Permessi premio agli “ostativi” non collaboranti e il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata

Lorenzo Cattelan
11 Maggio 2022

Le questioni giuridiche presupposte dal caso che qui ci occupa dialogano con gli approdi giurisprudenziali in materia di accesso ai permessi premio ai detenuti “ostativi” che – dapprima inaugurati dalla Cassazione nel 2019 e, successivamente, avallati dalla Corte Costituzionale nel 2022 – hanno sposato la tesi del regime probatorio differenziato.
Massima

Il requisito dell'assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti attuali con la criminalità organizzata, eversiva o terroristica, alla luce delle indicazioni espresse dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 253/2019 e n. 22/2022 e della Suprema Corte di cassazione nella sentenza n. 2467/2021, va valutato innanzitutto in relazione ad allegazioni del detenuto sulle ragioni del silenzio relativo alle vicende di cui alle condanne in esecuzione considerato che questo silenzio giustifica il maggior rigore probatorio (da non confondere peraltro con il silenzio rispetto al maggiore bagaglio informativo di cui il collaborante per scelta, al pari del collaborante suo malgrado, può essere portatore).

Ulteriore elemento che il Magistrato di Sorveglianza è tenuto a valutare riguarda l'aspetto dei possibili legami dei familiari con i sodali anche alla luce delle allegazioni del detenuto, fermo restando che gli oneri di allegazione non potranno andare oltre le circostanze che ricadono sotto la sua esperienza percettiva e dovendosi peraltro escludere la possibilità di far ricadere automaticamente sul detenuto condotte poste in essere da persone della sua cerchia familiare a lui non riconducibili, pena la frustrazione del principio della responsabilità personale e della finalità rieducativa della pena.

Il caso

Un condannato alla pena dell'ergastolo per aver commesso tre omicidi nell'ambito dell'appartenenza ad una associazione di stampo mafioso, oltreché per essersi reso responsabile dei delitti di detenzione illegale di armi ed incendio doloso, chiede, dopo diciassette anni di detenzione, di poter fruire di un permesso premio ai sensi dell'art. 30-ter ord. penit. per incontrare la moglie e i figli presso una struttura protetta.

In relazione ai crimini accertati, il competente Tribunale di Sorveglianza, nel respingere il reclamo avverso un decreto di inammissibilità di permesso premio, aveva già avuto modo di accertare che i tre omicidi, ancorché non espressamente aggravati ex art. 7 l. n. 203/91 (circostanza non contestabile nei reati puniti con pena dell'ergastolo) erano stati commessi dall'interessato per agevolare l'attività dell'associazione mafiosa di appartenenza e, in uno dei tre casi, anche con modalità mafiose e, pertanto, si era ritenuto indispensabile, in allora, l'accertamento della collaborazione con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit. per poter accedere ai permessi premio.

Successivamente, il Tribunale di Sorveglianza respingeva per ben due volte la richiesta di accertamento della collaborazione impossibile con riferimento agli episodi omicidiari, osservando che permanevano delle zone d'ombra quanto al coinvolgimento di altri soggetti nei cui confronti risultava avviato e ancora pendente un procedimento penale.

L'odierno istante, pertanto, rientra tra i detenuti “ostativi” non collaboranti, categoria per la quale – prima della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 – era preclusa la possibilità di chiedere l'ammissione al beneficio del permesso premio (che, in ottica trattamentale, costituisce il primo “assaggio” di libertà) e per la quale, dunque, era negato il cd. diritto alla speranza.

Volgendo lo sguardo alle risultanze istruttorie, il territoriale Comitato Prefettizio per l'Ordine e la Sicurezza descrive l'istante come una figura apicale del contesto criminogeno di origine, ambiente da cui non si ricaverebbero elementi da cui desumerne la rescissione.

La Questura dà ulteriormente conto che la moglie del detenuto dichiara di sostenersi, oltre che del provento di lavori non regolarmente dichiarati, grazie allo stipendio che il marito ergastolano percepisce per l'attività lavorativa svolta all'interno della casa di reclusione.

Gli atti dell'osservazione intramuraria, invece, evidenziano un percorso sempre regolare e partecipativo alle offerte trattamentali, in particolare nell'ambito dell'attività lavorativa che ha segnato per l'istante «il momento di riscatto e di manifestazione della volontà di prendere le distanze dal vissuto deviante» (p. 3 decreto in commento).

