Autosufficienza del ricorso per cassazione e Corte europea dei diritti dell'uomo

Francesco Bartolini
21 Aprile 2022

In osservanza del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifici motivi, a pena di inammissibilità. Il detto principio non contrasta con le regole che garantiscono il diritto di accesso alla giustizia, previste dall'art. 6 CEDU, semprechè l'autosufficienza non sia intesa in modo eccessivamente formale, tale da impedire l'accesso alla tutela giudiziaria.
Massima

In osservanza del principio di autosufficienza, il ricorso per cassazione deve essere articolato in specifici motivi, a pena di inammissibilità, con la specifica indicazione degli atti e documenti processuali che ne forniscono il fondamento, sì da porre il giudice di legittimità in grado di comprendere, dalla diretta lettura del ricorso, l'oggetto della controversia e il contenuto delle censure che dovrebbero giustificare l'annullamento della decisione impugnata; e non debba, per poter decidere, scrutinare autonomamente gli atti di causa. Il detto principio non contrasta con le regole che garantiscono il diritto di accesso alla giustizia, previste dall'art. 6 CEDU, semprechè l'autosufficienza del ricorso non sia intesa in modo eccessivamente formale, tale da impedire l'accesso alla tutela giudiziaria.

Il caso

I ricorrenti hanno proposto impugnazione alla Corte di cassazione deducendo plurimi motivi di ricorso. Il principale tra essi, sul quale il collegio si è diffuso, ha riguardato l'asserita violazione di legge, addebitabile sia al primo giudice che a quello di appello, causata dall'inosservanza degli artt. 149, 160, 162, 164, 166, 182, 183 e 291 c.p.c., 7 e 8 l. 890/1982, 24 e 111 Cost. in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c. Si asserisce in proposito che i giudici di merito non avrebbero dovuto dichiarare la regolarità della notifica dell'atto di citazione in giudizio di essi convenuti né, di conseguenza, dichiarare la loro contumacia.

La questione

La formulazione del motivo di ricorso poneva il problema di individuare con sicurezza i temi dell'indagine da effettuare. L'impugnazione si riduceva ad una lunga enunciazione di asserite inosservanze di norme giuridiche ma priva, poi, di indicazioni che ne consentissero la separata individuazione nonché di riferimenti ad atti processuali specifici necessari a farne accertamento. Il giudice di legittimità ne ha esaminato la rispondenza alle regole di cui al principio di autosufficienza che caratterizza il ricorso per cassazione.

Le soluzioni giuridiche

La Corte ha sciolto negativamente l'apprezzamento della rispondenza dell'atto di ricorso alle esigenze di autosufficienza imposte dall'art. 366, n. 6, c.p.c. Le censure in esso formulate risultavano troppo generiche e astratte perché ne fosse consentita una piena valutazione in sede di giudizio di legittimità. Quelle stesse censure, inoltre, erano prive di riferimenti a precisi atti processuali e prive della specificità necessaria a porre il giudice in condizioni di valutare ex actis il contenuto e la rilevanza delle questioni sollevate. Il Supremo Collegio ha ricordato che il giudizio di legittimità è impostato su filtri di carattere formale collegati alla tecnica di redazione del ricorso ed esige che il giudicante sia in grado, ad una lettura globale dell'atto: di comprendere l'oggetto della controversia insieme al contenuto delle doglianze che dovrebbero giustificare l'annullamento della decisione impugnata; e di pronunciarsi senza dover scrutinare autonomamente gli atti di causa. E' dunque necessario esporre nel ricorso, in maniera succinta ma esaustiva, il vizio di violazione di legge sostanziale o processuale per come inizialmente dedotto e indicare l'atto processuale nel quale esso è ictu oculi rinvenibile. Nella vicenda in esame il ricorso non menzionava alcun elemento utile a verificare l'asserita erroneità delle pronunce di merito, tra loro conformi. Nell'atto non erano stati trascritti i brevi passaggi pertinenti del documento originale cui i ricorrenti si riferivano (la relazione di notifica dell'iniziale atto di citazione); e neppure erano state esposte ragioni di critica sulla coerenza della motivazione della pronuncia di appello.

