che non è la specifica regola deontologica ad integrare il contratto di prestazione d'opera bensì “la sua consistenza nel tempo, alla stregua di un rinvio mobile”. Questa lettura consente, quindi, un adeguamento continuo del rapporto obbligatorio tra professionista e assistito alle regole deontologiche esistenti in un dato contesto storico.

Sia che vengano considerati come usi negoziali, sia che si reputino fonti di integrazione di clausole generali, le regole deontologiche, molto spesso, contengono semplificazioni della diligenza professionale, della correttezza e della colpa, ai sensi dell'art. 2043 c.c.

Si tratta, quindi, di standard di comportamento professionale diligente, la cui provenienza da una associazione di categoria o da un organismo rappresentativo di una data categoria professionale ne rende il contenuto affidabile e il rispetto doveroso per il professionista. Pertanto, se è vero che le norme in questione appartengono “ad un ordinamento separato, diverso da quello giuridico in senso stretto” si deve tuttavia rilevare che quando tra questi ordinamenti non vi è contraddizione il rapporto è tale per cui le norme del codice disciplinare (forense) costituiscono fonti normative integrative del precetto legislativo (Franzoni, Violazioni del codice deontologico e responsabilità civile, Danno e resp., 2013, 2, 121).

Tuttavia, la funzione dei codici deontologici è anche probatoria: la regola deontologica, intesa quindi come una concretizzazione della clausola generale di cui all'art. 1176 c.c., predeterminata da un organismo rappresentativo della categoria cui è diretta, assume una specifica funzione sul piano probatorio. Una valutazione fondata su una regola deontologica, infatti, difficilmente potrebbe essere contrastata dal professionista, costituendo la regola medesima frutto della elaborazione sviluppata proprio da parte della sua categoria professionale di appartenenza. Anzi secondo autorevole dottrina (FRANZONI, Colpa e linee guida, in Danno e resp., 2016, 8-9, 801) l'esistenza di una regola di condotta deontologica finirebbe con il determinare una inversione dell'onere probatorio. Dovrebbe ricadere, infatti, sul professionista l'onere di spiegare le ragioni della condotta difforme da quella enucleata nel precetto deontologico. A tali considerazioni, probabilmente, porterebbe anche l'applicazione dell'ormai noto principio di vicinanza della prova: sarà il professionista, dotato, a differenza del cliente, delle conoscenze tecniche e delle adeguate informazioni, a dover provare che la violazione della regola di deontologica costituiva essa stessa un comportamento diligente.

Ruolo peculiare è riconosciuto alle linee guida dalla legge n. 24/2017, cd. Gelli – Bianco. La formulazione dell'art. 5 della citata legge non chiarisce se le linee guida devono essere considerate alla stregua di prescrizioni normative di fonte legislativa, regolamentare o provvedimentale, ordini e discipline; o al contrario devono reputarsi meri parametri sociali o professionali di condotta elastici con funzione precauzionale.

La giurisprudenza di legittimità (Cass. pen., Sez. IV, 11.7.2012, n. 35922) nega alle linee guida il rango di hard law considerando che le prescrizioni ivi contenute non possano assumere il rango di norme codificate, proprio in ragione della peculiarità dell'attività medica che sfugge a regole rigorose e predeterminate e richiede necessariamente un complesso esame del caso concreto (si pensi alle frequenti ipotesi di comorbilità). Le linee guida non assurgono, dunque, al rango di regole cautelari codificate non essendo né tassative - in quanto è la situazione individuale del paziente il punto di partenza della valutazione clinica -, né vincolanti - in quanto non possono prevalere sulla libertà del medico nella più adeguata scelta terapeutica. Le linee guida “benché non costituiscano veri e propri precetti cautelari vincolanti, tali da integrare, in caso di violazione rimproverabile, ipotesi di colpa specifica, rappresentano i parametri precostituiti a cui il giudice deve tendenzialmente attenersi nel valutare l'osservanza degli obblighi di diligenza, prudenza e perizia” (Cass. pen., Sez. IV, 30 gennaio 2019, n. 9447). L'efficacia e la forza precettiva delle linee guida dipendono, quindi, dalla dimostrata, con un giudizio ex post, “adeguatezza” alle specificità del caso concreto della condotta del sanitario.

