Costituzione della Repubblica - 27/12/1947 - n. 0 art. 97
[0I] Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico (1).
[I] I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione. [II] Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. [III] Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge. (1) Comma inserito dall'art. 2 l. cost. 20 aprile 2012, n. 1. Ai sensi dell'art. 6 della legge n. 1 cit., le disposizioni si applicano a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014.
InquadramentoCon la norma in esame, inserita nella Parte II (Ordinamento della Repubblica), Titolo III (Il Governo), Sezione II (La Pubblica Amministrazione), la Costituzione repubblicana afferma l'esigenza di separazione tra politica e amministrazione. L'articolo (che rinviene il proprio referente sovranazionale nell'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) si compone di quattro commi, a mezzo dei quali viene delineato un particolare modello di pubblica amministrazione, indipendente da ogni altro potere dello Stato, e finalizzato ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi pubblici che, di volta in volta, vengono in considerazione. Il comma 1, in particolare, inserito dall'art. 2 della l. cost. n. 1/2012 (e applicabile a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014, giuste le previsioni di cui all'art. 6 della l. n. 1 cit.) impone di perseguire l'obiettivo dell'equilibrio dei bilanci pubblici e della sostenibilità del relativo debito. Il comma 2, a mezzo della previsione di una riserva di legge, assegna, invece, a tale fonte un ruolo centrale nell'organizzazione della pubblica amministrazione, vincolandola sia a operare in maniera efficace ed efficiente (buon andamento), sia a perseguire l'imparzialità nel proprio agire. Il comma 3 tratta, nello specifico, dei pubblici funzionari, i quali – prevede, infine, il comma 4 – possono accedere agli impieghi presso le pubbliche amministrazioni, salvo i casi stabiliti dalla legge, solo previa partecipazione a un concorso pubblico. Alle origini: Statuto Albertino e pubblica amministrazioneL'art. 97 della Costituzione repubblica non rinviene il proprio antecedente storico nello Statuto Albertino, nel quale nulla si dice a proposito della pubblica amministrazione. Nell'impianto statutario, infatti, giusta la previsione dell'art. 5, il re e solamente il re era il detentore del potere esecutivo (tanto da detenere in via esclusiva anche il potere di dichiarare la guerra «dandone notizia alle Camere»), e sempre al sovrano competeva di provvedere alla nomina di «tutte le cariche dello Stato» (art. 6). In un simile contesto storico e normativo, non era, quindi, giuridicamente sostenibile la pretesa da parte degli «amatissimi sudditi» del Regno (così definiti in sede di premesse dalla carta statutaria) di ingerirsi negli affari della Pubblica amministrazione, che, interessando solamente la persona del monarca, non li concerneva in alcun modo. È probabilmente questa la ragione per cui, recata una disciplina (per la verità molto scarna) dell'attività dei Ministri (agli artt. 65, 66 e 67), lo Statuto, come anticipato, non fa neppure un accenno al concetto di pubblica amministrazione, per quanto, tuttavia, non può escludersi che il problema della parzialità dei pubblici uffici fosse venuto a essere concretamente avvertito anche a quel tempo (Caranta, 2006, 1889). L'art. 97 Cost. e i lavori dell'Assemblea CostituenteAnche in sede di Assemblea Costituente, l'attenzione dedicata alla pubblica amministrazione non è stata quel che si sarebbe auspicato fosse, considerata la centralità dell'argomento. L'art. 97, infatti, è scaturito all'esito di un dibattito alquanto veloce tra i Padri costituenti, sintomatico di un interesse non particolarmente profondo verso le tematiche del buon andamento e dell'imparzialità amministrativa. Nel dettaglio, la discussione sulla pubblica amministrazione prese avvio nel corso della seduta del 14 gennaio 1947, allorché venne presentato, da parte dell'on. Bozzi, un progetto relativo al pubblico impiego. Rispetto a esso, nella qualità di relatore, si espresse l'on. Mortati il quale, dopo aver negato che la regola del pubblico concorso di cui alla proposta Bozzi costituisse una materia di carattere costituzionale, ebbe, però, a sottolineare che «la necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica Amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. ... La seconda esigenza riguarda la responsabilità dei pubblici funzionari», per cui sarebbe stato necessario «creare un'organizzazione che giovi a precisare le responsabilità dei pubblici impiegati». Nel dibattito intervenne anche l'on. Tosato, secondo il quale «affinché potesse essere garantito il rispetto del principio dell'eguaglianza di tutti i cittadini, per la parte della Costituzione relativa ai rapporti di pubblico impiego, sarebbe necessario adottare una norma costituzionale, in cui fosse affermato che ai pubblici uffici non si può accedere che per concorso, salvo i casi in cui la legge non disponga altrimenti». Tale proposta trovò d'accordo il Presidente, on. Terracini, posto che «Un'affermazione di tal genere starebbe a precisare in forma solenne che non si può entrare a far parte di una pubblica Amministrazione per tramite di favoritismi». Su questa base, venne, quindi, approvata la formula «Ai pubblici impieghi si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge» che attualmente compare al comma 4 dell'art. 97. L'approvazione definitiva del testo dell'art. 91 del progetto di Costituzione (corrispondente