La realizzazione di una scaletta di accesso sul cortile comune a vantaggio di un immobile in proprietà esclusiva può considerarsi legittima?

02 Maggio 2022

L'uso della cosa comune da parte dei condomini offre sovente spunti di riflessione in ordine al suo àmbito di operatività che, seppur all'apparenza rivesta i caratteri di un concetto giuridico per lo più elementare, in realtà contiene al suo interno una portata applicativa ampia che funge da perno per nuove interpretazioni pragmatiche da parte della giurisprudenza, soprattutto di merito. Nello stesso tempo, l'uso della cosa comune offre ancora una volta l'occasione di approfondire i due limiti fondamentali previsti dall'art. 1102 c.c., ovvero il divieto di alterare la destinazione della cosa e il divieto di impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso.
Massima

L'uso della cosa comune da parte del singolo partecipante al condominio è consentito in conformità alla destinazione della cosa stessa, considerata non già in astratto, con esclusivo riguardo alla sua consistenza, bensì con riguardo alla complessiva entità delle singole proprietà individuali cui la cosa comune è funzionalizzata. Ciascun condomino ha, così, diritto di trarre dal bene comune un'utilità maggiore e più intensa di quella che ne viene tratta dagli altri comproprietari, purché non venga alterata la destinazione del bene o compromesso il diritto al pari uso da parte di quest'ultimi.

Il caso

La causa traeva origine dalla impugnazione proposta da una società proprietaria di un immobile sito all'interno di un condominio nei confronti del condominio medesimo risultata soccombente a seguito della sentenza di primo grado, in ragione della quale le domande formulate dalla società risultavano improponibili poiché coperte dal giudicato e che, in ogni caso, le opere eseguite erano da considerarsi illecitamente realizzate come evidenziato dalla CTU in corso di causa.

In sede di gravame, la società instava per una pronuncia di: 1) nullità della sentenza per difetto di motivazione ex art. 132 c.p.c.; 2) nullità della sentenza per violazione del principio ex art. 112 c.p.c. di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; 3) nullità e/o inesistenza della procura alle liti del condominio; 4) riconoscimento del diritto a mantenere le opere eseguite sulle parti comuni non costituendo in alcun modo violazione delle norme in materia condominiale; 5) accertamento che le condizioni attuali dell'immobile di proprietà dell'appellante fossero riferibili a responsabilità del condominio con condanna all'esecuzione degli interventi di rimozione delle criticità lamentate (infiltrazioni, umidità e muffe) onde permettere l'adeguamento dell'edificio alle norme urbanistiche ed igienico sanitarie; 6) condanna del condominio al risarcimento dei danni per mancato godimento/locazione dell'immobile.

L'appellato si costituiva in giudizio, sollevando una eccezione di carenza di titolarità e/o legittimazione attiva, contestando la ammissibilità e fondatezza della domanda dell'appellante attorea, chiedendo la conferma della decisone di primo grado.

La questione

Tralasciando le questioni relative alle sollevate eccezioni, comunque non prive di un'interessante disamina da parte della Corte d'Appello bresciana, si trattava di procedere all'accertamento del diritto della società appellante alla realizzazione di due unità immobiliari di proprietà esclusiva all'interno del complesso condominiale e, precisamente, di constatare la legittimità della esecuzione della porta di accesso di uno degli alloggi tramite un'apertura sul muro perimetrale comune e, conseguentemente, della scaletta di accesso a detta unità posta sul cortile comune al fabbricato.

Le soluzioni giuridiche

La Corte d'Appello di Brescia dichiarava la nullità della sentenza del Tribunale di Brescia appellata, rigettando le domande formulate dalla società appellante.

Esaminate preliminarmente le eccezioni in rito sollevate dalle parti, palesatesi infondate, con il primo motivo l'appellante denunciava la nullità della sentenza per difetto di motivazione avendo il giudice di prime cure dedotto la improponibilità della domanda formulata dalla società in quanto oggetto di giudicato, non specificando a quale sentenza il giudicante intendeva riferirsi e comunque non essendosi pronunziato sulle ulteriori domande avanzate.