Le relazioni di sintesi aggiornate al 2019 e al 2021 confermano la condotta sempre regolare e partecipativa del detenuto, connotata da impegno nel lavoro e nelle attività risocializzanti; da ultimo, la relazione più recente, esprime parere favorevole alla fruizione di permessi premio con modalità protette.

Infine, merita di esser segnalato che il condannato, pur negando qualsiasivoglia responsabilità per gli omicidi addebitatigli, ribadisce la presa di distanza dal contesto di cui faceva parte prima della carcerazione e dal quale dichiara di essersi dissociato, tanto da aver visto accolta l'istanza di declassificazione nel corso del 2015.Quanto alle ragioni del silenzio, il detenuto ammette di non aver mai collaborato con l'autorità inquirente per paura di ritorsioni nei confronti della moglie e dei figli.

La questione

Le questioni giuridiche presupposte dal caso che qui ci occupa dialogano con gli approdi giurisprudenziali in materia di accesso ai permessi premio ai detenuti “ostativi” che – dapprima inaugurati dalla Cassazione nel 2019 e, successivamente, avallati dalla Corte Costituzionale nel 2022 – hanno sposato la tesi del regime probatorio differenziato. Per l'effetto, mentre per i collaboranti “impossibili” o “inesigibili” il Magistrato di Sorveglianza si deve limitare a valutare la sola sussistenza di rapporti attuali con il contesto malavitoso come prescritto dall'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit., per tutti gli altri condannati che non abbiano collaborato con la giustizia vige l'onere dimostrativo della assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e del pericolo di un loro ripristino (motivo per il quale persiste l'interesse all'accertamento della collaborazione impossibile o inesigibile).

Ciò posto, gli interrogativi che apertamente si pone la decisione in commento sono i seguenti:

  • cosa differenzia, in concreto, l'assenza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata dall'assenza del pericolo di un loro ripristino? Qual è il contenuto concreto di tali requisiti?
  • qual è la portata dell'onere probatorio richiesto al detenuto non collaborante (per sua scelta)? In altri termini, in cosa si sostanzia l'onere di specifica allegazione rafforzata riguardante il pericolo di ripristino dei collegamenti col crimine organizzato?
  • cosa di più e di diverso (rispetto agli elementi dedotti in punto di attualità di collegamenti) dovrebbe allegare il detenuto?
Le soluzioni giuridiche

Il decreto in commento rileva, anzitutto, l'ammissibilità dell'istanza avanzata dal detenuto ergastolano non collaborante (per scelta), avendo egli espiato oltre 10 anni di pena. Difatti, come si è ricordato, l'intervento additivo della Corte costituzionale (Corte cost., n. 253/2019) ha determinato la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis comma 1 ord. penit. nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi indicati possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.

Sotto il diverso profilo della meritevolezza, il Magistrato di Sorveglianza di Padova valorizza non solo il «comportamento sempre corretto e partecipativo tenuto nel corso del lunghissimo periodo di detenzione che lo ha visto “…trarre profitto dalle risorse offerte dall'Amministrazione per migliorare il proprio agito, per imparare un lavoro, per rispettare il proprio credo religioso”, ma anche per il percorso di riflessione critica avviato pur a fronte della negazione della responsabilità per i reati più gravi» (p. 5 decreto in commento).

Particolarmente rilevante ai nostri fini è l'argomentazione svolta in punto di valutazione della pericolosità dell'istante.

Come accennato, in assenza dell'accertamento della collaborazione attiva e/o impossibile-inesigibile, è necessario valutare la pericolosità dell'istante in relazione non solo all'assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata ma anche al pericolo del loro ripristino. A tal proposito, il Magistrato patavino richiama il recente approdo costituzionale che, sull'assunto per cui il silenzio su circostanze della vicenda criminosa non ancora chiarite si traduca in un favore per la consorteria criminosa e fondi una presunzione di maggiore pericolosità del condannato rispetto ai non collaboranti “loro malgrado”, richiede al detenuto non collaborante per scelta una regola “probatoria” di maggiore rigore [così, Corte cost., 25 gennaio 2022 (ud. 30 novembre 2021), n. 20].

