La Cassazione punisce l'omessa comunicazione della sopravvenuta custodia in carcere del figlio del percettore del reddito di cittadinanza

Alberto Cisterna
14 Aprile 2022

La questione sottoposta all'esame della Cassazione prende in considerazione il tema delle relazioni tra il tenore delle disposizioni incriminatrici di cui all'art. 7 d.l. n. 4/2019 e il procedimento di sequestro preventivo.
Massima

Integra il reato di cui all'art. 7, comma 2, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, l'omessa comunicazione entro 15 giorni del sopravvenuto stato di detenzione di un familiare quale causa di riduzione del beneficio del cd. reddito di cittadinanza, in quanto incidente sulla composizione del nucleo familiare, e quale parametro della scala di equivalenza per il calcolo della prestazione economica.

Il caso

Viene all'esame della Corte di legittimità l'ordinanza con la quale il Tribunale provinciale del riesame di Vibo Valentia ha rigettato il gravame proposto avverso il decreto giudice per le indagini preliminari che aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca delle somme di denaro indebitamente percepite e ritenute profitto dei reati cui all'art. 7, commi 1 e 2, d.l. n. 4/2019 che reca il regime di sanzioni per il caso di violazione delle prescrizioni relative all'erogazione del reddito di cittadinanza. Nel caso in esame l'addebito elevato a carico dell'indagato era quello di aver mancato la comunicazione all'INPS della sopravvenuta sottoposizione a custodia cautelare del figlio del percettore dell'erogazione di sostegno, condotta questa che il Tribunale del riesame aveva ritenuto fosse da annoverare tra le condotte criminose tipicizzate al citato art. 7, comma 2. Inoltre i giudici del merito avevano ritenuto che le somme versare su un libretto di risparmio postale intestato al medesimo soggetto potessero essere oggetto di sequestro preventivo anche se né direttamente né indirettamente collegate al reato.

La questione

La questione sottoposta all'esame della Cassazione prende in considerazione il tema delle relazioni tra il tenore delle disposizioni incriminatrici di cui al citato art. 7 d.l. n. 4/2019 e il procedimento di sequestro preventivo. In particolare, la difesa dell'indagato aveva stigmatizzato la circostanza che l'assoggettamento a custodia cautelare del figlio del percettore del reddito non potesse essere censita tra le condotte criminose tipicizzate al comma 2 della norma incriminatrice la quale – testualmente – prevede che «l'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all'art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni». Inoltre si lamentava, come detto, l'applicazione della misura ablativa provvisoria a somme di denaro, versate su un libretto postale, e di certa provenienza lecita nella traiettoria difensiva.

Le soluzioni giuridiche

La Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze del ricorrente, articolando il proprio ragionamento sulla scorta di due diverse argomentazioni. La struttura normativa del reddito di cittadinanza prevede, come noto, che la percezione delle erogazioni di sostegno avvenga a domanda dell'interessato e, nel caso in esame, si contestava al ricorrente di avere omesso di segnalare la sopravvenuta detenzione carceraria del figlio convivente a seguito della quale si sarebbe consumata l'indebita (parziale) percezione del beneficio economico di sostegno. In altre parole, la Corte di legittimità ha ritenuto che fosse conforme al precetto legislativo la contestazione al ricorrente dell'aver taciuto lo stato di detenzione del figlio, circostanza, questa, che avrebbe determinato non la revoca, ma la mera riduzione del contributo ai sensi dell'art. 3, comma 13, d.l. n. 4/2019 (sulla legittimità costituzionale del divieto cfr. Corte cost., 21 giugno 2021, n. 126). La disposizione da ultimo menzionata prevede, infatti, che «Nel caso in cui il nucleo familiare beneficiario abbia tra i suoi componenti soggetti che si trovano in stato detentivo, ovvero sono ricoverati in istituti di cura di lunga degenza o altre strutture residenziali a totale carico dello Stato o di altra amministrazione pubblica, il parametro della scala di equivalenza di cui al comma 1, lett. a), non tiene conto di tali soggetti. La medesima riduzione del parametro della scala di equivalenza si applica nei casi in cui faccia parte del nucleo familiare un componente sottoposto a misura cautelare o condannato per taluno dei delitti indicati all'art. 7, comma 3». Si tratta, precisa la decisione in commento, di una condizione che – ai sensi dell'art. 2 del decreto legge – deve sussistere sia al momento della presentazione della domanda che per tutta la durata dell'erogazione del beneficio di sostegno con il conseguente attivarsi di un apposito perimetro sanzionatorio in relazione alle due ipotesi ora considerate: ossia del difetto genetico dei requisiti in parola ovvero del venir meno di essi in costanza di somministrazione dell'agevolazione solidaristica.