all'attuale art. 97 e, in parte, all'art. 98, commi 1 e 2) avvenne infine nel corso della seduta pomeridiana del 24 ottobre 1947 all'esito di una discussione rapida e priva di interventi di rilievo, dimostrativa della scarsa attenzione prestata dai Costituenti alle problematiche proprie della pubblica amministrazione, nonostante la precisazione in senso contrario operata dall'on. Tosato. Invero, nell'ambito della citata seduta finale, a fronte della proposta soppressiva dell'intero testo dell'art. 91 presentata dall'on. Corbino (avanzata sulla base della seguente motivazione: «Ho l'impressione che questo articolo contenga alcune norme completamente superflue»), l'on. Tosato, energicamente, replicava: «La Commissione non può accettare la proposta radicale fatta dall'onorevole Corbino di sopprimere l'intero articolo 91, perché questo articolo contiene disposizioni aventi grande importanza costituzionale: si fissa il principio che l'organizzazione dei pubblici uffici deve essere fatta per legge; si fissa quello che nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza al fine di precisare la responsabilità personale dei funzionari; si stabilisce il principio fondamentale dell'obbligo del concorso per coprire i pubblici uffici, ed infine quelli che i pubblici impiegati sono esclusivamente al servizio dell'Amministrazione e non possono, quando sono membri del Parlamento, conseguire promozioni se non per anzianità. Sono tutti principî di carattere fondamentale, di importanza costituzionale, che la Commissione ritiene opportuno vengano fissati nella Costituzione. Si vedrà poi, in sede di coordinamento, se sia opportuno togliere qualche sovrabbondanza verbale: ma la sostanza dell'articolo dovrebbe rimanere». E così, alla fine, fu. Il comma 1 e il principio dell'equilibrio di bilancioIl «nuovo» incipit dell'art. 97 Cost. prevede che «Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, assicurano l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico». Trattasi di previsione «nuova» perché, inizialmente non inclusa nel testo dell'articolo in commento, è stata solo recentemente inserita per effetto dell'art. 2 della l. cost. n. 1/2012, al fine di conformare il sistema interno di finanza pubblica ai principi della governance economica europea (con tale obiettivo, va ricordato, sono stati modificati anche gli artt. 81,117 e 119 Cost.). Al riguardo, occorre, infatti, brevemente ricordare come, in ambito sovranazionale, il percorso volto a porre un rimedio alla situazione di indebitamento degli Stati membri fosse stato avviato già nel lontano 1992 con il Trattato di Maastricht. È, però, nel 2011 che si è pervenuti a un punto di svolta significativo, con l'approvazione del c.d. Patto Europlus (accordo non giuridicamente vincolante adottato dai Capi di Stato e di governo dell'area euro), con il quale gli Stati contraenti si sono impegnati a realizzare alcuni obiettivi fondamentali, tra cui quelli della sostenibilità delle finanze pubbliche e della stabilità finanziaria, e a recepire le regole sancite nel Patto nella Legge fondamentale dello Stato o nell'ambito della legislazione ordinaria. Successivamente, sono intervenuti in materia anche la direttiva 2011/85/UE concernente i requisiti per i quadri di bilancio nazionali e, soprattutto, nel 2012, il c.d. Fiscal Compact (ossia, il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governante nell'unione economica e monetaria, atto per la verità non rientrante tra quelli propri dell'Unione, ma a essi strettamente collegato), il cui art. 3 ha espressamente impegnato le parti contranti a introdurre negli ordinamenti nazionali, con norme vincolanti e a carattere permanente, «preferibilmente» a livello costituzionale, regole che prescrivessero l'obiettivo del bilancio in pareggio o in attivo (in tal modo richiamando la relativa previsione, già contenuta, come si è detto, nel citato Patto Europlus). È stato, dunque, in quest'ottica che, analogamente a quanto fatto in altri ordinamenti europei, all'art. 97 Cost. è stata premessa la disposizione, divenuta il nuovo comma 1, mediante la quale si è provveduto a introdurre a livello costituzionale il principio del pareggio di bilancio e della sostenibilità del debito delle pubbliche amministrazioni. La riforma costituzionale, come si è già accennato, non ha comunque riguardato solo il testo dell'art. 97. Il principio del pareggio è stato, infatti, principalmente ricompreso e disciplinato all'art. 81 (al cui commento, pertanto, si opera più ampio rinvio), e la novella si è stesa anche agli artt. 117 (mediante la ricomprensione nell'ambito della competenza legislativa esclusiva dello Stato della materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici) e 119 (più specificamente riferito alla disciplina di bilancio degli enti territoriali) Cost. In questo quadro generale, tuttavia, l'art. 97 Cost. presenta un tratto distintivo caratteristico, che vale a renderlo di fondamentale importanza nell'obiettivo di perseguire gli scopi di finanza pubblica consacrati a livello sovranazionale. Infatti, tale articolo, considerato il carattere onnicomprensivo della formula in esso utilizzata (in questo senso va letto il riferimento alle «pubbliche amministrazioni» in generale), rileva per aver determinato l'introduzione nell'ordinamento interno, e al più alto livello nella gerarchia delle fonti, di un vincolo permanente di coerenza con quello europeo, che si pone a carico di ogni amministrazione pubblica (quindi, anche non statale) che sia dotata di un proprio bilancio. In altre parole, in coerenza