Diritto del coniuge separato agli utili dell'impresa familiare gestita dall'altro coniuge1. Bussole di inquadramentoL'impresa familiare L'art. 230-bis, comma 1, c.c., in tema di impresa familiare, sancisce il diritto, ove non sia configurabile un diverso rapporto (ad esempio, di lavoro subordinato), del familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell'impresa familiare al mantenimento, nonché alla partecipazione agli utili dell'impresa, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato all'interno della stessa. Tale norma ha introdotto una regolamentazione minima per le situazioni di collaborazione continuativa dei familiari nell'attività d'impresa altrui, nelle quali non sia configurabile un rapporto di lavoro tipico, allo scopo di evitare che le prestazioni possano ritenersi fornite gratuitamente e senza alcun diritto per il lavoratore, nel presupposto che sarebbero rese causa affectionis vel benvolentiae. L'impresa familiare ha carattere residuale e la relativa disciplina non trova applicazione quando la collaborazione prestata dal familiare è oggetto di un differente inquadramento giuridico (es. rapporto di lavoro subordinato, società, anche di fatto etc.). Natura giuridica dell'impresa familiare L'impresa familiare ha natura individuale, sicché nei rapporti esterni rileva solo la figura dell'imprenditore, che, di conseguenza, assume in proprio diritti e le obbligazioni derivanti dai rapporti con i terzi, risponde illimitatamente dei debiti assunti e può essere assoggettato a fallimento (cfr. Cass., n. 34222/2019). La qualificazione dell'impresa familiare come impresa individuale e non collettiva è stata effettuata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, le quali, superando un precedente contrasto giurisprudenziale, hanno affermato il principio per il quale il concetto di lavoro familiare è estraneo alle imprese collettive in genere e sociali in particolare, stante l'incompatibilità, nell'ambito della medesima compagine, di due rapporti, uno fondato sul contratto sociale e l'altro tra il socio ed i suoi familiari, derivante dal vincolo familiare o di affinità (Cass., S.U., n. 23676/2014). Il diritto agli utili dei familiari Al familiare lavoratore spetta il diritto agli utili dell'impresa e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato. Tale diritto è stato esteso dal 2016, mediante l'art. 230-ter c.c., al convivente di fatto. Invero, l'esclusione di una società implica l'inesistenza di quote e utili da ripartire tra i pretesi soci. Ne deriva che, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., da un lato, per la determinazione della quota spettante non può essere utilizzato come parametro l'importo della retribuzione erogata per prestazioni di lavoro subordinato in analoga attività (che prescinde dall'entità dei risultati conseguiti, a cui, invece, è commisurato il diritto del componente dell'impresa familiare), mentre, dall'altro, quanto al criterio di ripartizione delle quote, le percentuali indicate nella scrittura di costituzione dell'impresa hanno una portata meramente indiziaria e non sostitutiva rispetto all'apporto lavorativo effettivamente prestato (Cass., n. 20574/2008). La S.C. ha precisato che, ove non vi sia un accordo sulla distribuzione periodica, tali utili sono destinati al reimpiego in azienda (Cass. lav., n. 24650/2015). Pertanto i diritti agli utili, condizionati e proporzionali ai risultati raggiunti dall'impresa (Cass. lav., n. 5224/2016), diventano esigibili solo al momento della cessazione dell'impresa o della partecipazione del singolo lavoratore (Cass. lav., n. 5448/2011). Ipotesi non infrequente è quella in cui il diritto agli utili matura per la cessazione della partecipazione del coniuge, a seguito della separazione, all'impresa familiare condotta dall'altro coniuge, esaminata nella fattispecie in esame. 2. Questioni e orientamenti giurisprudenziali
Domanda
Il lavoro casalingo può essere considerato ai fini della percezione degli utili dell'impresa familiare?