L'art. 7 d.l. 4/2019, infatti, ha approntato due diverse fattispecie che trovano applicazione, appunto, per la fase genetica e per la fase successiva al riconoscimento del beneficio economico. Nel primo caso si è disposto che «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all'art. 3, rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute, è punito con la reclusione da due a sei anni». Per la seconda ipotesi, invero reputata meno grave, si prevede che «l'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio entro i termini di cui all'art. 3, comma 8, ultimo periodo, commi 9 e 11, è punita con la reclusione da uno a tre anni», come sopra ricordato. La Cassazione ha ritenuto che si sia in presenza di ipotesi di reato di condotta e di pericolo, il primo a dolo specifico, il secondo a dolo generico, volti a salvaguardare gli interessi patrimoniali dell'amministrazione pubblica da mendaci e omissioni concernenti l'effettiva situazione patrimoniale, reddituale e familiare dei soggetti che intendono accedere o già hanno acceduto al reddito di cittadinanza. È bene evidenziare che i Giudici di piazza Cavour hanno espressamente ritenuto che si sia al cospetto di un cluster di norme correlate, nel loro complesso, al generale "principio antielusivo" che ha a fondamento e giustificazione la capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost. e la cui ragionevolezza costituzionale si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico (in questo senso v. anche Corte cost., 25 gennaio 2022, n. 19 che ha ritenuto non irragionevole il requisito del permesso di soggiorno di lungo periodo per accedere al reddito di cittadinanza)

Invero la costruzione delle regole che governano il reddito di cittadinanza ha una sua complessiva tenuta e, nel caso rimesso alla delibazione della Corte, vede come detto l'intersecarsi delle disposizioni che prevedono i parametri per la determinazione del quantum delle erogazioni agire in combinato disposto con quelle che comminano obblighi di comunicazione e aggiornamento circa la sussistenza dei requisiti di legge. Tuttavia, nel lessico dell'art. 7 ossia della norma incriminatrice si è reso necessario un chiarimento: si contestava al ricorrente di aver omesso la comunicazione di un'informazione dovuta, ovvero lo stato detentivo del figlio, alla luce di quanto stabilito dall'art. 2, come prima indicato, in relazione all'art. 3, comma 13 in quanto fatto idoneo a determinare una riduzione del beneficio. Ma l'art. 7, comma 3, rinvia all'art. 3, comma 8, ultimo periodo, e ai commi 9 e 11 e non al comma 13 di cui si sta discutendo. La Cassazione ha ritenuto che tale rinvio espresso non sia da considerare «in relazione ai casi ivi previsti, ma solo in relazione ai termini, sicché l'interpretazione per cui le cause di revoca o riduzione sarebbero solo quelle previste da tali commi si pone in contrasto con il dato letterale dell'art. 7, comma 2». A conforto di questa tesi la sentenza precisa che i commi 8 e 9 fanno riferimento al mutamento delle condizioni di reddito rispettivamente per lavoro dipendente e da attività d'impresa o di lavoro autonomo, mentre il comma 11 fa invece riferimento alle variazioni patrimoniali che comportano la perdita dei requisiti. Nessuno di tali commi rinvia ai casi di riduzione del beneficio, ma la Corte di legittimità reputa che questa interpretazione sarebbe «irrazionale, perché abrogherebbe parte della norma, rispetto a quella sistematica proposta, che garantisce la tipicità della fattispecie, attraverso il chiaro riferimento dell'art. 7, comma 2, alle cause di riduzione, specificamente previste nell'art. 3, comma 13, ed all'obbligo di persistenza delle condizioni relative all'an ed al quantum del beneficio previsto dall'art. 2». Naturalmente perché la fattispecie incriminatrice dell'art. 7, comma 2, possa operare era necessario individuare un termine entro il quale la comunicazione di variazione deve essere operata. A tal fine la sentenza precisa che per le variazioni da lavoro dipendente il termine di 30 giorni era previsto nella formulazione del comma 8, ultimo periodo, prima delle modifiche apportate dalla legge di conversione; per le variazioni da lavoro autonomo o di impresa, l'art. 3, comma 9 prevede il termine di 30 giorni. Per tutte le altre comunicazioni, su cause di revoca o riduzione, si applica il termine di 15 giorni previsto dall'art. 3, comma 11.