Ciò detto, il giudice di secondo grado riteneva fondata la censura statuendo come il riferimento del primo giudice alla esistenza di un giudicato fosse da ritenersi certamente generico, non essendo stata indicata la pronuncia di diritto o la fattispecie concreta oggetto di statuizione; peraltro, non rientrando la suddetta pronuncia di nullità fra le ipotesi espressamente previste dalla disposizione codicistica di cui all'art. 354 c.p.c., le ulteriori domande svolte dall'appellante dovevano comunque essere decise dalla autorità adita.

Veniva, quindi, indagata dalla Corte d'Appello bresciana la fondatezza della domanda dell'appellante relativa ad ottenere l'accertamento del proprio diritto alla corretta esecuzione di opere in condominio consistenti, in particolare, nella realizzazione di due unità immobiliari adibite ad alloggio civile ricavate nel piano seminterrato del complesso condominiale: per accedere ad una delle unità abitative veniva creato un ingresso sulla parete condominiale ed una scaletta esterna laterale sulla corte comune condominiale.

Il giudice di seconde cure affermava il diritto dell'appellante a realizzare le due nuove unità immobiliari catastalmente derivate dalla variazione per frazionamento con diversa distribuzione degli spazi e di creare la porta di accesso di una delle due abitazioni sulla muratura esterna condominiale.

Infatti, in tema di comunione, a mente degli artt. 1102 e 1120 c.c., nell'esercitare il diritto di uso delle parti comuni condominiali, il singolo partecipante deve rispettare la destinazione del bene o dell'impianto, che non deve essere alterata, nonché la possibilità che gli altri condomini ne facciano un uso paritario; inoltre, la formazione della nuova apertura non deve pregiudicare la stabilità (costruttiva) o la sicurezza del fabbricato oltre al rispetto del decoro architettonico.

Verificate dette caratteristiche anche dal punto di vista tecnico costruttivo ed edilizio dal consulente tecnico d'ufficio, veniva consentito al condomino di eseguire opere nella porzione immobiliare in proprietà esclusiva rientrando l'uso (più intenso) della cosa comune nel diritto del condomino comproprietario di trarre dal bene una utilità maggiore rispetto a quella eventualmente impiegata dagli altri condomini comproprietari.

Viceversa, la Corte di Appello di Brescia riteneva illegittima la realizzazione della scaletta di accesso insistente sulla corte comune del fabbricato.

Tale opera aveva primariamente modificato lo stato dei luoghi e la destinazione a verde del giardino, avendo impedito agli altri condomini l'utilizzo di parte dell'area destinata all'uso comune; nondimeno, la creazione di una scaletta di accesso servente l'immobile di proprietà esclusiva della società appellante negava agli altri condomini l'uso - seppur potenziale - dell'area; in definitiva, l'utilizzo da parte del singolo proprietario, in sé lecito, non deve risolversi in una compressione quantitativa o qualitativa di quello, attuale o potenziale, di tutti gli altri comproprietari.

In conclusione, al rigetto della domanda volta ad accertare e dichiarare il diritto della società appellante a mantenere le opere realizzate sulle parti comuni, ne conseguiva l'infondatezza della domanda di condanna del condominio al risarcimento dei danni a causa del mancato godimento e locazione dell'immobile per effetto del diniego espresso alle opere.

Veniva, altresì, rigettata la domanda dell'appellante inerente all'accertamento delle condizioni attuali dell'immobile di proprietà riferibili a responsabilità del condominio per infiltrazioni, umidità e muffe e condanna all'esecuzione degli interventi di rimozione delle criticità lamentate, essendo generica e non provata in giudizio.

Le spese del giudizio, in conseguenza dell'accoglimento dei primi due motivi di appello e della dichiarazione di nullità della sentenza, con parziale reciproca soccombenza, venivano compensate in ragione di 1/5 delle spese di entrambi i gradi di giudizio e condanna della parte appellante alla rifusione degli ulteriori 4/5 in favore di parte appellata.