A questo punto, la decisione in commento analizza i rassicuranti elementi che inducono a ritenere, nel caso concreto, integrato il profilo della assenza di collegamenti con la criminalità. Si citano a tal fine: il consistente lasso temporale intervenuto dalla declassificazione dal regime ex art. 41-bis ord. penit.; il tempo trascorso dai fatti e comunque il positivo percorso trattamentale intrapreso negli oltre sedici anni – ininterrotti – di detenzione; la posizione critica rispetto alla partecipazione all'associazione criminale di appartenenza e la manifestata volontà di dissociarsi dai valori malavitosi dell'organizzazione; la ritenuta capacità reddituale del condannato e dei familiari che viene valutata come non indicativa di redditi di provenienza illecita; l'assenza, nelle note delle forze di polizia e della DDA, di elementi informativi indicativi di collegamenti attuali del predetto e dei familiari con la criminalità organizzata.

Il vero punto spinoso affrontato dal Magistrato di Sorveglianza ruota attorno alla valutazione dell'assenza del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, eversiva o terroristica. Tale requisito è di particolare rilevanza in quanto caratterizza il regime di maggiore rigore posto in capo al “non collaborante per scelta” rispetto al “non collaborante suo malgrado”. Tale elemento probatorio, come lucidamente descritto dalla decisione in commento, è apparso da subito «di difficile concretizzazione pratica se non di “problematica aderenza a canoni epistemologici basati sulla materialità dell'oggetto”, come evidenziato dalla stessa Suprema Corte di cassazione con sentenza n. 3887/2019».

Ciò posto, l'esposizione di tale questione giuridica va necessariamente arricchito da un'ulteriore considerazione. Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, pare scorgere una criticità nel percorso argomentativo seguito dalla Corte costituzionale con la più volte citata sentenza n. 20/2022. Nel dettaglio, si rileva che l'istituto (di matrice giurisprudenziale) della collaborazione impossibile o inesigibile non nasce certo con l'intento di attribuire una qualifica di minor pericolosità al condannato non collaborante suo malgrado. In questi termini, invece, si esprime la Consulta nel 2022, a detta della quale «la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte (sentenze n. 68/1995, n. 357/1994 e n. 306/1993), tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile». In realtà, il Magistrato patavino ben sottolinea che la ragione dell'introduzione della collaborazione impossibile/inesigibile si rinviene nella volontà di «evitare una declaratoria di incostituzionalità di un ergastolo che, per il non collaborante suo malgrado, non lasciava alcuna speranza di reinserimento sociale, senza con questo riconoscere una minore pericolosità del detenuto che non intendeva collaborare».

Anche alla luce di tale rilievo, l'opera dell'interprete si rivela particolarmente complessa allorquando le istanze di permesso premio vengano avanzate da condannati per reati di criminalità organizzata non collaboranti “loro malgrado” che, anche se avessero potuto, non avrebbero di certo collaborato con la giustizia. Senza contare che, ai fini di cui all'art. 30-ter ord. penit., il silenzio che il legislatore intende scongiurare è quello riferito alle condanne in esecuzione. In altri termini, un conto è la collaborazione ordinaria ex art. 58-quater ord. penit. (ossia limitata ai fatti oggetto delle condanne in esecuzione) ed un altro conto è la collaborazione “totale” (ossia coinvolgente l'intera storia criminale dell'interessato) rilevante ai sensi dell'art. 16-nonies l. 15 marzo 1991, n. 82. A maggior ragione, quindi, il silenzio serbato dal condannato nel contesto che qui ci occupa è un elemento neutro che nulla dice sul grado di pericolosità dello stesso detenuto.

Alla luce di tali premesse (nemmeno troppo implicite), il Magistrato di Sorveglianza di Padova ritiene che il pericolo di ripristino debba essere valutato in relazione alle motivazioni del detenuto sulle ragioni del silenzio relativo alle vicende di cui alle condanne in esecuzione (in questo senso si richiama Cass. pen., 14 luglio 2021 (dep. 10 settembre 2021), n. 2467, secondo cui il condannato non collaborante per scelta «non può essere chiamato a 'riferire' (in sede di domanda introduttiva) su circostanze di fatto estranee alla sua esperienza percettiva e, soprattutto, non può fornire - in via diretta - la prova negativa 'diretta' di una condizione relazionale, quale è il “pericolo di ripristino” dei contatti. Il pericolo è, infatti, sempre frutto di un giudizio prognostico - spettante al giudice - su cui la parte può incidere in modo solo relativo»). Più precisamente, gli elementi indicati dalla Corte di cassazione per riempire di contenuto il requisito del pericolo di ripristino già rilevano sotto il profilo della attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (assenza di procedimenti posteriori alla carcerazione, assenza di corrispondenza sequestrata) o, comunque, attengono al percorso rieducativo che la Corte costituzionale non considera sufficiente ai fini della valutazione che qui ci occupa.