La seconda questione portata a soluzione è quella concernente la sottoposizione a sequestro preventivo delle somme recate da un libretto postale a prescindere dalla loro riconducibilità alle erogazioni di sostegno. La Corte ha ricordato che l'art. 7, comma 3 (nella versione anteriore alla modifica apportata con l'art. 1, comma 74, lett. f) l. 30 dicembre 2021 n. 234) prevede che in caso di condanna definitiva o di patteggiamento per i reati di cui ai commi 1 e 2 consegue di diritto l'immediata revoca del beneficio con efficacia retroattiva e il beneficiario è tenuto alla restituzione di quanto indebitamente percepito. Questo abilita l'applicazione al caso in esame del principio fissato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 42415/2021 secondo cui «Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l'ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l'effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest'ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l'allegazione o la prova dell'origine lecita del numerario oggetto di ablazione». Ciò, come noto, consente il sequestro preventivo del profitto giacente sul libretto postale a prescindere dalla provenienza delle somme in forza del mero accrescimento verificatosi sul conto del ricorrente per effetto dell'elargizione delle somme non dovute sulla scorta delle rimesse dell'INPS.

Osservazioni

Sono di particolare rilevanza alcuni profili del ragionamento articolato dalla Cassazione nella decisione in esame:

  • l'attenzione dell'interprete deve essere sempre acuta in presenza di norme sanzionatorie a maglie larghe e connotate da una certa approssimazione lessicale, come nel caso dell'art. 7 comma 2 del decreto legge che regola il reddito di cittadinanza;
  • per giunta, è inutile sottacere che sorge sempre un moto di diffidenza verso approcci ermeneutici che, nella materia penale, valorizzino elementi extratestuali e sistematici rispetto al mero disposto della fattispecie di incriminazione;

Sul primo punto, non può trascurarsi la costruzione della fattispecie di cui si discute la quale – con una formulazione aperta e lasca – prevede che sia sanzionata penalmente l'omessa comunicazione delle variazioni del reddito o del patrimonio, anche se provenienti da attività irregolari, nonché di «altre informazioni dovute e rilevanti ai fini della revoca o della riduzione del beneficio»; l'endiadi «dovute e rilevanti» ovviamente tende a delimitare l'area dell'illecito penale ai soli dati che abbiano un'effettiva incidenza sull'ammontare del reddito di cittadinanza o sulla prosecuzione della sua erogazione. Invero, tenuto conto delle fasce sociali prese a riferimento dal reddito di cittadinanza non è che si tratti di una disposizione, di per sé, perfettamente allineata al principio di tassatività. Per un'esemplificazione aderente al caso in esame: una custodia carceraria di pochi giorni del figlio del ricorrente non avrebbe dovuto senz'altro essere segnalata all'INPS poiché difetterebbe il requisito della «rilevanza» che non può che essere parametrato all'entità della riduzione del reddito per qual brevissimo arco temporale; i costi di gestione amministrativa sarebbero superiori al preteso “risparmio”.

Ma questa conclusione che potrebbe apparire, in prima battuta, ragionevole, deve comunque confrontarsi con un rigore della giurisprudenza di legittimità che ha – quasi immediatamente – intrapreso un approccio severo rispetto alle problematiche poste dall'indebita percezione del reddito di cittadinanza. Se, infatti, si volge lo sguardo a Cass. pen. 25 ottobre 2019 (dep. 10 febbraio 2020), n. 5289 ci si accorge che «integrano il delitto di cui l'art. 7, d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito con modificazioni dalla legge 28 marzo 2019, n. 26, le false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell'autodichiarazione finalizzata all'ottenimento del "reddito di cittadinanza", indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l'ammissione al beneficio», quindi, indipendentemente dalla sussistenza di danno per l'Erario e dalla spettanza o meno dell'erogazione. Anche la sentenza in esame, come visto, censisce i reati di cui all'art. 7, commi 1 e 2, tra quelli di pericolo in quanto volti a rafforzare e garantire la “fedeltà” contributiva dei cittadini allo Stato. Laddove, forse, la norma di riferimento avrebbe dovuto essere l'art. 316-ter c.p. («Indebita percezione di erogazioni pubbliche») che punisce l'aver conseguito indebitamente una pubblica somministrazione di denaro (reato di evento) e non le dichiarazioni prodromiche e preparatorie come nel caso del reddito di cittadinanza (reato di pericolo). Il ché rende evidente che l'intento del legislatore fosse quello di scoraggiare e interdire la presentazione di domande indebite al momento dell'attivazione della misura di sostegno.

