Sì allo svincolo parziale delle somme sequestrate per consentire all'ente di pagare le imposte

Ciro Santoriello
19 Maggio 2022

La questione all'esame della decisione in commento concerne la possibilità di consentire ad una società colpita da un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca di vedersi dissequestrata una parte delle somme vincolate per adempiere agli obblighi tributari.
Massima

Nonostante nella disciplina della responsabilità da reato dell'ente nessuna disposizione contempli espressamente la possibilità di consentire lo svincolo parziale delle somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto, una tale possibilità deve ritenersi consentita - sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare - laddove l'adozione di un tale provvedimento si renda necessaria al fine di evitare, per effetto dell'applicazione del sequestro preventivo e dell'inderogabile incidenza dell'obbligo tributario, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente prima della definizione del processo.

Il caso

In sede di indagini era disposto un sequestro preventivo a fini di confisca nei confronti di una società, ai sensi degli artt. 19, 25 e 53 d.lgs. n. 231/2001, in relazione al profitto del reato presupposto di traffico di influenze illecite di cui all'art. 346-bis c.p. e corrispondente al valore della quasi totalità delle provvigioni maturate e ricevute dai legali rappresentanti della società coinvolta per un'attività di mediazione illecitamente svolta nel corso dell'anno 2020.

L'ordinanza emessa dal giudice delle indagini preliminari era confermata in sede di riesame, fase nella quale era rigettata l'istanza di parziale dissequestro formulata dalla società ricorrente. In particolare, in questa sede l'ente indagato evidenziava come i proventi derivanti dal reato sottoposti a sequestro fossero assoggettati ad imposizione fiscale, in virtù del disposto dell'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993; la società era intenzionata ad adempiere all'obbligazione tributaria ma era impossibilitata a provvedere in tal senso in assenza dello svincolo parziale delle somme sequestrate, in quanto, avendo costituito i ricavi conseguiti nel corso dell'anno 2020 un evento straordinario (e, dunque, non ripetibile in futuro) rispetto ai risultati economici dei precedenti esercizi, non avrebbe avuto disponibilità diverse da quelle sequestrate e allo stato non avrebbe avuto accesso al credito bancario, anche in ragione dell'entità della pretesa tributaria da onorare (oltre 16 milioni di euro). Il tribunale, come detto, rigettava il gravame, affermando che si era in presenza di una mera dichiarazione di intenti di destinare parte della somma sequestrata a pagare le imposte, stante l'abilità dimostrata dagli indagati nel reinvestire le somme illecitamente lucrate; non vi sarebbe stata, inoltre, ragione alcuna di non privare l'ente dell'arricchimento monetario percepito in via immediata e diretta dalla commissione dell'illecito in contestazione per adempiere alle proprie obbligazioni tributarie. Da ultimo, il Tribunale del riesame rilevava che la società istante avrebbe potuto assolvere gli obblighi fiscali facendo ricorso ad altre provviste di danaro, quali quelle relative all'importo delle provvigioni non ancora riscosse, o eventualmente anche al credito bancario.

In sede di ricorso in Cassazione, la difesa della società lamentava la violazione dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p. in relazione all'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993, norma giuridica di cui si deve tener nella determinazione del profitto confiscabile. Secondo le difese, infatti, lo Stato, da un lato, aveva privato, mediante il sequestro funzionale alla confisca del profitto, la società dell'intero profitto del reato e, dall'altro, in ragione della disposizione citata, avrebbe ricevuto, mediante la riscossione dei tributi, una percentuale dello stesso profitto.