La decisione in commento, poi, approfondisce la situazione dei non collaboranti “ostativi” per scelta che chiedano di essere ammessi al beneficio del permesso premio pur quando la famiglia dello stesso istante detenuto è ancora inserita nel territorio in cui la cosca di appartenenza è operante.

In questo caso «si ritiene che si debba valutare attentamente l'aspetto dei possibili legami dei familiari con i sodali anche alla luce delle allegazioni del detenuto, fermo restando che gli oneri di allegazione non potranno andare oltre le circostanze che ricadono sotto la sua esperienza percettiva e dovendosi peraltro escludere la possibilità di far ricadere automaticamente sul detenuto condotte poste in essere da persone della sua cerchia familiare a lui non riconducibili, pena la frustrazione del principio della responsabilità personale e della finalità rieducativa della pena» (p. 7 decreto in commento).

Tanto esposto, il Magistrato di Sorveglianza di Padova pare evidenziare che, nonostante i compiuti sforzi argomentativi, si verifichi ciò che potremmo definire un Ewige Wiederkunft des Gleichen (ossia l'eterno ritorno dell'uguale, di nietzschiana memoria). Difatti, le ragioni addotte dal condannato in ordine alle motivazioni del suo silenzio e l'inesistenza di legami dei familiari con la consorteria malavitosa di origine poco aggiungono agli elementi che già si valutano come indicativi dell'assenza di collegamenti con la criminalità organizzata «(e che di fatto di per sé già preludono ad una valutazione anche sull'assenza di pericolo di ripristino di contatti con la criminalità organizzata) e poco differenziano il regime di valutazione dei non collaboranti per scelta rispetto ai non collaboranti loro malgrado».

Ad ogni modo, si evidenzia che una diversa interpretazione finirebbe per creare un requisito privo di contenuto (cosa di più e di diverso dovrebbe allegare il detenuto?) ovvero finirebbe per introdurre una sorta di “probatio diabolica” che renderebbe la presunzione di pericolosità rafforzata, seppur relativa, difficilmente vincibile e vanificherebbe pertanto l'intervento additivo della sentenza Coste cost. n. 253/2019.

Alla luce di quanto esposto, nel caso di specie, il Magistrato di Sorveglianza ha accolto la richiesta del detenuto e lo ha ammesso alla fruizione del beneficio premiale extramurario (da svolgersi in ambiente protetto ed in regime di detenzione domiciliare). Nel merito, le note della DDA e le informative della Questura non sono parse offrire elementi concreti indicativi, in termini di attualità, di un coinvolgimento del condannato (o dei suoi familiari) nei circuiti criminali. Diversamente, si sono ritenuti integrati i presupposti per la concessione del permesso premio sia sotto il profilo della meritevolezza che dell'assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata e del pericolo di ripristino, «a fronte di un percorso detentivo di oltre 16 di carcerazione effettiva connotato non solo da condotta regolare e partecipativa ma anche da una importante e approfondita riflessione critica sul disvalore delle gravi condotte criminose, sul disvalore del sistema di valori su cui si fondava l'associazione criminale di appartenenza; il detenuto ha trovato nell'attività lavorativa e nei rapporti affettivi un importante fattore di riscatto e la motivazione e determinazione ad avviare un percorso di reinserimento sociale improntato sulla legalità» (p. 9).

Osservazioni

Il provvedimento in commento è di particolare interesse in quanto propone un esplicito confronto con le recenti sentenze della Corte Costituzionale in materia di accesso ai permessi premio da parte dei condannati ostativi non collaboranti. Si tratta, quindi, di un provvedimento significativo che rappresenta una delle prime risposte applicative all'autorevole dictum dei Giudici di piazza del Quirinale. Compito, a dire il vero, arduo se si consideri che il requisito del «pericolo di ripristino di collegamenti attuali con la criminalità organizzata» viene salvato dalla giurisprudenza (pressoché unanime) senza, tuttavia, attribuirvi un contenuto autonomo e – in sé – totalmente diverso rispetto all'indagine sull'attualità dei medesimi collegamenti. Peraltro, con riguardo a condannati in regime di detenzione da – almeno – un decennio è poco agevole individuare elementi utili alla dimostrazione dell'attualità dei collegamenti; in queste ipotesi, cioè, è l'indagine sul pericolo di ripristino ad essere in grado di fornire un valido parametro cui ancorare la valutazione relativa all'assenza di pericolosità sociale degli interessati. Fermo restando che, in ogni caso, anche per i detenuti collaboranti risulta necessaria una valutazione in punto di pericolosità. Al di là dei profili inerenti al tipo di collaborazione prestata (o meno) dal detenuto, in altri termini, quel che pare significativo indagare è l'effettiva portata della dissociazione del condannato rispetto all'ambiente criminale di appartenenza.