Resta, comunque, da considerare che – secondo altro approccio interpretativo – integrano il delitto di cui all'art. 7 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4 le false indicazioni dei dati di fatto riportati nell'autodichiarazione finalizzata all'ottenimento del "reddito di cittadinanza" o le omissioni, anche parziali, di informazioni dovute, ove strumentali al conseguimento del beneficio, cui altrimenti non si avrebbe diritto. In motivazione, la Corte ha chiarito che il legislatore, con l'espressione «al fine di ottenere indebitamente il beneficio», ha inteso tipizzare, in termini di concretezza, il pericolo derivante dalla falsità o dall'omissività delle dichiarazioni, limitandone la rilevanza ai soli casi in cui l'intento dell'agente sia quello di conseguire, per il tramite delle stesse, un beneficio non dovuto (Cass. pen., sez. III, 15 settembre 2021 (dep. 1° dicembre 2021) n. 44366.

La perplessità di cui sopra resta confermata dalla trama argomentativa della sentenza in esame che ha dovuto “completare” la traccia testuale dell'art. 7, comma 2, d.l. 4/2019 aggiungendovi un riferimento all'ipotesi dell'art. 3, comma 13 (ossia la detenzione carceraria di un componente del nucleo percettore) che non è espressamente indicata dalla disposizione. Per meglio intendersi: la Cassazione ha ritenuto sufficiente ai fini della punizione la circostanza che la norma incriminatrice prenda in considerazione l'omessa comunicazione delle «informazioni dovute e rilevanti» per la riduzione dell'importo del beneficio. Orbene quello dell'art. 3, comma 13, è sicuramente un'ipotesi di riduzione del quantum erogato, ma la norma incriminatrice salda in modo esplicito l'omissione ai soli termini «di cui all'art. 3, commi 8, ultimo periodo, 9 e 11» ingenerando il non infondato affidamento che si sia inteso lasciare privi di sanzione penale i residui casi di mancata comunicazione delle variazioni. La Corte di legittimità copre questo vacuum ritenendo che «l'art. 7 richiama l'art. 3, comma 8, ultimo periodo, commi 9 e 11 non in relazione ai casi ivi previsti, ma solo in relazione ai termini, sicché l'interpretazione per cui le cause di revoca o riduzione sarebbero solo quelle previste da tali commi si pone in contrasto con il dato letterale dell'art. 7, comma 2» e constatando che «tali commi non fanno dunque riferimento ai casi di riduzione del beneficio» ma di sua revoca «sicché l'interpretazione è irrazionale, perché abrogherebbe parte della norma, rispetto a quella sistematica proposta, che garantisce la tipicità della fattispecie, attraverso il chiaro riferimento dell'art. 7, comma 2, alle cause di riduzione, specificamente previste nell'art. 3, comma 13, ed all'obbligo di persistenza delle condizioni relative all'an ed al quantum del beneficio previsto dall'art. 2». In buona sostanza la norma dovrebbe essere interpretata nel senso che il reato omissivo sussiste, nei casi che imporrebbero la revoca dell'erogazione, solo quando siano decorsi i termini di cui all'art. 3, comma 8, ultimo periodo, commi 9 e 11; mentre per la riduzione il reato viene in essere integrando la fattispecie penale con un dato extratestuale rappresentato dal disposto dell'art. 3, comma 11, secondo cui «E' fatto obbligo al beneficiario di comunicare all'ente erogatore, nel termine di quindici giorni, ogni variazione patrimoniale che comporti la perdita dei requisiti di cui all'art. 2, comma 1, lett. b), n. 2), e lett. c)». Orbene è evidente un difetto di coordinamento nella disposizione (che menziona la sola variazione patrimoniale) a seguito dell'addendum in sede di conversione alla lettera c-bis) che prevede tra i requisiti «per il richiedente il beneficio, la mancata sottoposizione a misura cautelare personale, anche adottata a seguito di convalida dell'arresto o del fermo, nonché la mancanza di condanne definitive, intervenute nei dieci anni precedenti la richiesta, per taluno dei delitti indicati all'art. 7, comma 3». Ragione per cui il termine di 15 giorni regolato dall'art. 3, comma 11, non trova espressa applicazione al caso di specie.

Infine, l'assoggettamento a sequestro delle somme portate dal libretto postale è la coerente ricaduta del principio enunciato dalle Sezioni unite della Cassazione nel 2021 in tema di ablazione cautelare diretta del denaro contante a prescindere da alcun approfondimento circa la sua provenienza.

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