La Corte ha poi osservato che la ritenuta inammissibilità del ricorso per difetto del requisito della sua autosufficienza non si poneva in contrasto con i principi accettati per obblighi internazionali ed evidenziati dalla Corte EDU. Questa, si ricorda nella motivazione in esame, ha avuto ripetute occasioni di rilevare la sussistenza di elementi di criticità presenti nell'ordinamento processuale italiano con riguardo al giudizio di cassazione: elementi di criticità individuati in possibili eccessi di formalismo nel pretendere che l'atto introduttivo di tale giudizio debba rispondere a stringenti requisiti di forma e di modalità espositive. Nell'ordinamento italiano, a differenza di altri, notava l'organo sovra nazionale, il principio di autosufficienza permette alla Corte di cassazione di scrutinare il contenuto delle doglianze e la portata della valutazione che le è richiesta sulla base del solo esame del ricorso. Tale principio, come per altri analoghi filtri di ammissibilità di tipo formale collegati alla redazione dell'atto, comporta limitazioni di accesso alla Suprema Corte: limitazioni che non devono essere interpretate con un rigore suscettibile di incidere sul diritto di accesso «ad un tribunale» in misura tale da eludere la tutela stessa del diritto ad ottenere giustizia.

Ferme queste regole, la Corte di cassazione ha affermato che nella vicenda sottopostale il pericolo di un accesso negato al giudice certamente non sussisteva, attesa la assoluta genericità delle censure in ricorso e la concreta impossibilità di verificarne la fondatezza senza lo scrutinio degli atti dei due primi gradi di giudizio.

Osservazioni

La pronuncia della Corte di cassazione riconosce francamente che il principio di autosufficienza del ricorso risponde ad una funzione di filtro legato alla tecnica di redazione dell'atto, dunque avente un esclusivo carattere formale, e preordinata alla deflazione del numero dei processi. Oltre ai requisiti di contenuto che necessariamente devono essere osservati dall'atto introduttivo del giudizio (per averne i nomi delle parti, i riferimenti al processo di cui esse sono protagoniste, i fatti essenziali, l'indicazione dei motivi di critica e il risultato che si intende ottenere con il gravame) si ricava (si è fatta ricavare, per interpretazione giurisprudenziale) dal dettato dell'art. 366 l'esigenza che l'atto introduttivo consenta alla Corte di pronunciarsi senza la necessità di aprire i fascicoli dei primi due gradi del processo. La sanzione, ove il requisito non sia osservato, è ultimativa: il ricorso è dichiarato inammissibile. Da qui il riconoscimento della natura da attribuire al citato principio di autosufficienza, quella, appunto, di uno strumento utile a discriminare ricorso da ricorso in base al loro contenuto espositivo ed a ridurre il carico di lavoro per il giudice di legittimità.

Per verità, nel dare atto di queste considerazioni, la stessa pronuncia che si annota indica ragioni anche sostanziali per le quali sul tema dell'autosufficienza doveva ritenersi comunque giustificato conformarsi all'interpretazione giurisprudenziale corrente. La motivazione ricorda in proposito i principi di economia processuale, di ragionevole durata del processo e di interesse ad agire in forza dei quali l'impugnazione non tutela l'astratta regolarità dell'attività giudiziaria ma mira ad eliminare il concreto pregiudizio patito dalla parte, sì che l'annullamento della sentenza impugnata è necessario soltanto se nel successivo giudizio di rinvio il ricorrente può ottenere una pronuncia diversa e più favorevole rispetto a quella cassata (ad es.: Cass. civ., sez. III, n. 14279/2017). Da qui l'esigenza che nel ricorso siano chiaramente indicati il vizio che si denuncia e l'atto dal quale lo si desume sussistente.

A sostegno e conforto la sentenza in esame cita la decisione CEDU nel caso Succi e altri contro l'Italia, n. 55064/11, provvedimento del 28 ottobre 2021, che si è pronunciata sulla compatibilità della disciplina italiana riguardante l'autosufficienza del ricorso per cassazione con i principi sanciti dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (peraltro non l'unica né, probabilmente, l'ultima).

La norma citata dispone, nel primo comma, primo periodo, che «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti». Per interpretazione consolidata la disposizione è intesa nel senso che, come riconoscimento prioritario, ogni persona ha diritto a rivolgersi ad un ufficio giudiziario per averne una tutela effettiva in tempi contenuti. Se deve essere così, risulta ovvio che un qualsivoglia filtro di natura formalistica apposto alla stessa possibilità di adire un giudice è in grado di minare alla radice la protezione da riconoscersi ad ogni persona. In linea teorica è sufficiente una minima discrepanza dal modello voluto perché ne risulti disattesa la domanda rivolta al giudice in quanto da ritenere irrituale e perciò inammissibile.