Osservazioni

La sentenza in esame si pone in linea con quell'orientamento giurisprudenziale secondo cui, in tema di condominio, il godimento esclusivo del bene in comunione è in sé legittimo e consentito laddove non si spinga ad oltrepassare i limiti fissati dall'art. 1102 c.c. che consente di servirsi della cosa comune purché non ne venga alterata la destinazione e non si impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il loro diritto.

Le modificazioni effettuate dal singolo condominio al bene d'uso comune non rappresentano tout court una lesione ex art. 1102 c.c., dovendo invece considerare l'effettività della lesione in ragione del fatto che l'utilizzo più ampio del bene comune, posto in essere dal singolo condomino, non configura automaticamente una lesione dei diritti degli altri partecipanti (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466).

L'art. 1102 c.c. persegue lo scopo di assicurare al singolo partecipante la comunione, quanto all'esercizio concreto del suo diritto, le maggiori possibilità di godimento della cosa e, pertanto, legittima quest'ultimo a servirsi di essa anche per fini esclusivamente propri, traendone ogni possibile utilità.

Il legislatore non ha espressamente indicato una classificazione delle facoltà di godimento usufruibili dal singolo condomino bensì ha conferito al singolo partecipante la comunione il potere di servirsi della cosa comune in tutti i modi che non siano specificatamente vietati dalla legge.

Spetterà, poi, alla sapiente opera ermeneutica della giurisprudenza e della dottrina individuare ed indagare le fattispecie concrete che si palesano nella prassi applicativa, in cui ogni partecipante alla comunione è da considerarsi proprietario ed utilizzatore della cosa comune, sia pure entro i confini contrassegnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti; precisamente, la valutazione circa la legittimità di un uso particolare della cosa andrà effettuata in base al raffronto tra uso diverso e possibile destinazione della cosa.

L'utilizzazione della cosa comune che, di norma, viene riferita dall'uso c.d. “normale”, così come praticato dalla generalità dei consociati, invero si può configurare anche in modalità differenti, senza eccedere nell'abuso e sempre che la “destinazione” della cosa resti rispettata: nella pronuncia in oggetto vengono pedissequamente analizzati entrambi i limiti fissati dalla disposizione codicistica.

Quanto al primo limite, concernente il divieto di alterare la destinazione, esso deve essere inteso come quella specifica funzione che la cosa ha avuto sin dal suo inizio, ovvero che i condomini gli hanno conferito con la pratica, nel senso di impedire che il singolo condomino modifichi l'utilità che gli altri partecipanti al condominio hanno diritto di conseguire dal bene comune e, comunque, di impedire che il valore oggettivamente apprezzabile del bene subisca una trasformazione.

Non sarà, pertanto, ammissibile alterare la destinazione d'uso della cosa comune per iniziativa del singolo condomino, laddove la modifica impedisca agli altri condomini di continuare a godere delle cose secondo il loro diritto.

Così, il novero della destinazione “d'uso” della cosa non sarà da intendersi meramente come “finalità” o “scopo” della cosa comune - nel caso di specie di area destinata a verde - ma, necessariamente, in una prospettiva più ampia e pragmatica, valutando anche i possibili risvolti economici in capo a chi ha mutato la destinazione d'uso sottraendo una parte della res all'uso comune, appagando nel contempo un interesse proprio del singolo e compromettendo il diritto al pari uso da parte dei condomini.

In effetti, nella fattispecie affrontata nella sentenza in epigrafe, la scaletta realizzata sulla corte comune aveva l'unico scopo di consentire l'accesso ad una proprietà esclusiva condominiale, privando giocoforza gli altri condomini dell'uso potenziale dell'area compromessa, configurando mutamento di destinazione la direzione della funzione della cosa comune a vantaggio di beni esclusivi di un condomino rispetto al quale i comproprietari non avevano inteso “destinare” il bene comune.