con l'ordinamento dell'Unione europea, la norma ha introdotto l'obbligo di assicurare l'equilibrio dei bilanci e la sostenibilità del debito pubblico, estendendolo – ecco il punto cruciale – a tutte, indifferentemente, le pubbliche amministrazioni. Va da ultimo rammentato che il comma 1 dell'art. 97 Cost. ha trovato concreta applicazione solo a decorrere dall'esercizio finanziario relativo all'anno 2014 (così ha disposto, infatti, l'art. 6 della citata l. cost. 20 aprile 2012, n. 1). Il comma 2Il comma 2 dell'art. 97 (già comma 1) dispone che «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». La disposizione è stata variamente interpretata in dottrina e giurisprudenza. Le conclusioni raggiunte in tali sedi sono state, in taluni casi, unanimemente condivise, in tali altri, come si vedrà, meno. Contenuto e finalità della norma. Il necessario punto di partenza dell'analisi da svolgere è rappresentato dall'esatta individuazione del contenuto e della finalità della disposizione in parola. In ordine al primo aspetto, preme ricordare come, inizialmente, in sede di interpretazione dell'enunciato costituzionale, si fosse sostenuto il carattere meramente programmatico dell'art. 97 Cost., ritenuta disposizione enunciativa di un obiettivo o programma necessitante di ulteriori norme per la sua concreta attuazione. Il citato indirizzo venne, tuttavia, smentito dalla Corte costituzionale, alla quale si deve la contraria affermazione del carattere precettivo della disposizione in esame. Infatti, come la Consulta ha avuto modo di chiarire nella sentenza n. 14/1962, «nel primo comma dell'art. 97 Cost. [oggi, il comma 2] non si può ravvisare una semplice direttiva, rivolta prevalentemente agli organi dell'Amministrazione, ..., né il suo contenuto può considerarsi limitato alla riserva della legge, da esso disposta. ... Pertanto, il contenuto precettivo dell'art. 97 esclude che possano istituirsi uffici a cui si assegni un proprio personale, ma invece manchino di un proprio ordinamento, o di cui non siano specificate le attribuzioni». Il contenuto della norma, dunque, è immediatamente precettivo. Ciò chiarito, anche per ciò che attiene al secondo aspetto di cui sopra, ossia alla finalità del disposto costituzionale, viene in soccorso l'analisi della giurisprudenza costituzionale. La Corte, infatti, nella sentenza n. 234 del 1985 ha limpidamente chiarito che «il disposto dell'art. 97 si prefigge – nella direttiva costituzionale per la regolamentazione delle pubbliche attività, obiettivate a conseguire buon andamento ed imparzialità – la predisposizione di strutture e di moduli d'organizzazione, volti ad assicurare, appunto, ed attraverso questa, un'ottimale funzionalità». Obiettivo della prescrizione contenuta al comma 2, dunque, è quello di garantire l'efficienza dei pubblici uffici, mediante la configurazione di sistemi organizzativi tali da garantire ai cittadini la miglior cura degli interessi di cui sono portatori, nel contemperamento con quello pubblico che notoriamente informa l'agire della pubblica amministrazione. La riserva di legge. Prima di entrare nel merito dei concetti di «buon andamento» e «imparzialità» amministrativa, va evidenziato come sia stato proprio al fine di conseguire l'obiettivo di una pubblica amministrazione efficiente che la prima parte della disposizione in commento ha riservato alla legge l'organizzazione dei pubblici uffici (con una previsione che si pone in stretto collegamento con quella contenuta al comma 3 dell'art. 95, la quale, disciplinando il Governo, prescrive che «La legge provvede all'ordinamento della Presidenza del Consiglio e determina il numero, le attribuzioni e l'organizzazione dei Ministeri»). In tal modo, sancendo formalmente in Costituzione, anche in materia di amministrazione pubblica, il principio di legalità, si è operata una scelta di rottura rispetto all'ordinamento precedente (basato sull'art. 1, n. 3, l. n. 100/1926 che affidava l'organizzazione dei pubblici uffici al potere regolamentare del Governo, provvedendo, altresì, a delegificare la materia) e alla prassi seguita nel corso del regime fascista. Spetta, dunque, al Parlamento, per il tramite della legge, istituire e organizzare i pubblici uffici. Al riguardo, va comunque evidenziato come, per pacifica interpretazione dottrinaria e giurisprudenziale, la riserva di legge posta dall'art. 97 è una riserva di legge di carattere relativo. In tal senso depongono almeno due argomenti: quello letterale, dal momento che la formula «I pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge» implica che gli uffici non sono organizzati direttamente dalla legge, ma secondo i criteri che dalla legge sono stabiliti; e quello che si potrebbe definire di praticità, essendo stato evidenziato in dottrina che «non avrebbe pratica possibilità e sarebbe controproducente pretendere che anche le regole di organizzazione e di funzionamento più minute e particolari, più interne agli uffici, venissero tutte formulate dal Parlamento. Si tratterebbe di un inutile aggravio del lavoro parlamentare, senza significato politico rilevante. Al Parlamento (ai partiti) giustamente interessa disciplinare gli aspetti decisivi e politicamente significativi della organizzazione dello Stato, non i momenti puramente esecutivi, interni e in fondo prevalentemente tecnici» (Rescigno, 557). Sempre in dottrina, si sono anche levate voci volte a ritenere che la previsione della riserva di legge, data la particolare materia disciplinata, sia dotata di un qualche margine di elasticità (Nicolai, 3313). In ogni caso, i