Nel giudizio di responsabilità dei sanitari ha, quindi, assunto rilievo la valutazione della conformità della condotta di questi ultimi al precetto contenuto nella linea guida. Tuttavia, l'eventuale conformità della condotta al precetto non escluderà ex se la eventuale responsabilità del sanitario, dovendosi valutare l'adeguatezza della condotta alle specificità del caso concreto. Da tali assiomi deriverebbe, quindi, la esclusione delle linee guida dal rango di regole cautelari codificate e la qualificazione della inosservanza delle stesse alla stregua di colpa generica. Le linee guida, si potrebbe affermare, non sono altro che precetti attraverso i quali è possibile concretizzare il parametro della diligenza e della colpa professionale; standard di comportamento da considerare nella valutazione della responsabilità professionale.

Il codice deontologico dei giornalisti sul trattamento dei dati personali

Il codice deontologico dei giornalisti è disciplinato dalla normativa italiana sul trattamento dei dati personali, che già ex se si presenta come una “architettura” (Rodotà, Tecnologie e diritti, Bologna, 1995, 93) di fonti differenti e tra loro correlate. Questa materia fa un ampio ricorso ai codici di deontologia e di condotta, la cui disciplina si rinviene principalmente nell'art. 2-quater del d.lgs. n. 196/2003 – cd. Codice in materia di protezione dei dati personali, come modificato dal d.lgs. n. 101/2018. Tale disposizione contiene una espressa indicazione al Garante di promuovere “nell'osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sul trattamento dei dati personali, l'adozione di regole deontologiche (…)”.

Al Garante è altresì demandato il compito di verificarne la “conformità alle disposizioni vigenti, anche attraverso l'esame di osservazioni di soggetti interessati” e “garantirne la diffusione e il rispetto”. Le regole deontologiche sono approvate dal Garante ai sensi dell'art. 154-bis, co. 1, lett. b), pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, con decreto del Ministro della giustizia, e sono riportate nell'allegato A del presente codice. In particolare, l'art. 139 del Codice della privacy disciplina le “Regole deontologiche relative ad attività giornalistiche” - come riportato in Rubrica - e rimette al Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti il compito di adottare le regole deontologiche relative al trattamento dei dati per finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero, “che prevedono misure ed accorgimenti a garanzia degli interessati rapportate alla natura dei dati, in particolare per quanto riguarda quelli relativi alla salute e alla vita o all'orientamento sessuale”.

Il Codice della Privacy, quindi, anche mediante il rinvio ai codici deontologici, fissa le regole in base alle quali valutare il rispetto dei doveri che incombono sul giornalista nella divulgazione di notizie, richiedendo il rispetto dei criteri della verità, della continenza e dell'interesse sociale che rendono legittima l'ingerenza nella riservatezza del cittadino (Sica, Tutela della privacy, diritto di cronaca e codice deontologico dei giornalisti, in Corr. Giur., 2008, 1228).

Le peculiarità del codice deontologico in questione, riguardo alle modalità di redazione, promozione e pubblicazione, tendono ad allontanare il corpus dalla tipica funzione di autoregolazione dei codici deontologici, attesa la pervasiva partecipazione del Garante. Tanto che si è parlato per questo codice deontologico di fonte secondaria atipica dell'ordinamento giuridico (De Siervo, Diritto all'informazione e tutela dei dati personali, in Foro it., 1999, V, 66), in virtù, come anticipato, essenzialmente: della base legislativa; della portata applicativa delle previsioni ivi contenute, non limitata agli iscritti dell'ordine professionale giornalistico bensì estesa a “tutti coloro che esercitano funzioni informative mediante mezzi di comunicazione di massa”; nonché della produzione dell'effetto di liceità del trattamento collegato all'osservanza dei diritti e degli obblighi in esso declinati secondo principi di fonte legislativa.

