In presenza di una pluralità di violazioni del d.lgs. 81/2008 basta un vantaggio minimo per riconoscere la responsabilità dell'ente

Ciro Santoriello
02 Maggio 2022

Nella pronuncia in commento si discute circa l'individuazione delle condizioni in presenza delle quali si può parlare di un interesse o vantaggio per l'ente in caso di lesioni subite da suoi dipendenti a cagione dell'inosservanza di prescrizioni antifortunistiche.
Massima

Ai fini della sussistenza dell'illecito di reato di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 è sufficiente che l'ente abbia tratto dalla vicenda un vantaggio anche minimo, purché si riscontri che già prima dell'infortunio a carico del dipendente l'attività aziendale si caratterizzava per una sostanziale inosservanza delle prescrizioni presenti nel d.lgs. n. 81/2008, le cui disposizioni venivano più volte violate dai vertici aziendali.

Il caso

In sede di merito, una società era condannata per l'illecito da reato di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 in relazione al delitto di cui all'art. 590 commi 2 e 3 c.p. commesso dal socio amministratore e di incaricato per la sicurezza in danno di un dipendente, sostenendosi che il delitto commesso dalla persona fisica fosse stato commesso «nell'esclusivo interesse dell'ente», in assenza di procedure amministrative volte a controllarne l'operato.

Il procedimento aveva ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi ai danni di un dipendente che mentre stava attraversando un piazzale adibito al deposito e alla movimentazione delle merci con mezzi meccanici venne investito da un muletto in retromarcia condotto da altro dipendente della medesima società. Il socio amministratore è stato ritenuto responsabile dell'evento lesivo per non aver adottato misure di prevenzione infortuni; in particolare, gli venne contestato di non aver predisposto una segnaletica orizzontale idonea ad individuare vie di circolazione sicure all'interno del piazzale (art. 163 comma 1 d.lgs. n. 81/2008); di non aver provveduto alla manutenzione del carrello elevatore, che aveva il cicalino di segnalazione della retromarcia non funzionante (art. 71 comma 4 lett. a) d.lgs. n. 81/2008); di non aver dotato il carrello elevatore di uno specchietto retrovisore (art. 15 d.lgs. n. 81/2008).

In sede di ricorso per cassazione, la società condannata lamentava, per quanto di interesse in questa sede, una carenza di motivazione con riferimento ai presupposti della responsabilità dell'ente ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001. Nell'affermare che il reato era stato commesso nell'interesse dell'ente, infatti, la sentenza impugnata si sarebbe limitata a sostenere, con motivazione apodittica, che l'inadempimento degli obblighi cautelari determinò l'adozione da parte dell'ente di «modalità organizzative sicuramente molto meno dispendiose» e tale affermazione sarebbe stata formulata senza tenere conto dell'entità delle spese complessivamente affrontate dalla società per manutenzione e sicurezza, di gran lunga superiori al risparmio che l'ente avrebbe conseguito grazie agli inadempimenti di cui è stato ritenuto responsabile.

Inoltre, si censurava la decisione impugnata in quanto secondo i giudici di merito la società avrebbe conseguito un vantaggio dal reato consistito in un incremento di produttività, ma la motivazione sul punto (rinvenibile, peraltro, solo nella sentenza di primo grado) sarebbe stata del tutto carente e meramente ipotetica. Si sottolinea in proposito che, per giurisprudenza consolidata, l'interesse e il vantaggio costituiscono due parametri di imputazione obiettiva alternativi, tra loro distinti, e operanti su piani diversi.

La questione

La responsabilità degli enti con riferimento ai reati colposi di cui agli artt. 589 e 590 c.p. inizia a presentare profili problematici con riferimento ad un aspetto inizialmente non considerato ovvero l'individuazione delle ipotesi in cui la violazione della normativa antinfortunistica da parte dei vertici aziendali o di loro delegati alla sicurezza determini effettivamente un vantaggio per la società o sia stata posta in essere nell'interesse dell'ente. In particolare, ci si domanda se per contestare all'impresa l'illecito di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 sia sufficiente che in capo alla società si rinvenga un qualsiasi beneficio o non occorra invece che la vicenda si inserisca all'interno di una politica aziendale intesa ad evitare ogni aggravio di costi connessi alla sicurezza sul lavoro.