La Corte EDU nella pronuncia citata ha osservato che non poteva approvarsi la tendenza di alcuni ordinamenti a rifugiarsi dietro eccessivi formalismi giustificati dallo scopo di fronteggiare il forte afflusso di procedimenti e il conseguente insormontabile arretrato: come avviene in tutta evidenza nell'ordinamento italiano. Questa tendenza a chiudersi nel formalismo è aspetto intrinseco della natura stessa del principio di autonomia del ricorso, là dove in altri sistemi la ricevibilità del ricorso dipende dal fatto che esso riguardi una questione giuridica di interesse generale, sia rivolto alla tutela di un diritto fondamentale, sollevi un conflitto di giurisprudenza o, infine, che la controversia abbia un valore significativo. Il principio di autosufficienza, come applicato dalla giurisprudenza di legittimità italiana, si concentra su aspetti formali che non sempre sembrano allineati con lo scopo di assicurare al richiedente una reale tutela. Anche ammesso che il numero delle cause cagioni difficoltà nel disbrigo ordinario dei ricorsi, resta il fatto per cui, se le condizioni formali poste all'accesso alla giustizia sono interpretate in modo eccessivamente rigoroso, ne risulta pregiudicata la sostanza stessa del diritto alla tutela giudiziaria.

Le vicende sulle quali la Corte EDU era chiamata a decidere, nell'occasione (plurimi ricorsi erano stati riuniti in un unico procedimento), fornivano una chiara dimostrazione dell'assunto. Per uno dei ricorsi la dichiarazione di inammissibilità pronunciata dal giudice nazionale risultava lesiva del diritto di accesso alla giustizia, posto che dalla complessiva lettura dell'atto si sarebbe potuto desumere il contenuto dei motivi di impugnazione, il loro riferimento a precise norme violate nonché l'oggetto e lo sviluppo del processo (da questo rilievo è seguita la condanna dell'Italia per violazione dell'art. 6 CEDU). Per altri ricorsi, ugualmente dichiarati inammissibili dalla Corte italiana, le denunce di violazione della Convenzione dovevano essere ritenute infondate, posto che la lettura di quegli atti ne aveva rivelato la genericità, l'insufficiente supporto in riferimenti documentali, la consistenza di mere critiche di merito non proponibili nel giudizio di legittimità o la mancanza di una chiara esposizione dei fatti. Per tali ricorsi non poteva essere disattesa la declaratoria di inammissibilità in quanto questa non si era risolta in una interpretazione troppo formalistica del principio di autosufficienza del ricorso.

L'affermazione iniziale della Corte Cedu, secondo cui il principio di autosufficienza è espressione di una tendenza a privilegiare aspetti formali non sempre confacenti con la garanzia di una tutela assicurata per opera del giudice, ha trovato nel contesto motivazionale della pronuncia il suo temperamento: il principio è condivisibile finché la sua applicazione non viene a tradursi in un effettivo ostacolo all'accesso alla giustizia; se inteso in senso troppo restrittivo, la sua applicazione produce inaccettabili effetti di compressione del diritto ad avere giustizia. Quando è così rigidamente seguito, il principio si traduce in un ostacolo, concretamente impeditivo della tutela giudiziaria, come tale contrario agli obblighi assunti con la Convenzione dei diritti dell'uomo.

Salvata, dunque, la compatibilità del principio di autosufficienza con la detta Convenzione, spetta poi al giudice nazionale (e al giudice sovranazionale, quando occorra) misurare la proporzione con la quale, caso per caso, esso viene applicato, nella sua potenziale attitudine a costituire un impedimento ad accedere all'organo giurisdizionale di legittimità.

L'importanza del richiamo della CEDU? Si consideri questo esempio. Il ricorso recante la rubrica «omessa motivazione» potrebbe essere dichiarato inammissibile se il vizio è riferito al motivo di cui all'art. 360, comma 1, n. 4, invece che a quello di cui al n. 5 della stessa disposizione. Si tratta, in questo caso, di una scorrettezza formale, di una mancata rispondenza al modello voluto dalla normativa E altrettanto potrebbe dirsi per il ricorso rubricato «omessa pronuncia» se riferito al motivo di cui all'art. 360, comma 1, n. 5, anziché al motivo di cui al n. 4. L'errore sull'indicazione della norma di riferimento potrebbe giustificare una dichiarazione di inammissibilità del ricorso (è già accaduto: si vedano le istruzioni dettate in proposito da Cass. civ., sez. III, 10 giugno 2020, n. 11103). Ma la Corte EDU e la stessa sentenza che si annota avvertono: sarebbe eccessivamente formalistica una valutazione del ricorso che prescindesse dalla lettura globale dell'atto. Esso non può venir dichiarato inammissibile quando comunque consente di individuare l'interesse concreto a ottenere una nuova decisione su questioni sufficientemente delineate e supportate da riferimenti desumibili nel corpo del ricorso stesso.

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