Questo codice differisce, quindi, dai codici deontologici professionali, in primis, poiché ha un contenuto specifico, relativo ad una attività circoscritta, ossia il trattamento di dati personali, all'interno delle varie attività svolte dai soggetti cui le prescrizioni deontologiche si rivolgono; in secondo luogo, per le modalità di formazione, essendo tale codice sottoscritto su impulso dell'Autorità Garante, che è chiamata altresì a verificarne la conformità a leggi e regolamenti.

Inoltre, il rispetto di tali regole è condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali, come espressamente sancito dall'ultimo comma dell'art. 2 quater del Codice della Privacy. Dunque, la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali è subordinata al rispetto dei codici deontologici e di buona condotta, la cui violazione rende ex se il trattamento dei dati illecito.

La giurisprudenza di legittimità in diverse pronunce si è, quindi, interrogata sulla valenza del codice deontologico giornalistico relativo al trattamento dei dati personali, richiamato dall'art. 139 del Codice della privacy. Le peculiarità di questo Codice hanno indotto a riconoscere ad esso valore di fonte normativa, da cui deriva l'obbligo per gli iscritti all'Ordine di attenersi alle regole fissate, “perché la relativa violazione non solo li esporrebbe all'applicazione di sanzioni disciplinari da parte del Consiglio dell'Ordine competente, ma potrebbe essere anche fonte di responsabilità civile sia per l'autore che per la sua testata” (Cass., sez. I, 22 luglio 2015, n. 15360).

Ne consegue che il trattamento dei dati personali per finalità giornalistiche può essere effettuato anche senza il consenso dell'interessato - ex art. 137, d.lgs. n. 196/2003 - ma solo se: le modalità garantiscano il rispetto della dignità umana, dei diritti e delle libertà fondamentali della persona - ex art. 1, d.lgs. n. 196/2003 -, e vengano rispettate le regole deontologiche. Dunque, il Codice deontologico dei giornalisti si integra nel Codice della Privacy recependone la fonte: il Codice Deontologico dei Giornalisti è atto di natura normativa e come tale esso si presenta come strumento vincolante per la valutazione dell'attività giornalistica. Non sorprende, quindi, che il Garante a più riprese si sia premurato di definire questi codici come “vere e proprie fonti normative atipiche recanti regole rilevanti per stabilire se il trattamento dei dati è lecito e corretto”(Relazione al Parlamento 2000, 17.7.2011, 16). Tanto che Autorevole dottrina ha considerato tale corpus un codice di seconda generazione, inteso quale fonte di autoregolamentazione delegata, per la quale è lo Stato a lasciare ad altri – in questo caso all'organismo rappresentativo della categoria e all'Autorità Garante della Privacy – la determinazione delle regole specifiche da rispettare, previa determinazione di un quadro normativo standard. Dal punto di vista contenutistico inoltre il codice è reputato un social self regulation, essendo volto a limitare gli effetti negativi della informatizzazione relativamente alla tutela dei dati personali (SILEONI, Autori delle proprie regole. I codici di condotta per il trattamento dei dati personali e il sistema delle fonti, Milano, 2011).

Ebbene sembra che il legislatore si muova sempre di più nella direzione di favorire l'attuazione normativa della legge da parte di fonti autonome e non eteronome.

Conclusione questa che sembra avvalorata ad esempio dalla scelta di attribuire a linee guida e buone pratiche clinico - assistenziali redatte da associazioni di categoria il ruolo di parametro per la valutazione della diligenza dei sanitari. Anche in questo caso regole redatte da associazioni di categoria rappresenteranno il parametro per il sindacato di responsabilità di un professionista latamente appartenente alla categoria medesima.
Nell'ipotesi in esame, la scelta del legislatore nazionale di rinviare ad un codice deontologico la individuazione delle regole da rispettare per il lecito trattamento dei dati per finalità giornalistiche si può agevolmente rinvenire nella flessibilità e nel contenuto tecnico di tale corpus di regole. I codici deontologici sono, infatti, caratterizzati da flessibilità in un grado ben superiore a quello della legge, nei confronti della quale possono fungere da disciplina di integrazione e di attuazione in concreto. Per questa stessa ragione, i codici hanno la possibilità di adattarsi in modo più diretto alla realtà sociale, in quanto enucleati da parte degli stessi soggetti che operano nei settori di riferimento. Diversamente dalla legge, i codici deontologici assicurano una maggiore rapidità di approvazione e una più specifica disciplina, rispetto ad una eventuale normativa di rango legislativo, la quale non potrebbe spingersi in tale direzione data la minuziosità dei precetti che dovrebbero essere emanati per ciascuna categoria.

