L'obbligo di cercare un componimento amichevole della lite non comporta una convenzionale rinuncia all'azione giudiziaria

12 Aprile 2022

Il contenzioso condominiale, intendendo per tale le controversie inerenti ai rapporti tra condomini, e tra questi, collettivamente considerati, ed i terzi, costituisce oramai una grande “fetta” delle cause civili che quotidianamente affollano i nostri uffici giudiziari. La lungaggine dei relativi processi, da un lato, porta a dissuadere dall'intraprendere un giudizio chi ha veramente ragione e, dall'altro, incentiva lo sfogo giudiziale da parte di chi sa di aver torto nella prospettiva di ritardare l'esito della lite. Proprio in questa gravissima situazione di progressivo degrado della giustizia si auspica l'adozione di idonee forme alternative delle controversie condominiali, cercando di approntare strumenti in grado di consentire una rapida, agevole e (magari) poco costosa, composizione dei contrasti che sorgono tra le parti. Tuttavia, la Cassazione precisa che la clausola prevista nel regolamento condominiale - con cui si preveda che, prima di adire il magistrato, le parti debbano rivolgersi all'Associazione della proprietà edilizia per cercare un “componimento amichevole” - non introduce una forma di arbitrato, né la stessa comporta una convenzionale rinuncia all'azione giudiziaria.
Massima

La clausola del regolamento di condominio che, per i casi di contrasto tra condomini, preveda l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, non integra una clausola compromissoria, sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all'esercizio dell'azione giudiziaria, atteso che i presupposti processuali per la validità del procedimento sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nell'autonomia privata.

Il caso

Il giudizio - conclusosi con la sentenza in commento - traeva origine dalla domanda, proposta da un Condominio nei confronti di un condomino, volta ad accertare l'illegittimità degli interventi, effettuati da quest'ultimo, sulle parti comuni dell'edificio, consistenti nella chiusura di una loggia prospiciente la pubblica via e nella realizzazione di una bussola antistante la porta di ingresso (detti interventi, secondo la prospettazione attorea, ledevano anche il decoro architettonico dell'edificio).

Il Tribunale aveva accertato l'illegittimità delle opere de quibus e aveva condannato il suddetto condomino alla rimessione in pristino dello stato dei luoghi.

La Corte d'Appello aveva confermato la sentenza di primo grado, in via preliminare, rigettando, da un lato, l'eccezione di carenza di legittimazione passiva del Condominio per difetto di conferimento del mandato da parte dell'assemblea, poiché si trattava di azione proposta dall'amministratore per la tutela e la conservazione delle parti comuni dell'edificio, ed affermando, dall'altro, che la previsione del regolamento condominiale di far precedere l'instaurazione del giudizio da un “tentativo amichevole di conciliazione” non era causa di improcedibilità, in quanto la clausola non introduceva una forma di arbitrato, né rituale, né irrituale.

Nel merito, il giudice distrettuale aveva accertato, innanzitutto, che il convenuto aveva realizzato una veranda a chiusura della loggia di sua esclusiva proprietà, prospiciente la strada ed una bussola di ingresso collocata sul terrazzo condominiale in corrispondenza della parte di accesso alla sua abitazione, in tal modo ledendo il decoro architettonico, in quanto il fabbricato condominiale rappresentava uno dei pochi esempi di architettura fascista presente sul territorio monzese; inoltre, la bussola realizzata era costituita da una struttura fissa che occupava il bene comune rendendolo parte integrante dell'unità immobiliare del condomino, in tal modo appropriandosi di esso ed impedendo il pari uso agli altri condomini ai sensi dell'art. 1102 c.c.; detta bussola, infine, non poteva essere considerata, peraltro, alla stregua di un impianto di produzione di energia da fonti rinnovabili di cui all'art. 1122-bis c.c.

Il condomino soccombente proponeva ricorso per cassazione.

La questione

Si trattata di verificare se i giudici di merito avessero o meno errato a non dichiarare la “improcedibilità” della domanda - qui, del Condominio nei confronti del condomino - per il mancato esperimento del tentativo di conciliazione, previsto dal regolamento condominiale, presso l'Associazione della proprietà edilizia.

Le soluzioni giuridiche

Innanzitutto, i magistrati di Piazza Cavour hanno confutato l'assunto del ricorrente, ad avviso del quale - violando gli artt. 1130 e 1131 c.c. nonché l'art. 77 disp. att. c.c. - la Corte territoriale aveva errato nel ritenere che sussistesse la rappresentanza processuale dell'amministratore del Condominio, in assenza di delibera autorizzativa da parte dell'assemblea, senza considerare che il mandato dell'assemblea sarebbe stato limitato alla contestazione dell'illegittimità della costruzione sulle parti comuni condominiali e non a tutte le altre opere realizzate dal convenuto.

La doglianza è stata ritenuta infondata, alla luce del costante insegnamento dei giudici di legittimità, secondo cui l'amministratore del condominio è legittimato, senza necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini, ad instaurare il giudizio relativo alle parti comuni condominiali, qualora rientrante negli atti conservativi dei diritti, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c. (v., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 12 ottobre 2000, n. 13611).