Si ricorda, in via preliminare, che laddove la condotta criminosa si concreti nella violazione colposa della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro l'idea di profitto si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto (da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 5 febbraio 2021, n. 4480; Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2020, n. 29854). In particolare, il profitto può individuarsi 1) nel risparmio di spesa inerente all'ammodernamento ed alla messa a norma degli impianti, 2) nella mancata adozione delle doverose misure di sicurezza e prevenzione degli infortuni e malattie professionali (Cass. pen., sez. IV, 17 dicembre 2015, n. 2544), 3) nella prosecuzione dell'attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza, 4) nella accelerazione dei tempi di lavoro (Cass. pen., sez. II, 10 luglio 2015, n. 29512; Cass. pen., sez. IV, 22 gennaio 2020 (dep. 5 maggio 2020), n. 13575).

Vi è un contrasto di giurisprudenza circa l'individuazione dei presupposti in presenza dei quali dal reato colposo possa effettivamente derivare un vantaggio o un interesse per la società, dovendosi evitare il rischio di aprire le porte ad una sorta di automatismo in base al quale ogni qualvolta si verifichi una violazione antinfortunistica da cui derivi una malattia o un infortunio del lavoratore possa per ciò solo dirsi dimostrata la circostanza che l'ente ha tratto dalla vicenda un vantaggio economico derivante dal risparmio dei costi o da una accelerazione dei tempi di lavoro ovvero si finisca per imputare automaticamente gli eventi della morte o delle lesioni alla società tutte le volte in cui si accerti un suo interesse o vantaggio in relazione alla condotta imprudente della persona fisica che li ha causalmente determinati. Si discute di conseguenza, per l'appunto, circa l'individuazione delle condizioni in presenza delle quali si può parlare di un interesse o vantaggio per l'ente in caso di lesioni subite da suoi dipendenti a cagione dell'inosservanza di prescrizioni antifortunistiche.

Alcune decisioni, per rispondere a tale quesito, dopo aver evidenziato come non tutte le violazioni delle disposizioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro sono riconducibili allo scopo di far conseguire un vantaggio economico all'impresa, ben potendo individuarsi, nella casistica giurisprudenziale, casi in cui gli infortuni si verificano per cause non direttamente riconducibili ad una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza, ritengono necessario che il giudice debba fornire adeguata prova del fatto che gli addebiti di colpa specifica ascritti all'imputato persona fisica siano qualificabili come condotte deliberatamente strumentali al conseguimento di un apprezzabile risparmio di spesa da parte dell'ente, differenziando l'ipotesi in cui la violazione delle regole cautelari corrisponda alla realizzazione di una precisa politica d'impresa, orientata in tal senso per fini economici, dai casi in cui tale circostanza dipenda, invece, da una errata gestione o omessa vigilanza sulla normativa antinfortunistica (indipendentemente da un interesse specifico dell'ente) (emblematica Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2017, n. 42778 in cui si legge che «il vantaggio di cui all'art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, operante quale criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, può consistere anche nella velocizzazione degli interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di lavorazione», conseguente anche al mancato svolgimento di corsi di formazione dei lavoratori, ma al contempo si riconosce come non possa ritenersi che, nell'ambito di illeciti colposi addebitabili ad un soggetto che riveste la qualifica di datore di lavoro in una società, possa qualificarsi quest'ultima come beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica, giacché questa impostazione finirebbe per comportare che la verifica della sussistenza del criterio del vantaggio darebbe esiti positivi anche soltanto valorizzando fatti del tutto esteriori al reato).