Inoltre, si contestava l'interpretazione dell'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993 nella parte in cui si il tribunale del riesame aveva sostenuto che la tassazione dei proventi delle attività illecite è configurabile solo se il sequestro o la confisca intervengano in un periodo d'imposta successivo a quello nel quale gli stessi sono maturati, difettando altrimenti in radice l'estremo del possesso del reddito, medio tempore sottratto al contribuente. Ad avviso della società ricorrente era contrario al principio di legalità dell'imposizione tributaria far dipendere la tassazione di un reddito dal periodo d'imposta in cui è intervenuto il sequestro e, dunque, dalla solerzia o meno del giudice penale nel disporre la misura cautelare reale. La disposizione, in una prospettiva costituzionalmente orientata, sarebbe, dunque, dovuto essere interpretata nel senso di escludere l'imposizione anche qualora fossero nel frattempo intervenuti sequestri o confische penali in periodi di imposta successivi a quello nel quale era maturato il reddito illecito, purché anteriormente alla notifica dell'avviso di accertamento tributario.

La questione

La questione all'esame della decisione in commento concerne la possibilità di consentire ad una società colpita da un provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca di vedersi dissequestrata una parte delle somme vincolate per adempiere agli obblighi tributari – obblighi che nel caso di specie originavano dalla circostanza che l'art. 14, comma 4, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 prevede la tassazione dei proventi illeciti nel sistema delle imposte dirette (Boria, La tassazione delle attività illecite, in Riv. Dir. Trib., 1991, 507; Parlato, Considerazioni sulla tassabilità dei proventi derivanti da attività illecita, in Dir. Prat. Trib., 1992, I, 2199), anche se, come vedremo, si tratta di un tema che ha un'applicazione più generalizzata.

La questione presenta evidenti assonanze con la pressoché analoga disciplina in tema di responsabilità penale delle persone fisiche per i reati tributari ex art. 13-bis d.lgs. n. 74/2000. Si ricorda in proposito che la giurisprudenza di legittimità ritiene non consentito lo svincolo delle somme sottoposte a sequestro preventivo a fine di confisca per pagare il debito tributario, richiedendo che l'adempimento dello stesso avvenga con moneta diversa (Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2019, n. 14738), anche se – posto che la confisca, disposta in relazione ai reati tributari, non può riguardare somme superiori all'effettivo profitto conseguito né può risolversi in un ingiustificato arricchimento per lo Stato (Cass. pen., sez. III, 19 gennaio 2016, n. 4097) - la disciplina penale fiscale prevede espressamente che l'ammontare della confisca del profitto dei reati tributari possa essere ridotto per effetto del pagamento del debito tributario medio tempore effettuato ex art. 12-bis comma 2 d.lgs. n. 74/2000 nei termini riconosciuti dalla legislazione tributaria (la giurisprudenza della Terza Sezione penale ha, infatti, affermato, proprio con riferimento al meccanismo delineato dall'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000, che un dissequestro funzionale al pagamento delle imposte non è ammissibile, in quanto l'art. 85 disp. att. c.p.p., che, inserito nel capo VI delle norme di attuazione recante «Disposizioni relative alle prove», prevede la possibilità di restituzione di cose in sequestro previa esecuzione di specifiche prescrizioni, non si applica al sequestro preventivo: Cass. pen., sez. III, 12 dicembre 2019, n. 14738).

Le soluzioni giuridiche

Il ricorso è stato accolto.

Come detto, secondo la difesa, l'insorgenza dell'obbligazione tributaria per effetto della disposizione citata avrebbe rappresentato un fatto sopravvenuto al sequestro, idoneo di per sé, a giustificare la riduzione dell'ammontare del valore sottoposto a vincolo nella misura pari alle somme dovute per adempiere il debito fiscale. Si sarebbe dovuto, perciò, consentire il dissequestro parziale delle somme, in quanto, per effetto della predetta sopravvenienza, il profitto del delitto andava identificato non nel guadagno ottenuto con le operazioni incriminate ma con la somma corrispondente a tale guadagno decurtato però dell'importo da corrispondere a titolo di imposte dovute. Opinando diversamente, lo Stato avrebbe proceduto ad ablazione a danno della società di un importo superiore rispetto al vantaggio economico effettivamente lucrato in conseguenza della commissione del reato presupposto.