Infatti, gli atti conservativi di cui all'art. 1130 c.c. non si esauriscono nelle azioni cautelari, ma si estendono alle azioni a tutela dello stato di godimento della cosa comune, purchè non importanti una possibile disposizione della stessa (Cass. civ., sez. II, 6 febbraio 2009, n. 3044), e - come osservato dal giudice distrettuale - l'azione finalizzata alla tutela e conservazione delle parti comuni, tra cui è inclusa anche la tutela del decoro architettonico dell'edificio, rientra nel paradigma indicato (v., altresì, Cass. civ., sez. II, 24 luglio 2017, n. 18207).

Per quel che qui maggiormente interessa, i magistrati del Palazzaccio hanno ritenuto che la Corte d'Appello aveva aderito alla condivisibile nozione di procedibilità, intesa quale conseguenza sanzionatoria di un comportamento procedurale omissivo, derivante dal mancato compimento di un atto espressamente configurato come necessario a tal fine per dare avvio al processo, ragione per la quale la condizione di procedibilità deve essere espressamente prevista.

In termini generali, si richiama il principio secondo cui le disposizioni che prevedono condizioni di procedibilità, costituendo deroga all'esercizio del diritto di agire in giudizio, garantito dall'art. 24 Cost., non possono essere interpretate in senso estensivo (Cass. civ., sez. lav., 21 gennaio 2004, n. 967).

In particolare, si rammenta che la clausola del regolamento di condominio la quale, per i casi di contrasto tra condomini, prevede l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione della lite, non integra una clausola compromissoria, sicché da essa non può derivare alcuna preclusione all'esercizio dell'azione giudiziaria, stante che i presupposti processuali per la validità del procedimento sono stabiliti nel pubblico interesse e possono trovare il loro fondamento soltanto nella legge e non nella autonomia privata (Cass. civ., sez. II, 17 novembre 1979, n. 5985).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, nell'interpretazione del regolamento contrattuale (compito affidato al giudice di merito) ha ritenuto che la clausola prevista nel regolamento condominiale - con cui si prevedeva che, prima di adire l'Autorità giudiziaria, le parti dovessero rivolgersi all'Associazione della proprietà edilizia per cercare un “componimento amichevole” - non introduceva una forma di arbitrato, né rituale, né irrituale, sicché tale clausola non era idonea a comportare una convenzionale rinuncia all'azione giudiziaria.

Osservazioni

È sotto gli occhi tutti gli operatori del settore che la litigiosità in campo condominiale è destinata ad aumentare, in parte, a causa di una normativa - anche se innovata parzialmente dalla Riforma del 2013 - che si presenta comunque inadeguata a regolare compiutamente la realtà condominiale, caratterizzata anche dall'insorgere di nuove figure che sfuggono ai tradizionali istituti codicistici in subiecta materia, e, in parte, per l'essenza stessa della vita in comune negli edifici che, per il suo connaturale alto tasso di conflittualità, genera potenzialmente contrasti e offre lo spunto a vertenze nelle quali riesce sempre più difficile contemperare interessi individuali e collettivi.

Da ricordare, in proposito, che il r.d. n. 36/1934 - che costituisce la “anteprima legislativa” della disciplina condominiale contenuta nel vigente codice civile - comprendeva, contrariamente agli attuali artt. 1130 e 1131 c.c., tra le attribuzioni dell'amministratore, il compito di tentare di dirimere le controversie tra i condomini.

Inoltre, è opportuno segnalare, de iure condendo, che, tra i recenti interventi riformatori della disciplina condominiale - che, però, non sono stati trasfusi nella l. n. 220/2012 - vi era quello che stabiliva che il termine per l'impugnazione della delibera assembleare venisse differito qualora il regolamento condominiale contempli il ricorso a procedure stragiudiziali di conciliazione delle controversie (presso le Camere di commercio, o presso altri organismi, oppure nell'àmbito di attività conciliative svolte dalle Associazioni di rappresentanza dei proprietari, dei conduttori e degli amministratori).

Orbene, la diffusa esigenza di decongestionamento delle aule di giustizia ripropone, con stringente attualità, la tematica relativa all'adozione degli strumenti alternativi di risoluzione delle cause condominiali.

Al riguardo, gli ermellini (Cass. civ., sez. III, 28 novembre 2008, n. 28402) hanno affrontato la tematica de qua sotto il peculiare profilo dell'ammissibilità dell'esperimento dell'azione giudiziaria intrapresa omettendo il tentativo obbligatorio di conciliazione contemplato nel regolamento di condominio: sul punto, il Supremo Collegio ha confermato la sentenza di secondo grado, che aveva ribaltato il verdetto della pronuncia del giudice di prime cure, secondo il quale era “improponibile” l'azione di condanna al risarcimento dei danni, procurati a causa di un'infiltrazione d'acqua, perché non era stato, nella specie, esperito il tentativo di bonaria composizione della lite previsto nel regolamento, che disciplinava la vita della compagine che viveva nell'edificio interessato dalla suddetta infiltrazione.