punti fermi nell'elaborazione dottrinaria sono rappresentati dall'illegittimità dell'eventuale intervento in materia di regolamenti liberi o indipendenti (Caretti, 1 ss.) e dalla possibilità di intervento solamente della legge statale, con conseguente esclusione di qualsivoglia ingerenza del legislatore regionale. Oltre a quella della tipologia di riserva introdotta, altra questione che è stata affrontata ha riguardato poi la corretta individuazione dei «pubblici uffici» da organizzare per legge, rinvenendosi, al riguardo, posizioni divergenti. Nello specifico, sul punto, la Corte costituzionale, ricollegando la previsione di cui al comma 2 a quella seguente, contenuta nell'attuale comma 3 della disposizione, sembra aver tratto la conclusione per cui quelli da disciplinare con legge siano gli «organi» dell'amministrazione (si veda la già citata sentenza n. 14/1962), con un'interpretazione del disposto cui ha successivamente aderito anche la prevalente dottrina, secondo cui mentre l'intervento della legge non è indispensabile per l'organizzazione di meri uffici, lo stesso risulta, per contro, necessario allorché vengano in evidenza gli organi della pubblica amministrazione, ossia quella particolare categoria di uffici che presenta rilevanza esterna. Altri, per contro, hanno ritenuto che simile ricostruzione finisse per attribuire un significato del tutto travisato al disposto costituzionale in commento, e ciò in quanto «In primo luogo la disposizione costituzionale, va osservato, non richiede che la legge necessariamente istituisca e disciplini gli uffici che sono organi ... D'altro canto, il ruolo indicato dalla Costituzione alla legge ... non può essere arbitrariamente limitato ai soli uffici che sono formalmente anche organi con competenze esterne. Ci si avvede così che una corretta lettura dell'art. 97, comma 2 Cost. colloca in prevalenza la legge del Parlamento e conseguentemente il principio di legalità nell'ambito della definizione dei modelli organizzativi e dei modelli generali d'azione dell'amministrazione» (Longobardi, La posizione istituzionale dell'amministrazione pubblica e la Costituzione, 2017, 8 ss.). Il principio di buon andamento della pubblica amministrazione: accezioni e ambito di applicazione. Accanto al principio di legalità, altrettanto fondamentale, in quanto «vero cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale» (così, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 123 del 1968), è il principio del buon andamento della pubblica amministrazione. Si tratta di un principio che, a ben vedere, ricomprende il primo, quello di legalità, atteso che il buon andamento può, innanzitutto, venirsi a concretizzare solamente se l'attività amministrativa viene espletata nel rispetto della legge. Invero, non è dato ravvisare un'accezione univoca di tale principio. Infatti, se, secondo quanto si è affermato in dottrina, esso «coincide con l'esigenza dell'ottimale funzionamento della pubblica amministrazione, tanto sul piano dell'organizzazione quanto su quello della sua attività» (Cerulli Irelli, 163), v'è da ricordare come la giurisprudenza costituzionale ne abbia individuato vari significati: tra i molti, il buon andamento come esigenza di tempestività, responsabilità ed efficienza dell'azione amministrativa (sentenzaCorte cost. n.404/1997) come esigenza generale di efficienza della pubblica amministrazione (sentenza n. 40/1998: «il principio di buon andamento riguarda non solo i profili attinenti alla struttura degli apparati ed all'articolazione delle competenze attribuite agli uffici che compongono la pubblica amministrazione, ma, investendone il funzionamento nel suo complesso (sentenzaCorte cost. n.22/1966), comprende anche i profili attinenti alle funzioni ed all'esercizio dei poteri amministrativi»), e, ancora, come principio volto a garantire «l'efficienza e il contenimento dei costi dei servizi pubblici» (sentenze nn. 60/1991 e 356/1992) e la «migliore utilizzazione delle risorse professionali» (sentenze nn. 126/1995 e 240/1997). Normalmente, la summenzionata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale viene compendiata riconducendo nel più generale concetto di buon andamento (oltre a quello di legalità, per quanto detto) quelli specifici di «efficienza», «efficacia» ed «economicità» dell'azione amministrativa. Il principio del buon andamento viene, pertanto, osservato, quando la pubblica amministrazione garantisce l'efficienza del proprio agire, da intendersi come «idoneità a conseguire i risultati programmati ed idoneità dei modi e dei mezzi ad ottenerne il raggiungimento. Emerge, cioè, soprattutto l'aspetto «attitudinale» dell'efficienza: l'organizzazione è efficiente in quanto idonea a produrre il soddisfacimento degli interessi; l'attività è efficiente quando possiede la medesima idoneità» (Mercati, 2143 ss.). L'azione amministrativa deve, inoltre, essere efficace, nel senso che deve essere idonea a perseguire gli obiettivi avuti di mira (il concetto di efficacia attiene, infatti, al rapporto tra gli obiettivi e i risultati) ed economica, vale a dire che deve garantire l'ottimizzazione dei risultati, alla luce dei mezzi a disposizione. In definitiva, quindi, il buon andamento rappresenta una sintesi dei principi di legalità, efficienza, efficacia ed economicità dell'azione amministrativa. In quest'ottica, invero, esso è stato codificato anche a livello di legislazione primaria, nell'ambito dell'art. 1 della l. n. 241/1990 (per cui «L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza, ...»), all'interno del