L'opinione contraria, tendenzialmente prevalente, ritiene, invece, che l'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 non richieda la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente da reato colposo. Secondo questa impostazione, l'obiettivo di evitare una sorta di automatismo fra illecito della persona fisica e responsabilità della società in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica non imporrebbe di ritenere irrilevanti tutte quelle condotte colpose ed imprudenti che, pur sorrette dalla intenzionalità, non sarebbero comunque espressive, in quanto episodiche e occasionali, di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari (Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2020 (dep. 5 febbraio 2021), n. 4480; Cass. pen., sez. IV, 21 ottobre 2020 (dep. 28 ottobre 2020), n. 29854); come si legge in qualche decisione, il carattere della sistematicità, oltre ad essere eccentrico rispetto allo spirito della legge, «presenta in sé innegabili connotati di genericità: la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell'organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell'atteggiamento antidoveroso [e] d'altro canto, l'innegabile quoziente di genericità del concetto non consentirebbe neppure di stabilire, in termini sufficientemente precisi, quali comportamenti rilevino a tal fine (identici; analoghi; diversi, ma pur sempre consistenti in violazioni delle regole anti infortunistiche)». Secondo questa posizione giurisprudenziale, la rilevanza della ripetizione dell'inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche potrebbe avere rilevanza sul piano probatorio «quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, al tempo stesso scongiurando il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica» (Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2020 (dep. 5 febbraio 2021), n. 4480).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato dichiarato in parte inammissibile ed in parte infondato.

L'inammissibilità si riferisce alla censura relativa al difetto di motivazione in ordine al vantaggio derivato all'ente dalla consumazione del reato. In proposito, la decisione in epigrafe evidenzia come alla società sia stato contestato, infatti, che l'amministratore con delega alla sicurezza agì «nell'esclusivo interesse dell'ente» per realizzare un risparmio di spesa, sicché, nel sostenere che il vantaggio per l'ente non sarebbe provato, il ricorrente solleva una questione eccentrica rispetto al contenuto dell'imputazione e, conseguentemente, della sentenza che ha riconosciuto la responsabilità della società con esclusivo riferimento al parametro di imputazione dell'interesse.

Il ricorso è, invece, stato ritenuto infondato con riferimento al lamentato difetto di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla sussistenza dell'interesse quale criterio soggettivo di imputazione della responsabilità. Le sentenze di merito, infatti, hanno ricostruito con chiarezza il contesto nel quale l'infortunio si verificò evidenziando come nel piazzale non fosse presente alcuna forma di segnaletica stradale mentre il documento di valutazione del rischio, predisposto nel 2008, prevedeva espressamente la realizzazione di una segnaletica orizzontale volta a delimitare l'area adibita alla movimentazione dei mezzi, ma questa misura di prevenzione, che lo stesso datore di lavoro aveva individuato come doverosa, non fu mai attuata se non in epoca successiva all'infortunio; inoltre, in due occasioni (nel mese di agosto e nel mese di ottobre del 2013), il tecnico incaricato della manutenzione del muletto aveva segnalato la necessità di riparare o sostituire il "cicalino di retromarcia", senza che nessuno provvedesse in tal senso. Da queste circostanze si deduce che le modalità organizzative adottate dall'azienda - in particolare la scelta di non predisporre segnaletica orizzontale in un piazzale nel quale «erano accumulate grandi quantità di merci» e vi erano «numerosi spostamenti in contemporanea di uomini e mezzi» - erano «sicuramente molto meno dispendiose» e finalizzate quindi ad un risparmio di spesa, ritenendo irrilevante che quel risparmio sia stato «esiguo» se raffrontato alle spese che ordinariamente la società sosteneva per la manutenzione (documentate dalle schede contabili prodotte dal difensore dell'ente).

Questa motivazione è conferme al principio giurisprudenziale secondo cui il "risparmio" per l'impresa, nel quale si concretizza il criterio di imputazione oggettiva rappresentato dall'interesse, può consistere anche nella sola riduzione dei tempi di lavorazione (Cass. pen., sez. IV, 24 gennaio 2019, n. 16598; Cass. pen., sez. IV, 28 maggio 2019, n. 29538) e un tale risparmio si può realizzare anche consentendo lo spostamento simultaneo di uomini e mezzi senza delimitare le rispettive aree di azione. Sempre la giurisprudenza ritiene che il requisito della commissione del reato nell'interesse dell'ente non necessiti di una sistematica violazione di norme antinfortunistiche ed è ravvisabile anche in relazione a trasgressioni isolate se altre evidenze fattuali dimostrano il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente (Cass. pen., sez. IV, 24 marzo 2021, n. 12149). Di conseguenza, anche considerando che nel caso in esame la violazione delle norme in materia di prevenzione infortuni risultava essersi protratta nel tempo, la circostanza che il risparmio conseguito per la mancata adozione delle misure antiinfortunistiche sia stato minimo a fronte delle spese ingenti che la società ha affrontato per la manutenzione e la sicurezza, non assume rilievo nel caso concreto.