La suddetta pronuncia dei giudici di legittimità richiama alla mente una nota sentenza di più di quaranta anni fa (Cass. civ., sez. II, 27 gennaio 1977, n. 388), la quale aveva precisato che la clausola del regolamento condominiale che prevedeva, per i casi di contrasto tra condomini, l'obbligo di esperire un tentativo di amichevole composizione presso l'Associazione fra i proprietari dei fabbricati, non integrava una clausola compromissoria, la quale presupponeva la rinuncia all'azione giudiziaria e dava luogo ad una cognizione di carattere arbitrale suscettibile di definire la controversia.

Pertanto, qualora, nonostante l'impegno di promuovere il tentativo di conciliazione, il condomino instaurasse direttamente il procedimento giudiziario, questo non poteva considerarsi nullo: stante che soltanto una clausola che demandi la controversia della decisione ad arbitri può sottrarre la medesima alla cognizione dell'autorità giudiziaria, non si è ritenuta né improcedibile né inammissibile l'azione proposta da un condomino nonostante il regolamento condominiale avesse previsto, come condizione prima di adire il magistrato, l'esperimento obbligatorio del tentativo di conciliazione presso l'Associazione della proprietà edilizia (v., sul versante della giurisprudenza di merito, App. Milano 13 luglio 1990; Trib. Milano 1° giugno 1987).

Invero, in alcuni regolamenti-tipo, si riporta la seguente disposizione: “qualora insorgano vertenze o dissidi tra i condomini o tra questi e l'amministratore, ciascuna parte dovrà rivolgersi al consiglio dei condomini per tentare un amichevole componimento prima di adire l'autorità giudiziaria”.

Il patto che contempli l'obbligo di esperire il tentativo di amichevole composizione di una lite non comporta alcuna preclusione all'esercizio dell'azione giudiziaria, stante che i presupposti processuali per la validità del procedimento, rispondendo ad esigenze di ordine pubblico, possono trovare ragione di sussistenza soltanto nella legge e non nell'autonomia privata, sicché unicamente il legislatore può derogare al principio del libero ed incondizionato esercizio dell'azione civile - qualora non ricorra un patto compromissorio o una rinuncia alla medesima azione - ed imporre condizioni di procedibilità.

Ne deriva che l'inosservanza di una clausola contrattuale, la quale obblighi le parti, prima di rivolgersi al magistrato, ad esperire un tentativo di amichevole componimento della lite, potrebbe eventualmente determinare conseguenze di natura sostanziale, come l'obbligazione di risarcimento del danno, tuttavia non assume rilevanza nel sistema processuale e non comporta l'improcedibilità, neppure temporanea, dell'azione giudiziaria promossa senza aver ottemperato al suddetto obbligo, non implicando, appunto, tale clausola alcuna rinuncia alla tutela giurisdizionale (Cass. civ., sez. I, 13 luglio 1992, n. 8476).

Né può sostenersi che una previsione contrattuale se, da un lato, non può mai precludere l'esercizio dell'azione giudiziaria, dall'altro, potrebbe differire nel tempo l'esercizio della medesima azione, subordinandola - come nel caso concreto - all'infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione; in buona sostanza, si potrebbe opinare che, se la legge ordinaria costituisce una fonte idonea ad istituire tentativi obbligatori di conciliazione, così anche il contratto, nella misura in cui ha forza di legge tra le parti, dovrebbe reputarsi una fonte di diritto altrettanto idonea.

In buona sostanza, la clausola del regolamento di condominio non avrebbe implicato una rinuncia definitiva al contenzioso giudiziario, ma semplicemente un suo “differimento cronologico”, nell'interesse dello stesso asserito titolare del diritto che si intende far valere.

In realtà, vertendosi in materia di norme inderogabili, la disciplina processuale in esame non può essere oggetto di regolamentazione contrattuale contrastante con quella legislativa; peraltro, il subordinare l'esperibilità dell'azione giudiziaria all'infruttuoso esperimento del tentativo di conciliazione non comporta un mero differimento, ma un'invalicabile preclusione della medesima azione destinata a durare fino all'espletamento del suddetto incombente e, quindi, se del caso, per sempre, in mancanza di quest'ultimo.

Riferimenti

Bordolli, Arbitrato e conciliazione nel condominio, in Immob. & proprietà, 2005, 129;

Briguglio, Problemi e particolarità della scelta arbitrale per le liti del condominio, in Riv. arbitrato, 2000, 391;

Celeste, La composizione arbitrale del contenzioso condominiale, in Riv. giur. edil., 1999, II, 189;

Gabrielli, Per la promozione dell'arbitrato nelle controversie in materia di condominio e locazione, in Arch. loc. e cond., 1997, 545;

Ditta, Arbitrato e soluzione stragiudiziale delle controversie condominiali, in Arch. loc. e cond., 1995, 277;

Ramella, Clausola compromissoria nel regolamento condominiale, in Giur. it., 1985, I, 2, 7;

Ceniccola, Condominio e clausola compromissoria, in Vita notar., 1985, 599;

Raschi, La clausola compromissoria nei regolamenti condominiali, in Nuovo dir., 1968, 11.

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