Prima di decidere sull'istanza della difesa, la Cassazione individua quale sia il profitto da sottoporre a confisca nel caso di specie. Secondo la Corte, tale valore equivale, come ritenuto in sede di merito, all'ammontare delle provvigioni illecitamente lucrate dalla ricorrente, senza la previa decurtazione delle imposte dovute dalla ricorrente sulle stesse in ragione dell'art. 14, comma 4, l. n. 537/1993. E' noto che secondo la giurisprudenza delle Sezioni unite «in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi, il profitto del reato oggetto della confisca di cui all'art. 19 d.lgs. n. 231/2001 si identifica con il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale dal reato presupposto, ma, nel caso in cui questo venga consumato nell'ambito di un rapporto sinallagmatico, non può essere considerato tale anche l'utilità eventualmente conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone» (Cass. pen., sez. un. 27 marzo 2008, n. 26654); tuttavia, pur ritenendo le Sezioni Unite che vada prestata cautela nel calcolo dell'utile ricavato dal reato, ciò non significa che una tale valutazione vada fatta ricorrendo a parametri valutativi di tipo aziendalistico (quali ad esempio quelli del "profitto lordo" e del "profitto netto") per cui non si può sostenere che dal profitto del reato debba essere decurtato l'onere delle imposte che l'ente deve pagare sui redditi lucrati dalla commissione del reato presupposto (non si ritiene applicabile quindi la tesi, affacciata in alcune decisioni di merito con riferimento al reato di manipolazione del mercato, secondo la quale il relativo profitto oggetto del sequestro va decurtato degli oneri fiscali connessi ad una tale attività, in quanto tassati – e, dunque, trattenuti – alla fonte quali capital gain posto che nel caso di specie – diversamente dall'ipotesi di manipolazione del mercato in cui le somme destinate a pagare gli oneri fiscali sono già sottratte ab origine all'autore del reato e non entrano nella sua disponibilità – l'insorgenza dell'obbligazione tributaria è successiva e non già anteriore o contemporanea rispetto alla percezione del profitto del reato).

L'elemento di novità della pronuncia è rappresentato dalla decisione della Cassazione di ammettere la possibilità di disporre lo svincolo delle somme sequestrate per consentire all'ente indagato di pagare le relative imposte. Questa posizione è innovativa sia perché diverge dalla conclusione assunta – come detto in precedenza – con riferimento ad analoga situazione in cui si trovi a versare l'indagato persona fisica per illeciti tributari, nonostante il disposto dell'art. 12-bis d.lgs. n. 74/2000 e sia perché viene ritenuta irrilevante la circostanza che nella disciplina della responsabilità da reato dell'ente nessuna disposizione contempli espressamente la possibilità di consentire lo svincolo parziale delle somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto.

Nonostante il silenzio del legislatore del 2001, tuttavia, secondo la Cassazione il dissequestro parziale delle somme in sequestro per pagare il debito tributario deve essere consentito, sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata del principio di proporzionalità della misura cautelare, laddove si renda necessario al fine di evitare, per effetto dell'applicazione del sequestro preventivo e dell'inderogabile incidenza dell'obbligo tributario, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente prima della definizione del processo. In queste circostanze, infatti, il sequestro finalizzato alla confisca assolverebbe non solo la propria lecita funzione di apprensione del prezzo o del profitto illecitamente lucrato ai fini della successiva ablazione, ma determinerebbe anche un'esasperata compressione della libertà di esercizio dell'attività d'impresa, del diritto di proprietà, del diritto al lavoro, mettendo a rischio la stessa esistenza giuridica dell'ente.