Nel rendere tali affermazioni, la decisione in epigrafe si sofferma altresì su alcune posizioni giurisprudenziali secondo cui «ove il giudice accerti l'esiguità del risparmio di spesa derivante dall'omissione delle cautele dovute», per poter affermare che il reato è stato realizzato nell'interesse dell'ente «è necessaria la prova della oggettiva prevalenza delle esigenze della produzione e del profitto su quelle della tutela dei lavoratori» (Cass. pen., sez. IV, 3 marzo 2021, n. 22256). Senza misconoscere la fondatezza di tale affermazione, la decisione sostiene che tale principio può operare soltanto «in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro» e in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare determinate cautele, «abbia agito proprio allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica»; può applicarsi, dunque, soltanto in situazioni nelle quali l'infortunio «sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un'errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori» e non quando, come nel caso di specie, quel rischio sia stato valutato esistente dallo stesso datore di lavoro, e le misure per prevenirlo, indicate nel documento di valutazione del rischio, siano state poi consapevolmente disattese per un lungo periodo di tempo.

Osservazioni

La sentenza della Cassazione pare apprezzabile perché realizza un soddisfacente punto di equilibrio fra le due opposte concezioni che si sono sopra indicate. Un tentativo in questo senso era già stato fatto dalla Cassazione, con la sentenza della IV sezione del 3 marzo 2021 n. 22256, che ha distinto l'ipotesi in cui si ritenga essersi in presenza di un delitto commesso nell'interesse della società da quella in cui invece viene in considerazione il vantaggio ottenuto dall'ente.

Secondo la decisione n. 22256/2021 quando il reato risulti realizzato nell'interesse dell'ente, essendosi in presenza di un criterio soggettivo che facendo riferimento all'intento del reo di arrecare un beneficio all'ente mediante la commissione del reato «affinché l'interesse per l'ente sussista, ferma l'irrilevanza della circostanza che si sia o meno realizzato il profitto sperato, sarà certamente necessaria la consapevolezza della violazione delle norme antinfortunistiche, in quanto è proprio da tale violazione che la persona fisica ritiene di poter trarre un beneficio economico per l'ente (vale a dire un risparmio di spesa)». Nel caso invece si ritenga essersi in presenza di un vantaggio per l'ente, venendo richiamato un criterio oggettivo, legato all'effettiva realizzazione di un profitto in capo all'ente quale conseguenza della commissione del reato, occorre che in capo alla società maturi effettivamente un tale beneficio economico: in questo secondo caso, dunque, «non è necessario che il reo abbia volontariamente violato le regole cautelari al fine di risparmiare, in quanto la mancanza di tale volontà rappresenta la sostanziale differenza rispetto all'interesse, ma solamente che risulti integrata la violazione delle regole cautelari contestate [purché ne sia derivato un beneficio economico] di importo non irrisorio».

Sulla scorta di questo duplice parametro di imputazione costituito dall'interesse e dal vantaggio dell'ente, la decisione n. 22256 verifica come impedire un'applicazione automatica della norma di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 che ne dilati a dismisura l'ambito di operatività consentendo l'applicazione in ogni caso di mancata adozione di qualsivoglia misura di prevenzione. Escluso che l'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 richieda la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati – essendo eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte che, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non siano espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari, considerato peraltro l'innegabile quoziente di genericità del concetto di sistematicità –, viene svolta una argomentazione parzialmente diversa a seconda che si versi in presenza di una condotta assunta nell'interesse dall'ipotesi in cui invece si riscontri un vantaggio dell'ente.