A ciò si aggiunga altresì che la veloce evoluzione e modifica della materia del trattamento dei dati personali, strettamente connessa alla digitalizzazione delle comunicazioni, mal si concilia con gli ordinari tempi di promulgazione di una norma di rango legislativo. In questa materia attendere i tempi necessari per la approvazione di una legge potrebbe significare disciplinare il trattamento dei dati personali con disposizioni inadeguate sin dalla pubblicazione. Peraltro questi codici rispondono alla esigenza di definire misure di contenuto tecnico e prassi applicative, alla cui formazione concorrono, come già evidenziato, le associazioni rappresentative della categoria professionale la cui attività sono destinati a disciplinare. In questo modo riescono a contemperare le esigenze di flessibilità e tecnicismo, in una materia in rapida evoluzione. Tali considerazioni sembrano essere alla base anche dell'art. 40 del GDPR che rimette ad associazioni e altri organismi rappresentanti le categorie di titolari del trattamento il “potere” di elaborare i codici di condotta, modificarli o prorogarli “allo scopo di precisare l'applicazione del presente regolamento”. La differenza rispetto al codice giornalistico in esame è piuttosto netta: il codice di condotta, previsto nel GDPR, postula l'autonomia dei titolari o responsabili del trattamento dei dati, i quali se vogliono sottoporre le proprie attività a regole deontologiche possono farlo per il tramite di associazioni rappresentative e in tale autonomia decisionale sono incoraggiati dalla competente autorità controllo; inoltre a tali codici di condotta il GDPR, collega effetti probatori circa la conformità del trattamento dei dati effettuato dal titolare o responsabile che vi abbia aderito.

Quindi possiamo constatare che mentre il codice deontologico per il trattamento dei dati personali ad opera di giornalisti e per finalità di comunicazione ha valenza di fonte normativa atipica e, dunque, la violazione delle regole ivi contenute espone il giornalista a responsabilità civile e disciplinare; al contrario i codici di condotta, ex art. 40 GDPR, possono assurgere ad elementi di prova per dimostrare la correttezza e liceità del trattamento, e, più probabilmente, potrebbero, come i codici deontologici professionali, fungere da parametro per l'accertamento della diligenza professionale.

Risulta allora evidente che il codice deontologico giornalistico, per la sua formazione e la sua efficacia, rappresenta un esempio peculiare di codice la cui violazione espone il giornalista non solo ad una responsabilità disciplinare ma anche ad una responsabilità civile. In questa disciplina si ravvisa quindi il riconoscimento al codice deontologico e alle norme ivi contenute di un quid pluris: quelle regole non rappresentano solo dei canoni, dei criteri, con cui il giudice può confrontarsi per accertare la diligenza dell'obbligato ma sono obblighi specifici la cui violazione determina ex se un inadempimento e dunque una responsabilità per il professionista. Gli obblighi dei giornalisti nel trattamento dei dati personali risultano, quindi, ampliati dalle regole contenute nel codice deontologico, la cui violazione espone il giornalista a responsabilità.

Si tratta di una precisa scelta in tema di fonti, ossia di non riservare la disciplina del trattamento dei dati personali esclusivamente alla legge e dunque alla regolazione pubblica, ma di favorire una attuazione normativa della legge da parte di fonti autonome e non eteronome. La scelta del legislatore è in grado peraltro di superare uno degli aspetti più critici dei codici deontologici o di autodisciplina ossia la debolezza della loro efficacia: questi corpus di norme sono di regola provvisti di un regime sanzionatorio di esclusiva competenza degli organismi di autotutela, quale è il consiglio dell'ordine dei giornalisti. Al contrario la violazione del codice in questione espone ad un potenziale doppio binario di regimi sanzionatori: innanzi all'autorità garante competente nonché innanzi all'autorità giudiziaria ordinaria.