Secondo la Cassazione, in sostanza, occorre da un lato evitare che il sequestro finalizzato alla confisca si traduca in una forma di interdizione definitiva dall'attività al pari di quanto previsto dall'art. 16, comma 3, d.lgs. n. 231/2001, in assenza delle condizioni per disporre una tale misura cautelare e dall'altro escludere che il sequestro preventivo finisca violare il canone di proporzionalità - sancito, anche in riferimento alle misure cautelari reali, dall'art. 275 c.p.p. e a livello sovranazionale dal diritto dell'Unione ex artt. 5, par. 3 e 4, TUE, art. 49, par. 3, e 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali e dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come interpretata dalla Corte Edu - e che assolve «ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto» (Cass. pen., sez. VI, 22 settembre 2020, n. 34265).

Inoltre, il principio di proporzionalità è codificato anche dall'art. 46, comma 2, d.lgs. n. 231/2001, che espressamente sancisce che «ogni misura cautelare deve essere proporzionata all'entità del fatto e alla sanzione che si ritiene possa essere applicata all'ente». Il rispetto del canone di proporzionalità, unitamente a quelli di adeguatezza (art. 46, comma 1, d.lgs. n. 231/2001) e di gradualità (art. 46, comma 3, d.lgs. n. 231/2001), della misura cautelare disposta nei confronti dell'ente costituisce, dunque, oggetto di una ineludibile valutazione preventiva da parte del giudice, il quale, quando dispone una misura cautelare interdittiva o procede alla nomina del commissario giudiziale, deve limitare, ove possibile, l'efficacia del provvedimento alla specifica attività della persona giuridica alla quale si riferisce l'illecito (Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 2010, n. 20560).

Peraltro, il principio di proporzionalità non opera esclusivamente quale limite alla discrezionalità giudiziale nella fase genetica della misura cautelare, ma impone al giudice, lungo tutta la fase della sua efficacia, di graduare e modellare il contenuto del vincolo imposto, anche in relazione alle sopravvenienze che possono intervenire, affinché lo stesso non comporti restrizioni più incisive dei diritti fondamentali rispetto a quelli strettamente funzionali a tutelare le esigenze cautelari da soddisfare nel caso di specie. Ciò comporta che, con riferimento al sequestro preventivo finalizzato alla confisca, il canone di proporzionalità non esaurisce il suo rilievo nel divieto di attingere beni di valore superiore al profitto confiscabile stimato, ma impone di modulare il vincolo in modo che lo stesso, pur conforme agli scopi previsti dal legislatore, non determini un'esasperata compressione del diritto di proprietà e di libera iniziativa economica dell'ente attinto dal vincolo reale, eccedendo quanto strettamente necessario rispetto al fine perseguito.

La Cassazione ricorda ancora che nella disciplina della responsabilità da reato degli enti, del resto, l'ammontare della confisca e, correlativamente, del sequestro preventivo alla stessa finalizzato, legittimamente determinato in misura equivalente al prezzo o al profitto del reato presupposto, può essere ridotto, nel corso del giudizio, per effetto di condotte riparatorie poste in essere dall'ente post delictum, quali la messa a disposizione del profitto conseguito ai fini della confisca ai sensi dell'art. 17 d.lgs. n. 231/2001 e la restituzione del prezzo o del profitto del reato al danneggiato prevista dall'art. 19, comma 1, d.lgs. n. 231/2001.