quale non è un caso che si faccia menzione anche dei principi di pubblicità e trasparenza, che, infatti, di quello del buon andamento costituiscono logici corollari (come chiarito anche dalla Corte cost. nella sentenza n.300/2000 e 262/1997, ove si fa espresso riferimento agli «obiettivi di trasparenza, pubblicità, partecipazione e tempestività dell'azione amministrativa, quali valori essenziali in un ordinamento democratico»). Significativo è pure il riferimento al principio di imparzialità. Esso, infatti, è menzionato nell'ambito del medesimo comma 2 dell'art. 97 Cost., e destinato, quindi, a «vivere in stretta associazione con quello di buon andamento, con il quale si trova fuso all'interno di una formula giuridica indeterminata» (Gardini, 2934 ss.), tanto da essere stato considerato dalla Corte costituzionale «unito quasi in endiadi con quelli della legalità e del buon andamento dell'azione amministrativa» (sentenza n. 333/1993), anche se, in realtà, talvolta imparzialità e buon andamento possano orientare in direzioni opposte, necessitando di applicazioni differenziate in relazione alle distinte funzioni amministrative. Sempre la giurisprudenza costituzionale ha più volte evidenziato il rapporto del fondamentale principio di cui si discorre con altri, aventi pari livello costituzionale, operandone un necessario bilanciamento, tra cui il diritto al lavoro e la tutela del lavoro (sentenze Corte cost. nn.123/1968 e 308/1989), anche con riferimento a quello dei disabili (sentenza Corte cost. n. 190 del 2006), la tutela dell'unità familiare (sentenza Corte cost. n.183/2008), la tutela del diritto alla salute di cui all'art. 32 Cost. (sentenze nn. 212/1983, 167/1986 e 1143/1988), l'accesso alle cariche elettive (sentenze Corte cost. nn.44/1977, 220/2003 e 240/2008), il diritto di accesso ai documenti amministrativi (sentenze Corte cost. nn.372/2004 e 32/2005), il diritto ad accedere ai pubblici uffici (sentenza Corte cost. n. 329 del 2005) e la tutela dell'ordine pubblico (sentenza Corte cost. n.184/1994), mettendone, altresì, in evidenza l'indissolubile legame con l'art. 28 della Carta costituzionale, relativo alla responsabilità di funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici. Il principio di buon andamento rappresenta, del resto, un parametro di legittimità, cui la Consulta fa riferimento per valutare le scelte discrezionali del legislatore con riferimento all'organizzazione degli uffici pubblici e all'espletamento dell'attività amministrativa. Non a caso, esso presenta un ambito applicativo particolarmente esteso, che va ben oltre il concetto di amministrazione stricto sensu inteso. È stata, infatti, la Corte costituzionale a chiarire che gli obiettivi del buon andamento e dell'imparzialità della amministrazione consacrati all'art. 97 Cost. «come è noto, non valgono soltanto per la pubblica amministrazione in senso stretto» (sentenza Corte cost. n.44/1977), pur non potendo, tuttavia, avere, per ciò solo, un'applicazione indiscriminata. In quest'ottica, infatti, la stessa Corte, nel perimetrarne il campo di azione, ha escluso che il principio in parola possa ad esempio essere riferito allo svolgimento dell'iter procedimentale di formazione delle leggi (sentenze Corte cost. nn. 241/1008 e 372/2008), alla determinazione legislativa delle condotte punibili per abuso d'ufficio (sentenza n. 447 del 1988), al calcolo dell'indennità di espropriazione o del prezzo della cessione volontaria del bene (sentenza Corte cost. n.300/2000), nonché alla tutela delle c.d. posizioni acquisite (sentenze Corte cost. nn.56/1989 e 63/1998). Per ciò che attiene, per contro, alla sua riferibilità al concetto di pubblica amministrazione, va comunque precisato che, sempre secondo quanto evidenziato dal Giudice delle leggi, tale canone di condotta ha e deve avere un'applicazione generalizzata, in quanto «non si riferisce, ..., esclusivamente alla fase organizzativa iniziale della pubblica Amministrazione, ma ne investe piuttosto il funzionamento nel suo complesso aspetto» (si vedano, in tal senso, le sentenze Corte cost. nn.22/1966, 51/1980 e 40/1998), integrando, dunque, un principio-guida che deve permeare ogni aspetto dell'amministrazione pubblica, senza possibilità di limitarne l'applicazione a determinati e specifici ambiti di essa. In generale, il buon andamento deve infatti attenere, ad esempio, anche alla creazione e organizzazione dei pubblici uffici, alla struttura degli apparati, alla articolazione delle competenze, nonché alla disciplina dei procedimenti amministrativi, rispetto alla quale si impongono esigenze di coerenza e congruità dei mezzi rispetto al fine che si vuole perseguire (in questi termini la Corte si è espressa con le sentenze Corte cost. nn.40/1998, 135/1998 e 300/2000). La Corte ha pure avuto occasione di affermarne l'esigenza di conformazione con riferimento a specifici ambiti e settori, come quello dell'organizzazione delle scuole statali, del Servizio sanitario nazionale, dei corpi militari dello Stato, dell'amministrazione della giustizia, della dirigenza pubblica, della disciplina elettorale, di quella del trattamento pensionistico, dei poteri di autotutela della pubblica amministrazione, e del buon andamento della professione notarile. In tutti i casi e ambiti in cui si debba garantire la sua osservanza, le scelte del legislatore sono rimesse al sindacato della Corte costituzionale, chiamata a verificare la non arbitrarietà e non manifesta irragionevolezza delle leggi rispetto al canone de quo, nell'ambito di uno scrutinio comunque non eccessivamente