Il quesito che appare di difficile risoluzione, quindi, è il seguente: in che cosa si differenzia il requisito della “assenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata” rispetto alla “assenza di un pericolo di ripristino” con il contesto di crimine organizzato di provenienza? Che cosa è chiamato a provare (o – quantomeno – allegare) il detenuto non collaborante in ordine a ciascuno dei predetti requisiti? Quale tipo di onere dimostrativo aggiuntivo (rispetto ai collegamenti attuali) è chiamato a fornire il condannato in relazione al pericolo di ripristino?

La recente della Corte costituzionale n. 20 del 2022 non è stata accolta unanimemente con favore dalla dottrina, specie nella parte in cui pare considerare la valutazione sul “pericolo di ripristino” in termini autonomi e aggiuntivi rispetto al requisito dell'“attualità dei collegamenti”. Le critiche, in sostanza, muovono dall'assunto per cui – in concreto – la concessione del beneficio extramurario ai condannati collaboranti impossibili/inesigibili era (ed è) subordinata anche alla positiva prognosi di assenza del pericolo di ripristino di collegamenti tra il detenuto e l'ambiente malavitoso. Peraltro, merita di essere evidenziato che già la stessa Corte Costituzionale – con la più volte richiamata sent. 253/2019 – ha evidenziato che l'accostamento del requisito dell'esclusione dell'attualità dei rapporti (già previsto nel comma 1-bis) all'ulteriore prova dell'esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti medesimi – «tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali» – costituisce un «aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il già richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ord. penit., finisca per essere vanificato». Per questi motivi, (anche) chi scrive ritiene che la valutazione circa l'assenza del pericolo di ripristino dei collegamenti andrebbe più correttamente letto come la concreta declinazione, per gli autori di reati della criminalità organizzata, del requisito dell'assenza di pericolosità sociale, da valutare – in senso prognostico e probabilistico – ai fini della concessione del beneficio di cui all'art. 30-ter ord. penit.

Seguendo tale linea ricostruttiva, peraltro condivisa nelle motivazioni dell'ordinanza di rimessione della questione di legittimità che ha condotto alla qui criticata sentenza n. 22/2020, l'assenza del pericolo del ripristino era requisito già valutabile dal Magistrato di Sorveglianza che si trovava a valutare la concedibilità del permesso ai sensi del comma 1-bis dell'art. 4-bis ord. penit., anche per la considerazione logica per cui, rispetto a un condannato per reati di criminalità organizzata di stampo mafioso che abbia trascorso un significativo periodo di detenzione carceraria, il problema principale che si pone, più che quello relativo alla sussistenza attuale di collegamenti con la criminalità organizzata spesso da escludere soprattutto nei casi di condannati non sottoposti a regime ex art. 41-bis ord. penit., è proprio quello del pericolo di ripristino dei collegamenti. Sul piano sistematico, tale interpretazione è stata seguita da un primissimo orientamento della Corte di cassazione che affermava come, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 253/2019 doveva negarsi la persistenza dell'interesse alla collaborazione impossibile o inesigibile poiché il presupposto della collaborazione impossibile o inesigibile era stato introdotto nell'ordinamento quale sorta di contraltare alla collaborazione effettiva con la giustizia nei casi in cui la stessa non fosse utilmente praticabile: «…Una volta venuta meno l'assoluta necessità della sussistenza di quest'ultima per poter accedere al permesso premio viene a perdere giustificazione anche la prima» (Cass. pen., n. 3309/2020, ric. Spampinato; nello stesso senso: Cass. pen., sez. I, 13 dicembre 2019, n. 1636, Marrone; Cass. pen., sez. I, 10 dicembre 2019, n. 7931, Triglia).