Infine, il sequestro preventivo nel sistema della responsabilità da reato dell'ente deve essere disposto ed eseguito non solo in osservanza al canone di proporzionalità di cui all'art. 46 d.lgs. n. 231/2001, ma deve consentire «la continuità» nell'operatività economica dell'ente. L'art. 53, comma 1-bis, d.lgs. n. 231/2001 prevede, infatti, che «ove il sequestro, eseguito ai fini della confisca per equivalente prevista dal comma 2 dell'articolo 19, abbia ad oggetto società, aziende ovvero beni, ivi compresi i titoli, nonché quote azionarie o liquidità anche se in deposito, il custode amministratore giudiziario ne consente l'utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente al fine di garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, esercitando i poteri di vigilanza e riferendone all'autorità giudiziaria»: la ratio di tale disposizione è evidentemente quella di evitare che la misura cautelare disposta possa paralizzare l'ordinaria attività aziendale, pregiudicandone la continuità e lo sviluppo (Cass. pen., sez. III, 9 novembre 2017, n. 6742), e l'art. 53, comma 1-bis, citato espressamente assegna la funzione di vigilare sull'utilizzo delle somme in sequestro, sulla gestione dell'azienda e di riferirne all'autorità giudiziaria al custode amministratore giudiziario. Orbene, l'attuazione delle finalità di continuità aziendale indicate da tale disposizione non può essere pretermessa o, persino, vanificata, nei casi, come quello di specie, nei quali manchi la nomina di un custode amministratore giudiziario e, pertanto, le stesse devono comunque essere perseguite dal giudice.

Il giudice, dunque, all'atto dell'adozione della misura cautelare reale e nella sua successiva dinamica esecutiva, deve evitare che il vincolo reale, eccedendo le proprie finalità ed esorbitando dall'alveo dei propri effetti tipici, si risolva in una sostanziale inibizione per l'operatività economica del soggetto attinto dal sequestro, sino a determinarne la paralisi o la cessazione definitiva. Di conseguenza, in attuazione del principio di proporzionalità della misura cautelare, il giudice può autorizzare il dissequestro parziale delle somme sottoposte a sequestro preventivo finalizzato alla confisca per consentire all'ente di pagare le imposte dovute sulle medesime quale profitto di attività illecite, quando l'entità del vincolo reale disposto, pur legittimamente determinato in misura corrispondente al prezzo o al profitto del reato rischi di determinare, anche in ragione dell'incidenza dell'obbligo tributario, già prima della definizione del processo, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente. In tali specifici casi lo svincolo parziale delle somme sequestrate deve ritenersi ammesso alla stringente condizione della dimostrazione di un sequestro finalizzato alla confisca che, nella sua concreta dimensione afflittiva, metta in pericolo la operatività corrente e, dunque, la sussistenza stessa del soggetto economico e al solo limitato fine di pagare il debito tributario, con vincolo espresso di destinazione e pagamento in forme "controllate".

Osservazioni

La sentenza della Cassazione, al di là delle argomentazioni che sono portate a supporto della conclusione (e che sono comunque condivisibili), è apprezzabile perché rinviene una soddisfacente soluzione ad un problema ricorrente ovvero l'eccessiva incidenza che possono avere le misure cautelari sulla sorte delle società coinvolte in vicende di reato ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In questo modo peraltro si pone rimedio ad una evidente stortura del sistema, posto che, in certi casi, l'adozione di una misura cautelare reale, come il sequestro, rischia di essere maggiormente devastante per la sorte dell'impresa rispetto all'applicazione di una misura cautelare interdittiva.

Al momento dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 231/2001 il legislatore era evidentemente consapevole che la previsione a livello normativo (e la conseguente applicazione nei singoli procedimenti) di misure cautelari interdittive poteva avere conseguenze eccessivamente gravose per gli enti indagati, posto che una tale decisione poteva paralizzare già in sede di indagini l'operatività dell'impresa indagata, arrecando così pregiudizi non rimediabili successivamente, anche in caso di successiva assoluzione dell'ente. Onde rimediare a tale rischio, il Parlamento ha riconosciuto, mediante il disposto di cui all'art. 49 d.lgs. n. 231/2001, alla persona giuridica la possibilità di evitare le conseguenze deleterie derivanti da tali provvedimenti, offrendo all'ente «molteplici possibilità … di evitare le conseguenze sanzionatorie in sede di condanna, ma anche in fase di applicazione di una misura cautelare, assumendo durante il procedimento condotte riparatorie ed automodificative dell'organizzazione – cioè i cd. modelli di organizzazione e controllo – che mirano a scongiurare la reiterazione di illeciti» (Franzoni, Il sistema sanzionatorio e cautelare. Riflessioni sull'effettività, in AA.VV., Il processo penale de societate, a cura di Bernasconi, Milano 2006, 105) così da evitare l'applicazione di misure cautelari interdittive particolarmente incisive e penalizzanti per la società coinvolta a fronte di restituzioni e di uno spontaneo ravvedimento durante il processo.