stringente, il quale viene limitato ai soli casi delle leggi provvedimento o di sanatoria (in tal senso, si veda, invero, le sentenze Corte cost. nn. 306/1995, 1/1996, 215/1996, 153/1997 e 14/1999) e delle leggi derogatorie rispetto alla regola del concorso pubblico di cui al comma 4 della disposizione costituzionale in commento (sentenza Corte cost. n. 363/2006), su cui infra. Il principio di imparzialità della pubblica amministrazione: accezioni e ambito di applicazione. Il terzo pilastro cui deve essere informata l'amministrazione pubblica in forza dell'art. 97, comma 2, è il concetto di imparzialità, che, secondo autorevole dottrina, rappresenta per l'apparato amministrativo pubblico «un autentico vincolo o limite generale (o, come forse è preferibile, come modo di essere generale) del potere discrezionale in tutti i campi in cui tale potere è demandato alla pubblica amministrazione» (Barile, 32). Nonostante (anche) esso sia riferito formalmente alla sola organizzazione amministrativa, dottrina e giurisprudenza sono unanimemente concordi nell'estenderne la portata e applicazione all'attività amministrativa intesa nella sua accezione più lata (in tal senso, depone, invero, la considerazione degli artt. 51 e 98 Cost., che mirano a salvaguardare l'apparato amministrativo e i relativi funzionari da possibili ingerenze del potere politico, nonché la stessa previsione di cui al comma 4 dell'art. 97, che pone la regola generale del concorso pubblico come modalità ordinaria di accesso al lavoro presso la pubblica amministrazione). Anche il concetto di imparzialità amministrativa (come quello di buon andamento) ha dato luogo a incertezze interpretative in merito al relativo, esatto, significato; incertezze ingenerate dal fatto che, come messo in evidenza, la Corte ha ritenuto il principio di imparzialità unito, quasi in endiadi, con quello del buon andamento, con conseguente difficoltà per gli interpreti di individuare il preciso senso da attribuire ai due concetti. In dottrina, infatti, v'è stato chi, considerato che «nessuna indicazione consente di chiarire l'esatta portata della nozione di imparzialità, laddove riferita alla pubblica amministrazione», ha evidenziato la frammentazione del concetto, anche perché «A tale vaghezza del diritto codificato fa eco un'incertezza non minore degli interpreti. L'analisi empirica mostra infatti una nozione di imparzialità amministrativa tutt'altro che univoca: nella lettura degli organi giudicanti il principio è associato, di volta in volta, ad aspetti dell'amministrazione diversi, che spaziano dall'indipendenza tra organi intervenienti nel procedimento, alle procedure ad evidenza pubblica, all'attività amministrativa, all'erogazione dei servizi» (Gardini, 2936). Vari sono stati i tentativi di definirne precisamente la nozione: si è parlato, ad esempio, di concetto espressivo di un canone di indipendenza dell'amministrazione dal potere politico, che implica la «necessità di una posizione giuridica assolutamente garantita, tale da consentire all'apparato di porsi come forza autonoma, portatrice di interessi autonomi (in ispecie quelli derivanti dall'esigenza di continuità), rapportati ad un'idea di interesse pubblico stabile ed obiettivo, indipendentemente dal mutare degli indirizzi degli organi al vertice dell'esecutivo, o, più in generale, rappresentativi» (Carlassarre, 87); il principio di imparzialità è stato, inoltre, definito come un corollario del principio di uguaglianza, specificamente enunciato nei riguardi della pubblica amministrazione dall'art. 97 Cost., stante la necessità di trattare in modo eguale fattispecie eguali, in modo analogo fattispecie affini, e in modo egualmente diverso fattispecie diverse. In ogni caso, si è oggi alquanto concordi nel ritenere che, per ciò che attiene al profilo organizzativo, il concetto in parola vada inteso nel senso che la pubblica amministrazione debba garantire una oggettiva situazione di imparzialità, che può assicurarsi solamente in mancanza di situazioni di conflitto di interesse, allorché, cioè, il pubblico dipendente non abbia alcun interesse di tipo particolare rispetto alla decisione da assumersi. Quanto, invece, al profilo dell'attività amministrativa, si è soliti distinguere una duplice accezione di imparzialità. Da un lato, infatti, il principio va inteso in negativo, come obbligo di mantenere una posizione di equidistanza da tutti coloro che, soggetti pubblici o privati, entrino in contatto con la pubblica amministrazione. Si impone, dunque, un divieto di introdurre discriminazioni ingiustificate e di ingenerare disparità di trattamento tra i destinatari dell'azione amministrativa, il cui svolgimento deve verificarsi libero da ogni ingerenza esterna. Dall'altro, invece, in senso positivo, il concetto di imparzialità postula l'obbligo per la pubblica amministrazione di considerare oggettivamente e valutare comparativamente tutti gli interessi coinvolti, pubblici e privati, operando un'operazione di bilanciamento che può concludersi dando prevalenza ai primi solamente allorché la compressione dei secondi possa considerarsi il risultato di una scelta considerata e ponderata. In altri termini, il principio esprime l'esigenza di garantire ai terzi che entrino in contatto con la pubblica amministrazione un trattamento equo, scevro da discriminazioni di sorta, che si fondi su regole procedimentali tali da evitare favoritismi di qualsiasi tipo. Fondamentale, dunque, in questa seconda ottica, è che venga garantita la corretta esplicazione del procedimento amministrativo, ossia