Riflessioni conclusive

Diligenza e colpa professionale sono concetti o clausole elastiche (GENTILI, Prefazione, in V. VELLUZZI, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010, 17): tale connotazione consente il necessario adeguamento del canone allo scorrere dei tempi e al modificarsi del contesto sociale; pur tuttavia determina un certo grado di incertezza e imprevedibilità delle regole, della diligenza richiesta e, dunque, delle decisioni giudiziali che la riguardano o la presuppongono.

Per questa ragione il legislatore ha tentato di emanare delle direttive con il precipuo scopo di concretizzare il generico canone della diligenza professionale. La difficoltà di determinare, con regole astratte e generali, canoni di condotta professionali e standard tecnici ha indotto il legislatore a rinviare la concretizzazione del canone della diligenza professionale a enti, organismi o associazioni di categoria professionali, che più facilmente possono individuare le migliori regole di comportamento professionale.

Fenomeno che si fa rientrare nel noto principio della sussidiarietà (AA.VV., Il principio di sussidiarietà nel diritto privato, a cura di M. NUZZO, v. 1, Torino, 2014), espressione di una scelta in tema di fonti del diritto, ossia di non riservare il potere normativo esclusivamente alla regolazione pubblica, ma di favorire una attuazione normativa della legge da parte di fonti autonome.

Ciò è accaduto sia con il codice deontologico dei giornalisti per il trattamento dei dati personali, che con le linee guida previste nella legge di riforma sanitaria, ma i due itinerari seguiti dal legislatore sono stati comunque molto diversi.

Alle regole previste nel codice deontologico giornalistico è stato riconosciuto il valore di fonte normativa ed alle stesse il giornalista è tenuto ad adeguare la propria condotta per non incorrere in responsabilità in sede disciplinare e civile. Potremmo, quindi, affermare che queste regole non sono solo un parametro di valutazione della diligenza del giornalista ma veri e propri doveri del professionista, ai quali deve uniformarsi: solo il rispetto della legge e delle regole deontologiche rende lecito il trattamento dei dati personali da parte del giornalista - o comunque per finalità di informazione e comunicazione -. Con la conseguenza che la violazione delle regole dettate dal codice deontologico in esame determinerà una responsabilità del giornalista contrattuale nei confronti del proprio datore di lavoro ed extracontrattuale nei riguardi dei terzi danneggiati ma sempre per colpa specifica, avendo il giornalista violato un precetto imposto dalla legge. Ne discende che la violazione delle regole dettate dal codice deontologico in esame determinerà una responsabilità contrattuale del giornalista nei confronti del proprio datore di lavoro ed extracontrattuale nei riguardi dei terzi danneggiati per colpa specifica.

Ai codici deontologici professionali, che rispondono all'intento legislativo di conferire contenuto certo e chiaro al canone di diligenza, fissato dall'art. 1176, comma 2, c.c., la giurisprudenza e la dottrina - benché con argomenti diversi - hanno inteso riconoscere la valenza di fonti integrative degli accordi contrattuali.
Queste regole di condotta, espressive di parametri etici di una data professione, svolgono pertanto la funzione di concretizzare e di attribuire certezza alla clausola generale contenuta nell'art. 1176 c.c., fermo restando che ciascun codice - anche in considerazione delle diverse espressioni linguistiche utilizzate nelle fonti attributive del potere di emetterli - presenta tratti peculiari tali da distinguerlo dagli altri codici. L'eterogeneità dei contenuti si traduce, quindi, in una eterogeneità del relativo valore giuridico, in una prospettiva che si potrebbe definire a geometria variabile e ne richiede un esame casistico e concreto. Ferme le relative peculiarità è però possibile individuare un minimo comune denominatore, rappresentato, in chiave funzionale, dallo scopo di attribuire un contenuto specifico alla diligenza professionale, riportando l'autorità giudiziaria all'istituzionale compito di interpretare le disposizioni vigenti.

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