Orientamento delle Sezioni Unite Il lavoro casalingo non può essere considerato ai fini della percezione degli utili dell'impresa familiare Risolvendo un contrasto che era emerso nella giurisprudenza delle sezioni semplici, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno affermato che ai sensi dell'art. 230-bis c.c. la concreta collaborazione del partecipante all'impresa familiare ‒ istituto la cui costituzione non può essere automatica, senza alcuna volontà degli interessati, ma al contrario, quando non avvenga mediante atto negoziale, deve sempre risultare da fatti concludenti, e cioè da atti volontari dai quali si possa desumere l'esistenza della fattispecie, ben potendo l'imprenditore rifiutare la partecipazione del familiare all'impresa, opponendosi all'esercizio di attività lavorativa nell'ambito di essa ‒ se, in mancanza di accordi convenzionali, non può ridursi, nel caso del coniuge, all'adempimento dei doveri istituzionalmente connessi al matrimonio, non viene tuttavia meno qualora l'attività dallo stesso svolta, sebbene diretta, in via immediata, a soddisfare le esigenze domestiche e personali della famiglia, assuma rilievo nella gestione dell'impresa, in quanto funzionale ed essenziale all'attuazione di fini propri di produzione o di scambio di beni o di servizi. Infatti, se è vero che l'art. 230-bis c.c. considera titolo per partecipare a detta impresa la prestazione, in modo continuativo, dell'attività di lavoro nella famiglia, tuttavia, dovendosi tale attività tradurre (in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato) in una quota di partecipazione agli utili ed agli incrementi dell'azienda, tale quota non può che essere determinata in relazione all'accrescimento della produttività dell'impresa, procurato dall'apporto dell'attività del partecipante (Cass. S.U., n. 89/1995). La S.C. ha più volte precisato, nella delineata prospettiva, anche nell'elaborazione successiva, che, ai sensi dell'art. 230-bis c.c., lo svolgimento da parte del coniuge del titolare di impresa familiare del lavoro casalingo non è sufficiente, di per sé, a giustificare la partecipazione del coniuge stesso all'impresa familiare, in quanto ai fini del riconoscimento dell'istituto ‒ residuale ‒ della impresa familiare è necessario che concorrano due condizioni, e cioè, che sia fornita la prova sia dello svolgimento, da parte del partecipante, di una attività di lavoro continuativa (nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno), sia dell'accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante (necessaria per determinare la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi (Cass. lav., n. 27839/2005; conf., in sede di merito, Trib. Milano, 31 maggio 2006). In sostanza, per potere configurare, nell'attività di uno dei coniugi, una concreta collaborazione all'impresa suddetta, non è sufficiente il solo fatto dell'adempimento di doveri istituzionalmente connessi al matrimonio ‒ come quello di contribuire, in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale e casalingo, ai bisogni della famiglia e di provvedere alle esigenze della prole ‒ ma è necessario un apporto tale da poter rendere riscontrabile in esso un rapporto di lavoro per l'impresa, che deve avvantaggiare il coniuge imprenditore e l'intero nucleo familiare, senza limitarsi ad una generica collaborazione domestica (Cass. lav., n. 9025/1991). In applicazione del richiamato principio Cass. lav., n. 27839/2005, ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la partecipazione del coniuge all'impresa familiare evidenziando che il mancato utilizzo della sua collaborazione, se non in brevi periodi, lungi dal configurare un contributo all'azienda, esprimeva solo scelte di organizzazione del nucleo familiare. Orientamento minoritario La collaborazione familiare tra coniugi può integrare il requisito della partecipazione all'impresa disciplinata dall'art. 230-bis c.c. Secondo un precedente rimasto isolato nel panorama giurisprudenziale di legittimità, invece, anche la mera collaborazione familiare tra coniugi, di per sé insufficiente ad integrare il requisito della partecipazione all'impresa disciplinata dall'art. 230-bis c.c. ove coincida con l'attività oggetto di uno degli obblighi e doveri dei coniugi di cui all'art. 143 e 147 c.c., può valere ‒ soprattutto in caso di preesistenza di un atto costitutivo negoziale – ad individuare nei coniugi la qualità di partecipe a detta impresa, qualora essa risulti strettamente correlata e finalizzata alla gestione della stessa, quale espressione di coordinamento e frazionamento dei compiti nell'ambito del consorzio domestico, in vista dell'attuazione dei fini di produzione o di scambio dei beni e servizi propri dell'impresa familiare (Cass. lav., n. 5781/1999). 