Pare solo il caso di precisare, poi, che l'accertamento della collaborazione impossibile nulla esprime in merito all'atteggiamento soggettivo del singolo condannato e, più in generale, al profilo di pericolosità concreta del singolo condannato in relazione alla posizione apicale o marginale rivestita all'interno della organizzazione criminale (si veda, in questi termini, la già richiamata Cass. pen., sez. I, 23 gennaio 2017, n. 3263). Detto altrimenti, l'argomentazione su cui si fonda la differenziazione del regime della pericolosità («l'accertamento in positivo della impossibilità o inesigibilità della collaborazione consente di qualificare in termini univoci la scelta del detenuto di non fornire informazioni all'autorità giudiziaria») non ha fondamento se si considera che, come già evidenziato, rimane estraneo alla verifica dell'accertamento della collaborazione impossibile (oltre che inesigibile) qualsivoglia verifica sull'atteggiamento soggettivo del detenuto e, in particolare, sulla circostanza che egli voglia effettivamente collaborare, rilevando unicamente il solo dato oggettivo dell'impossibilità della collaborazione. Anzi, può capitare che l'atteggiamento soggettivo delle due diverse figure di non collaboranti sia identico, perché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile può non voler collaborare. Non è da escludere, infatti, che un detenuto di elevatissima caratura criminale che non abbia mai espresso alcuna volontà di collaborare possa vedersi riconosciuta la collaborazione impossibile, a differenza di un condannato di spessore criminale più modesto. Per questo, il decreto in commento ritiene che l'indagine sul pericolo di ripristino riguardi le motivazioni addotte dal detenuto sulla volontà di dissociarsi dal contesto malavitoso di appartenenza.

Peraltro, come ricordato, l'indirizzo giurisprudenziale costituzionale e di legittimità più recente ritiene che ciò che giustifica il maggior rigore nella valutazione di pericolosità è il silenzio rispetto non già a tutto il bagaglio conoscitivo del detenuto, bensì alle vicende di cui alle condanne in esecuzione rispetto alle quali non ha visto accertata la collaborazione impossibile. Conseguentemente, l'ambito della collaborazione ex art. 58-quater ord. penit., che consente l'accesso ai benefici secondo il regime ordinario, non va confuso con quello del collaboratore totale, che consente invece di accedere ai benefici secondo il regime speciale previsto dall'art. 16-nonies d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, con l. 15 marzo 1991, n. 82.

Quanto esposto, in conclusione, dimostra che l'inconsistenza delle allegazioni corroboranti l'assenza del pericolo di ripristino pare farsi ancor più evidente nelle ipotesi in cui la richiesta di permesso premio provenga da un detenuto “ostativo” non collaborante che neghi il reato oggetto di condanna (come nel caso che ha dato origine al decreto in commento) e per cui relazioni della DDA non individuino fattori sui cui fondare ragionevoli preoccupazioni in ordine al pericolo di riviviscenza delle dinamiche criminali di origine. Detto altrimenti, laddove le stesse autorità inquirenti e le forze dell'ordine nulla segnalino, al di fuori delle condotte delittuose di cui alla condanna in espiazione, quanto a elementi significativi sotto il profilo del pericolo di un ripristino di collegamenti, l'onere di specifica argomentazione del detenuto non potrà che essere incentrato sulle ragioni del silenzio e sulla chiarezza quanto alla possibilità che egli, direttamente o tramite i propri familiari, possa riprendere i contatti con le persone inserite nell'associazione criminosa di cui ha fatto parte.

Ecco, dunque, che il confronto con i recenti approdi della giurisprudenza costituzionale pone l'interprete di fronte ad un eterno ritorno dell'uguale. I definitiva, in relazione alle istanze ex art. 30-ter ord. penit. provenienti dai condannati non collaboranti per scelta, pur di attribuire una qualche consistenza alla necessità di vagliare autonomamente il requisito del pericolo di ripristino dei collegamenti con la criminalità organizzata (rispetto all'elemento della attualità di detti collegamenti), si giunge ad ammettere la sufficienza dell'esposizione – da parte dell'istante – delle motivazioni in ordine alle ragioni del suo silenzio che, a ben vedere, nulla dimostrano sulla reale portata della pericolosità del detenuto.

Riferimenti
  • Cattelan, La Consulta salva l'ergastolo ostativo ma abroga la presunzione assoluta di pericolosità per i condannati a uno dei reati ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit., in ilpenalista, 13 gennaio 2020;
  • Dodaro, L'onere di collaborazione con la giustizia di fronte alla Costituzione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1/2020;
  • Romice, La collaborazione impossibile. Note sui margini di superamento dei divieti di cui all'art. 4 bis ord. penit., in Giur. pen. 6/2018.

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