che quest'ultimo possa definirsi «giusto» (circostanza che ricorre allorquando, nel suo ambito, venga consentita l'esplicazione di una sorta di preventivo contraddittorio tra i cittadini destinatari della attività amministrativa e la pubblica amministrazione procedente, sulla falsa riga del principio del «giusto processo» oggi consacrato in Costituzione all'art. 111). Il concetto di imparzialità non va comunque confuso con quello di neutralità. Se, infatti, per definizione, la pubblica amministrazione è imparziale in quanto, pur dovendo garantire il corretto esplicarsi del procedimento nei termini sopra esposti, è comunque portatrice di uno specifico interesse (quello pubblico) per la cui tutela è chiamata ad agire, per contro, non necessariamente è neutrale, in quanto il concetto di neutralità implica un'assoluta indifferenza rispetto agli interessi in considerazione (il concetto di neutralità, infatti, meglio si adatta, per fare un esempio, alle autorità amministrative indipendenti). L'assunto è stato ben chiarito dalla giurisprudenza costituzionale, la quale (operando un parallelo tra l'azione amministrativa e quella giurisdizionale) ha, infatti, avuto cura di sottolineare come nell'ambito della prima «è assicurata l'imparzialità istituzionale ma non la “terzietà” rispetto agli interessi coinvolti dalle scelte amministrative», a differenza dell'altra, in cui viene, invece, accordata la tutela degli interessati a opera di un «terzo» nel senso pieno del termine (sentenza n. 28 del 1996). Ad ogni modo, anche il principio di imparzialità, come quello di buon andamento, presenta dei corollari che discendono dalla sua stessa previsione. In tal senso, infatti, è stata la Corte costituzionale ad aver ricordato in più occasioni che «Al principio di imparzialità sancito dall'art. 97 Cost. si accompagna, come «natural[e] corollari[o]», la separazione «tra politica e amministrazione, tra l'azione del «governo» – che, nelle democrazie parlamentari, è normalmente legata agli interessi di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l'azione dell'«amministrazione» – che, nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento»» (sentenze Corte cost. nn.453/1990 e 81/2013). Altro precipitato è sicuramente rappresentato dal principio di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa, in quanto solo la piena intellegibilità dell'agire amministrativo rende un'amministrazione pubblica davvero imparziale, eliminando li sospetto di clientelismi nel procedimento che ha condotto alla decisione pubblica. Il principio di eguaglianza, per contro, non ne integra un corollario, quanto, semmai, una condizione affinché l'imparzialità possa efficacemente esplicarsi. Ciò detto, nel passare a trattare dell'ambito di applicazione del principio di imparzialità, va sottolineato come la questione sia strettamente collegata a quella – appena affrontata – relativa al significato del canone, il quale mostra accezioni differenti a seconda che sia riferito all'ambito organizzativo, piuttosto che a quello dell'attività, della pubblica amministrazione. Così, per ciò che riguarda le garanzie organizzative dell'interesse pubblico, l'attuazione del principio di imparzialità è, potremmo dire, generalizzata e fondamentale. L'organizzazione – da intendersi come complesso di regole che pongono le condizioni (risorse a disposizione, informazioni, qualità del personale) per lo svolgimento di attività finalizzate all'adozione della decisione amministrativa – ha una propria autonoma rilevanza giuridica, in quanto, se conforme ai canoni di cui all'art. 97 Cost., consente la corretta adozione dell'atto finale che produce effetti conformativi della situazione giuridica del cittadino interessato, risultando, dunque, imprescindibile per il retto prodursi del vero momento di emersione giuridica del potere amministrativo. Il fattore organizzativo è, quindi, di capitale importanza per la cura dell'interesse pubblico perseguito dall'amministrazione. Da questo punto di vista, pertanto, in forza del canone dell'imparzialità, la garanzia che deve essere assicurata al cittadino consiste nella predeterminazione delle attività di esercizio delle funzioni amministrative. Il destinatario dell'azione amministrativa, in altre parole, deve sapere quali azioni può legittimamente attendersi dagli uffici ai quali le attività tipizzate da compiere sono attribuite. La garanzia dell'imparzialità consiste, dunque, nell'attribuzione di una funzione a un ente od organo ex ante individuabile da parte del cittadino interessato dall'agire della pubblica amministrazione, e al quale siano attribuiti tutti i poteri necessari per l'adeguata cura degli interessi connessi alla funzione esercitata. Con riferimento al profilo dell'attività, invece, un risalente indirizzo dottrinale, sul presupposto per cui lo scopo dell'agire amministrativo fosse quello di considerare ogni interesse meritevole di protezione tra quelli in evidenza, reputava parziale l'amministrazione che cura e persegue solamente alcuni tra i fini a essa attribuiti dalla legge, e imparziale quella che, per contro, è volta al soddisfacimento di tutti i valori tutelati a livello ordinamentale, al fine di contemperare con essi quello pubblico di cui la medesima è portatrice (Allegretti, 1965). Neppure è mancato chi dell'imparzialità dell'attività ha fornito una lettura squisitamente soggettiva, riferendola principalmente al funzionario pubblico, e declinandola come divieto di perseguire gli interessi privati nelle decisioni a esso affidate (Mortati, 325). Un'efficace