Nel primo caso, si nega sia necessaria la sistematicità delle violazioni, ritenendo ravvisabile il criterio di imputazione dell'interesse «anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente». E' solo in ragione di tale necessità di “evidenze fattuali” che può essere rilevante il profilo della sistematicità della violazioni, che non è presupposto necessario per la sussistenza del requisito dell'interesse dell'ente, ma invece «attiene al piano prettamente probatorio [...], quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, idoneo al tempo stesso a scongiurare il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica».

Quando invece si discuta di vantaggio dell'ente, ribadita l'estraneità del connotato della sistematicità delle violazioni e la sua rilevanza solo sul piano prettamente probatorio, si ritiene che per la condanna della società occorra la dimostrazione di un effettivo, apprezzabile (cioè non irrisorio) beneficio economico (che può consistere nel risparmio di spesa o nella massimizzazione della produzione, conseguenze per l'appunto dell'omissione di una singola cautela o della mera riduzione dei tempi di lavorazione) non desumibile, sic et simpliciter, dall'omessa adozione della misura di prevenzione dovuta. Ne deriva che i giudici di merito devono ritenere insussistente la responsabilità della società ove risulti «l'esiguità del risparmio di spesa derivante dall'omissione delle cautele dovute, in un contesto di generale osservanza da parte dell'impresa delle disposizioni in materia di sicurezza del lavoro (ed in mancanza di altra prova che la persona fisica, omettendo di adottare tali cautele, abbia agito proprio allo scopo di conseguire un'utilità per la persona giuridica, e – quindi – in una situazione in cui l'omessa adozione delle cautele dovute sia plausibilmente riconducibile anche a una semplice sottovalutazione del rischio o ad un'errata valutazione delle misure di sicurezza necessarie alla salvaguardia della salute dei lavoratori)».

Sono evidenti le assonanze fra le conclusioni cui giunge la menzionata decisione n. 22256. Rispetto a quest'ultima sentenza, la pronuncia in commento realizza una sorta di “sintesi” dei principi sovra menzionati e che sono così sintetizzabili: a) ferma la responsabilità dell'ente quando la violazione delle prescrizioni presenti nel d.lgs. n. 81/2008 sia stata intenzionale e volontaria – anche se evidentemente questo atteggiamento della volontà dei vertici aziendali non si estende fino al volere l'infortunio – nel perseguimento di un interesse dell'ente e ciò anche se dalla vicenda l'ente non ha ottenuto un vantaggio, b) quando la vicenda di reato ha consentito alla società di conseguire un vantaggio significativo, allora la responsabilità dell'ente sussiste anche se l'infortunio del lavoratore è dipesa da una violazione antinfortunistica episodica ed isolata, c) mentre se il vantaggio derivante dal fatto di reato è minimo, è necessario che, unitamente alla violazione che ha cagionato l'infortunio, si riscontri una politica aziendale orientata in un senso di assoluta disinteresse per la sicurezza del lavoratori.

Dunque, se si riscontra che la persona fisica responsabile del reato ha agito nell'interesse dell'ente, conformemente ad una scelta di politica aziendale volta alla massimizzazione del profitto a scapito della tutela della vita e della salute dei lavoratori, nulla quaestio per la condanna della società: in questi casi peraltro la prova che l'omessa adozione delle cautele sia il frutto di una scelta finalisticamente orientata ad un contenimento dei costi in materia di sicurezza non necessita di una dimostrazione circa la sistematica sottovalutazione dei rischi né di una serialità delle violazioni, purché emerga un collegamento fra l'inosservanza e l'interesse dell'ente. Quando invece si deve escludere la ricorrenza del requisito dell'interesse, allora la condanna deve fondarsi o sulla presenza di un significativo vantaggio in capo alla società ovvero sulla contestuale sussistenza di un vantaggio di importo non significativo ed il riscontro di una pluralità di violazioni delle disposizioni di cui al d.lgs. n. 81/2008 (ulteriori rispetto a quello che ha cagionato l'infortunio considerato in giudizio).

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