Corte costituzionale: “incompatibilità orizzontale” del Gip che ha rigettato la richiesta di decreto penale per mancata contestazione di un'aggravante

22 Aprile 2022

La Corte costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, c.p.p, nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.
Massima

La Corte costituzionale dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, c.p.p, nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.

Il caso

Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Macerata richiesto dal pubblico ministero procedente di emettere un decreto penale di condanna nei confronti di un imputato del reato di guida in stato di ebbrezza, si determinava per il rigetto avendo rilevato come negli emergeva una circostanza aggravante specifica che risultava non contestata.

Pervenuta una nuova richiesta di decreto penale da parte del pubblico ministero adeguata al contenuto del provvedimento reiettivo, il giudice, in quanto medesima persona fisica, ravvisava la sussistenza della propria condizione di incompatibilità determinata dalla valutazione del merito già precedentemente svolta circa la ritenuta sussistenza non soltanto del fatto contestato ma, altresì, della circostanza aggravante specifica non contestata. Invero, respingendo la richiesta del pubblico ministero e restituendogli gli atti, aveva determinato la regressione del processo nella fase procedimentale delle indagini preliminari, per effetto della espletata valutazione in concreto tradottasi in una “attività pregiudicante”.

La questione

Il giudice sollevava quindi la questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2, c.p.p. per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., rilevando come la mancata inclusione in detta norma dell'ipotesi in esame si traduceva in una violazione del principio di parità di trattamento oltre che del diritto di difesa della persona imputata.

Il remittente evidenziava anzitutto che avendo in precedenza rilevato la ricorrenza di una circostanza aggravante non apprezzata dal pubblico ministero richiedente la emissione del decreto penale e avendo così compiuto attività di iniziativa per legge unicamente spettante a quest'ultimo, si era reso incompatibile per il susseguente processo aperto dalla nuova richiesta.

Ancora, secondo l'opzione interpretativa privilegiata dal medesimo remittente, detta condizione risultava determinata dall'avere egli deciso per il rigetto della prima richiesta esprimendo, implicitamente ma sostanzialmente, una duplice valutazione nel merito della res iudicanda, in primo luogo quanto alla sussistenza del fatto contestato, e poi quanto alla ravvisata ricorrenza della aggravante non contestata.

Le soluzioni giuridiche

In esordio, circa l'aspetto preliminare dell'ammissibilità della questione sollevata, la Corte, pur rilevando una apparente incongruenza del petitum additivo in quanto impropriamente correlato ad una prospettata diversità del fatto, ha ritenuto di superarla emergendo comunque la rilevanza della questione in relazione alla norma scrutinata, per avere il giudice remittente correttamente avvertita la oggettiva condizione pregiudicante determinata dalla valutazione sostanziale che in precedenza lo aveva indotto a pronunciarsi per il rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna.

La Corte è pervenuta quindi ad affermare la fondatezza della questione in relazione al secondo dei profili prospettati in quanto, se si fosse proceduto da parte del medesimo giudice, sarebbe risultata vulnerata la sostanziale tutela dei valori della terzietà e della imparzialità della giurisdizione come indiscutibilmente presidiata dagli artt. 3, 24, comma 2 e 111, comma 2, Cost. Infine ha dichiarato assorbito il primo dei due profili della rimessione concernente l'indebita surrogazione del pubblico ministero da parte del giudice nel potere-dovere di iniziativa spettante in via esclusiva al primo.

L'architrave della decisione di accoglimento può quindi individuarsi nella ineludibile esigenza di assicurare la rimozione di ogni situazione che possa in concreto condizionare o comunque far soltanto apparire come influenzata una decisione a cagione della cd. “forza di prevenzione” determinata dall'avere il giudicante in precedenza già valutato il merito della medesima vicenda processuale.

Osservazioni

A partire dall'ottobre del 1990 il tessuto originario dell'art. 34 c.p.p., in quanto fatto oggetto di innumerevoli questioni di legittimità, è risultato reiteratamente inciso da declaratorie plurime di incostituzionalità, nell'insieme orientate a colmare multiformi carenze nella previsione di oggettive situazioni di incompatibilità del giudice.

Di tutte, poche hanno riguardato il primo comma. Molte invece il secondo comma che è perciò divenuta la disposizione del codice di rito maggiormente segnata dagli interventi di natura additiva operati dal Giudice delle leggi per implementare il catalogo delle numerose situazioni che, in quanto venute in evidenza nel momento dell'instaurazione del giudizio rispetto alla fase precedente, risultavano rilevanti proprio ai fini della determinazione della “incompatibilità orizzontale”.

Con la penultima di tali pronunce, peraltro coeva a quella in commento, la Corte ha finito per ampliare ancora una volta in forma additiva il tessuto del primo comma dell'art. 34 c.p.p. e del primo comma lett. a) dell'art. 623 c.p.p. nella parte in cui tali norme «non prevedono che il giudice della esecuzione deve essere diverso da quello che ha pronunciato l'ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena … annullata con rinvio dalla Corte di cassazione» (Corte cost., 18 gennaio 2022, n. 7).