L'utilizzazione della cosa comune o di una sua porzione da parte di uno o di alcuni dei partecipanti deve ritenersi legittima solo nel caso in cui sia attuata in esecuzione di una decisione unanime raggiunta tra tutti i titolari del diritto; pertanto, l'unica deroga al principio della parità di godimento tra tutti i condomini nella regolamentazione dell'uso della cosa comune stabilita dall'art. 1102 c.c. sarà da rinvenirsi nella volontà dei condomini espressa all'unanimità e tale da riconoscere ad alcuni il diritto di fare un uso del bene, dal punto di vista qualitativo, diverso dagli altri (Cass. civ., sez. II, 7 dicembre 2006, n. 26226; Cass. civ. sez. II, 14 ottobre 1998, n. 10175).

Entra ancora una volta in gioco - ma senza particolari nuove eccezioni - la nozione di “uso paritetico” o “paritario” della cosa comune che non deve essere inteso nel senso di un uso identico e contemporaneo della cosa comune (nel tempo e nello spazio) da parte di tutti i condomini - che comporterebbe un sostanziale divieto per ogni partecipante di servirsi del bene a proprio esclusivo o particolare vantaggio parimenti laddove non risulti alterato il rapporto di equilibrio tra i condomini nel godimento della cosa- bensì in una prospettiva in cui ciascuno abbia il diritto ad usare potenzialmente della cosa al pari degli altri (v., altresì, Cass. civ., sez. II, 14 aprile 2015, n. 7466; Cass. civ., sez. II, 22 ottobre 2014, n. 22464).

L'argomento trattato consente di ribadire come i rapporti condominiali debbano essere improntati al principio di solidarietà e ricercare un continuo bilanciamento fra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, impedendo qualsiasi intenzione dei condomini di possedere la res comune in maniera esclusiva.

Invero, in una situazione analoga al caso in esame, ovvero in contesti di abuso della cosa comune da parte di uno dei condomini, l'amministratore di condominio ha il potere-dovere di agire in giudizio a tutela dell'interesse comune al fine di costringere il condomino inadempiente alla osservanza dei limiti fissati dall'art. 1102 c.c. (Cass. civ., sez. II, 19 marzo 2021, n. 7884).

Proprio in funzione di tutela del preminente interesse comune dell'utilizzo della cosa comune entro i predeterminati parametri testè delineati, la denuncia dell'utilizzo della cosa comune in spregio dei diritti dei condomini comproprietari rientra giustappunto tra gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell'edificio che spettano all'amministratore, ai sensi dell'art. 1130, n. 4), c.c., senza alcuna necessità di autorizzazione dell'assemblea dei condomini (v., ex multis, Cass. civ., sez. II, 3 maggio 2001, n. 61909).

Viceversa, si potrebbe prospettare anche la diversa ipotesi laddove il diritto del singolo condominio di utilizzo della cosa comune non fosse contrario al disposto dell'art. 1102 c.c., ipotesi in cui deve certamente richiamarsi l'orientamento della Suprema Corte da cui risulta, sine dubio, che “La delibera dell' assemblea di condominio che privi il singolo partecipante dei propri diritti individuali su una parte comune dell' edificio, rendendola inservibile all'uso e al godimento dello stesso, integra un fatto potenzialmente idoneo ad arrecare danno al condomino medesimo, il quale, lamentando la nullità della delibera, ha facoltà di chiedere la condanna al risarcimento del danno del condominio, quale centro di imputazione degli atti e delle attività compiute dalla collettività condominiale e delle relative conseguenze patrimoniali sfavorevoli” (Cass. civ., sez. II, 26 settembre 2018, n. 23076).

Riferimenti

Moscatelli, Il codice del condominio, Duepuntozero, 2020, 48;

Rezzonico, Manuale del condominio, Rimini, 2018, 126;

De Tilla, Sull'uso della cosa comune, in Arch. loc. e cond., 2001, 246;

Favale, La comunione ordinaria, Milano, 1997, 149.

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