Tuttavia, una tale facoltà di resipiscenza dell'ente opera solo con riferimento alle misure cautelari interdittive. Questa scelta di limitare l'operatività del citato art. 49 solo a questa tipologia di provvedimenti cautelari presumibilmente è stata giustificata con l'opinione (non fondata, come vedremo) che un'esigenza di mitigare le conseguenze derivanti dall'adozione di provvedimenti interinali sussistesse solo con riferimento alle misure cautelari interdittive e non in caso di applicazione di un sequestro preventivo, il quale, in effetti, in via astratta non impone certo un arresto all'attività dell'impresa commerciale. Riguardata in un'ottica più attenta alla concretezza dei fatti, tuttavia, questa valutazione di minore gravosità dei sequestri rispetto alle decisioni interdittive si mostra tutt'altro che fondata specie quando il provvedimento ablatorio interessi ed abbia ad oggetto una parte consistente del patrimonio e della liquidità dell'ente, il quale, privato di tali disponibilità, è di fatto comunque impossibilitato a proseguire nella propria attività – pervenendosi così quindi ad un esito analogo a quello cui si giungerebbe qualora si fosse disposta l'interdizione dell'ente.

La decisione in esame si colloca, dunque, su questo crinale e cerca di porre rimedio alla mancata previsione da parte del legislatore di strumenti capaci di conferire anche alla misura cautelare del sequestro quel carattere di proporzionalità che, invece, il legislatore riferisce solo ai provvedimenti interinali di natura interdittiva.

Deve, tuttavia, riscontrarsi un unico (ma non rimediabile in sede giurisdizionale) limite della decisione in esame. La Cassazione è riuscita a trovare una soluzione alle conseguenze eccessivamente severe che possono derivare da un provvedimento di sequestro prendendo in considerazione la sola ipotesi in cui la società, a cagione del vincolo ablatorio, si trovi impossibilitata ad adempiere agli obblighi tributari, che peraltro originano dalla stessa vicenda delittuosa che ha determinato l'adozione del sequestro: in tale circostanza, come si è visto, la Corte di legittimità ritiene ammissibile lo svincolo parziale delle somme sequestrate a fini di confisca per pagare le imposte sui redditi illecitamente lucrati a mezzo della commissione del reato presupposto nella misura in cui ciò sia necessario per evitare, per effetto dell'applicazione del sequestro preventivo e dell'inderogabile incidenza dell'obbligo tributario, la cessazione definitiva dell'esercizio dell'attività dell'ente prima della definizione del processo.

Rimangono però senza soluzione le altre ipotesi in cui una tale incidenza del sequestro sulle sorti dell'ente si possa comunque riscontrare (si pensi al caso in cui la giurisprudenza in tema di determinazione del profitto nei contratti sinallagmatici sia applicata non considerando in alcun modo l'utilità conseguita dal danneggiato in ragione dell'esecuzione da parte dell'ente delle prestazioni che il contratto gli impone). Anche in tali circostanze, analogamente al caso di specie deciso con la pronuncia in esame, deve riscontrarsi che le conseguenze del sequestro preventivo possono andare ben al di là di quelli che sono gli scopi tipici del provvedimento ablatorio; pare evidente, tuttavia, che tale criticità non potranno essere risolte dalla giurisprudenza ma sarà necessario un intervento del legislatore.

Nell'attesa, però, i giudici dovranno fare significativa attenzione nel modulare la concreta portata del provvedimento di sequestro alle circostanze del caso portato al loro esame.

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