3. Azioni processualiFunzione e natura del giudizio La domanda volta al riconoscimento degli utili per l'attività prestata nell'impresa familiare condotta dall'altro coniuge deve essere promossa con ricorso al giudice del lavoro e il procedimento segue il rito speciale disciplinato dagli artt. 409 ss. c.p.c. Si tratta quindi di un giudizio a cognizione piena ed esauriente nel quale deve essere accertato il contributo dell'ex coniuge all'esercizio dell'impresa familiare ai fini dell'eventuale riconoscimento degli utili derivanti dall'esercizio dell'impresa dell'altro coniuge (sia sul piano dell'an che del quantum). Nella giurisprudenza di legittimità è stato precisato che la competenza del giudice del lavoro ex art. 409 c.p.c. non è circoscritta all'accertamento del diritto alla remunerazione dei soggetti indicati dall'art. 230-bis c.c., ma comprende la domanda con la quale un coniuge, previo accertamento della partecipazione all'impresa familiare con l'altro coniuge, chieda, ai sensi della disposizione citata, l'attribuzione di beni o di quote di beni, che assuma acquistati con i proventi dell'impresa stessa, posto che tali pretese trovano titolo nel rapporto di collaborazione personale, continuativa e coordinata, riconducibile nella previsione dell'art. 409 n. 3 c.p.c., il quale non diversifica le controversie in ragione del fatto che sia stata proposta una domanda di accertamento ovvero di condanna (Cass., n. 7007/2015). Aspetti preliminari Competenza La competenza è demandata al Tribunale, in funzione di giudice del lavoro; il Tribunale competente sul territorio deve poi essere individuato avendo riguardo ai criteri di collegamento indicati dall'art. 413 c.c. Legittimazione La legittimazione attiva a proporre il ricorso compete all'ex coniuge, non titolare dell'impresa familiare, che assume di aver prestato nella stessa continuativamente la propria attività lavorativa. Profili di merito Onere della prova Secondo le regole generali ritraibili dall'art. 2697 c.c. compete al ricorrente la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa che non sono integrati, come evidenziato, dal lavoro casalingo svolto all'interno della famiglia. È invero necessario dimostrare, per poter percepire parte degli utili dell'impresa familiare, sia di aver svolto una attività di lavoro continuativa, nel senso di attività non saltuaria, ma regolare e costante anche se non necessariamente a tempo pieno, sia l'accrescimento della produttività della impresa procurato dal lavoro del partecipante. Infatti dalla misura dell'incremento della produttività correlato all'attività lavorativa del richiedente può esserne determinata la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi. Contenuto del ricorso Il ricorso deve contenere le generalità del ricorrente e del suo difensore, compresa l'indicazione del codice fiscale di entrambi, e del numero di fax e di posta elettronica certificata del difensore presso cui la parte deve eleggere domicilio, nel Comune ove ha sede il giudice adito, conferendogli con atto separato la procura alla lite, la quale, va sottoscritta dal ricorrente e dal difensore che deve autenticarne la sottoscrizione. Essendo il processo disciplinato nelle forme di quello del lavoro, il ricorrente ha, come si desume dall'art. 14 c.p.c., un onere di completezza nella predisposizione del ricorso introduttivo dove andranno veicolate anche le richieste istruttorie. Richieste istruttorie Le controversie in esame, oltre che mediante la produzione di documentazione, sono di solito istruite mediante richiesta di prova testimoniale su determinate circostanze alle persone informate sui fatti, deferimento dell'interrogatorio formale volto a provocare la confessione del convenuto e CTU contabile finalizzata all'accertamento dell'utile netto dell'impresa. In ogni caso il giudice può, trovando applicazione il rito del lavoro, fare esercizio dei poteri istruttori officiosi demandatigli dall'art. 421 c.p.c. Prescrizione della pretesa creditoria La Corte di cassazione ha chiarito che i crediti del lavoratore familiare al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e alla partecipazione agli utili dell'impresa familiare si prescrivono in dieci anni, in quanto, in relazione ad essi, deve trovare applicazione, in assenza di una disposizione diversa, la regola generale stabilita dall'art. 2946 c.c. (Cass., n. 20273/2010). 4. ConclusioniNell'ipotesi di impresa familiare (art. 230-bis c.c.) non è infrequente che il coniuge il quale abbia prestato la propria attività lavorativa nell'impresa condotta dall'altro coniuge faccia valere il proprio diritto agli utili al momento della cessazione di tale attività, coincidente con la crisi coniugale. Sin da una risalente decisione delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, è stato chiarito che il lavoro prestato dal coniuge in ambito domestico non può far maturare il diritto agli utili in esame, che si correlano soltanto all'aver svolto un'attività di lavoro continuativa, sebbene non esclusiva, e non diversamente qualificata sul piano giuridico, in favore dell'impresa familiare. Il relativo onere probatorio, nell'ambito di un giudizio che segue le forme processuali del rito del lavoro, deve essere assolto dal ricorrente, anche mediante la richiesta di prove orali (interrogatorio formale del resistente e prova testimoniale con soggetti terzi a conoscenza dei fatti di causa), fermo l'esercizio dei poteri istruttori d'ufficio del giudice del lavoro ex art. 421 c.p.c. |