Alla luce della evidente univocità di siffatto indirizzo interpretativo, può ritenersi che le tutele costituzionali presidiate dagli articoli 3, comma 1, 24 comma 2, e 111, comma 2 Cost., in quanto orientate ad assicurare il “giusto processo”, costituiscono il poliedrico paradigma di comparazione invocato in ciascuna delle menzionate decisioni di accoglimento per verificare, volta a volta, la fondatezza del sollevato dubbio di incostituzionalità dell'art. 34, commi 1 e 2, c.p.p. circa la sussistenza di una effettiva condizione di incompatibilità.

È la prevalenza della affermazione del valore della imparzialità che, in quanto tale, concorre a dare consistenza all'essenziale requisito della terzietà affinché si realizzi una funzione giurisdizionale scevra da condizionamenti esterni, ma anche da qualsiasi pregiudizio condizionante generato nel giudice stesso dalla “forza di prevenzione” derivante da valutazioni precedentemente operate sul merito della medesima vicenda processuale.

Il rispetto del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) impone che nel processo penale non possa verificarsi, né debba persistere per situazioni analoghe tra loro, una ingiustificata disparità trattamentale, proprio avendo riguardo alla casistica tassativa contemplata dall'art. 34, comma 2, c.p.p. come oggi risultante anche per effetto delle ricordate plurime implementazioni additive decise dalla Corte nel corso del tempo.

La inviolabilità del diritto di difesa per come tutelata “in ogni stato e grado del procedimento” (art. 24, comma 2, Cost.) risulterebbe pur sempre intaccata se a giudicare l'accusato sia chiamato il giudice che in una fase precedente del processo abbia in qualche modo valutato il merito della medesima res iudicanda.

Infine ricorrerebbe la tangibile compromissione della garanzia di imparzialità del giudice costituzionalmente presidiata, unitamente a quella della terzietà (art. 111, comma 2, Cost.), allorché il giudice stesso possa essere, o anche soltanto apparire, condizionato dalla forza di prevenzione determinata dalla precedente decisione assunta.

Per verificare rispetto a siffatto articolato paradigma la fondatezza, quanto al caso concreto, della denunciata incompatibilità endoprocessuale di tipo “orizzontale” del giudice, la Corte ha inteso ribadire la enucleazione, già in precedenza elaborata, di alcuni imprescindibili presupposti, traducendoli nella concomitante ricorrenza di ciascuna di quattro ben distinte condizioni quali : a) la preesistenza di valutazioni che cadono sulla medesima res iudicanda; b) il fatto che il giudice sia stato chiamato a compiere una valutazione del contenuto di atti, anteriormente compiuti, strumentale all'assunzione di una decisione; c) l'avere tale decisione natura non «formale», ma di contenuto; d) l'essersi la “attività pregiudicante” verificata in una fase diversa del procedimento.

Di particolare rilevanza, quanto all'ultima di dette condizioni, è la rinnovata presa di posizione della Corte nel preciso richiamo della ragionevolezza più volte riaffermata (a partire dalla sentenza n. 131/1996) del principio di esclusione della rilevanza di una incompatibilità endofasica. Ma soltanto perché occorrerebbe in tal guisa preservare «l'esigenza di continuità e di globalità» dello sviluppo procedimentale da inammissibili frammentazioni collegabili a valutazioni anche di contenuto ad effetto pregiudicante sempre possibili, per consentire uno sviluppo dinamico di ciascuna fase procedimentale necessariamente orientato alla conclusione.

A ben guardare, trattasi di una esigenza operativa che, pur in presenza di situazioni che si rivelino oggettivamente incidenti sulla imparzialità della funzione giudicante del tutto analoghe a molte tra quelle scrutinate e censurate mediante le plurime pronunce additive, sembra non trovare una giustificazione in alcuno dei richiamati principi costituzionali, e ciò perché, concretizzandosi il pregiudizio nell'ambito della medesima fase processuale, l'impasse strutturale appare tuttavia superabile per necessità organizzative.

Si è così ritenuto «del tutto ragionevole che…resti preservata l'esigenza di continuità e di globalità, venendosi altrimenti a determinare una assurda frammentazione del procedimento, che implicherebbe la necessità di disporre, per la medesima fase del giudizio, di tanti giudici diversi quanti sono gli atti da compiere»(Corte cost., n. 64/2022, che sul punto richiama, tra le molte, le sentenze n. 7/2022, n. 66/2019, n. 18/2017, n. 153/2012, nn. 177 e 131/1996; ordinanze n. 76/2007, nn. 123 e 90/2004, n. 370/2000, n. 232/1999).

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.