definizione di imparzialità, riferita al profilo attivo dell'agire amministrativo, è stata offerta sempre in dottrina, allorché il concetto è stato identificato con quello dell'«equidistanza fra interessi di persone effettive da valutare e selezionare alla stregua dei soli criteri consentiti, quelli che l'ordinamento offre; è considerazione di «tutti e soli» gli interessi umani avvalorati dal diritto, nell'ordine e nell'armonia in cui il sistema o un legittimo e coerente indirizzo politico li avvalora; ed, allora, è anche pari trattamento di fattispecie parimenti avvalorate e diverso trattamenti di fattispecie diverse» (Cerri, 185). In linea di massima, compendiando i risultati delle riflessioni dottrinarie e giurisprudenziali sulla specifica tematica, il nucleo minimo, affinché sia garantita l'imparzialità dell'azione amministrativa, risiede nella trasparenza del relativo agire, garantita anche e soprattutto dall'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi (oggi sancito a livello legislativo all'art. 3 della l. n. 241/1990) e dalle garanzie del contraddittorio procedimentale, nonché nell'illegittimità dell'attivazione di poteri privi di canoni di esercizio, di discriminazioni irragionevoli e di conflitti di interesse da parte di chi è materialmente preposto all'esercizio di una data attività. Il comma 3 e i funzionari pubblici.Il comma 3 dell'art. 97 prevede che «Nell'ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari». La disposizione va letta in stretto collegamento con quella dell'art. 98 Cost., che disciplina il regime giuridico del pubblico dipendente (ponendolo al servizio esclusivo della Nazione, stabilendo l'impossibilità di conseguire promozioni, se membro del Parlamento, e prevedendo la possibilità di stabilire con legge limitazioni al diritto di iscrizione ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all'estero) e dell'art. 28 Cost., che precisa la responsabilità diretta di funzionari e dipendenti dello Stato e degli enti pubblici, secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti compiuti in violazione dei diritti (norma fondamentale, quest'ultima, per l'attuazione del principio di legalità dell'attività amministrativa). Non a caso, chi, in dottrina, l'ha considerata singolarmente, ha avvertito un'impressione di inutilità della norma: «La norma potrebbe sembrare addirittura superflua, ove non si vedesse in essa, come si deve, un rafforzamento del concetto di Stato di diritto, e pertanto la creazione, pur in questo settore, di una riserva di legge ... che è garanzia di buon assetto degli organi amministrativi e di doveroso rispetto ai diritti dei cittadini che vengono in contatto con gli stessi» (Lucifredi, 246). La norma, invero, non appare superflua, soprattutto se letta nell'ottica, che spesso emerge dall'analisi dei lavori preparatori, della necessaria configurazione dei profili di responsabilità del dipendente presso la pubblica amministrazione (ad esempio, di essa parlano più volte, nella seduta del 14 gennaio 1947 gli on. Mortati e Grieco). L'art. 97 Cost., come anticipato, va considerato in combinato disposto con tutte le altre che, nel corpus della Costituzione, fanno riferimento al dipendente pubblico, il quale infatti, a ben vedere, non potrebbe essere all'esclusivo servizio della Nazione (art. 98 Cost.) se non esercitasse le sue funzioni con disciplina e onore art. 54 Cost.) e se l'ufficio in cui opera non fosse ordinato in modo da assicurare buon andamento ed imparzialità (art. 97, comma 2, Cost.) e nell'ambito dei singoli uffici non fossero determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità di ciascuno (art. 97, comma 3, Cost.). Come è stato ben osservato, dunque, la norma in commento contribuisce a concretizzare il nuovo regime di responsabilità del pubblico funzionario (consacrato all'art. 28 del testo costituzionale) (Caranta, 1901). Il comma 4 e la regola del pubblico concorso.L'ultimo comma della disposizione costituzionale in commento è di estrema rilevanza, in quanto contiene l'affermazione del principio del pubblico concorso quale metodo ordinario di selezione tecnica e imparziale del personale dipendente delle pubbliche amministrazioni. La norma rappresenta chiara espressione dei principi di imparzialità e buon andamento sanciti al comma 2, dal momento che le procedure concorsuali tendono a garantire per le amministrazioni interessate la selezione delle migliori risorse. Ciò avviene allorché le procedure siano improntate alla più ampia trasparenza, e siano condotte da una commissione di valutazione composta da soggetti aventi specifica competenza nelle materie oggetto delle prove, cui spetta il compito di valutare i candidati, sia dal punto di vista del possesso dei requisiti di ammissione (predeterminati a priori), sia da quello della preparazione tecnica, da valutarsi sulla scorta di criteri di scelta, ovviamente, imparziali. Il fine ultimo è quello di evitare che i pubblici dipendenti, posti alle dipendenze della pubblica amministrazione grazie all'intervento/intercessione di taluno, siano portati a svolgere il proprio servizio alle dipendenze, o comunque, sotto l'influenza di questi, e non, come invece dovrebbe essere, della Nazione (secondo il principio sancito al successivo art. 98 Cost.). È proprio per evitare simile rischio che i Padri costituenti optarono per la espressa affermazione (anche) di tale principio nel testo costituzionale (così si legge, infatti, nel verbale dei lavori del 14 gennaio 1947: «Il Presidente Terracini è d'accordo con l'onorevole Tosato sulla opportunità di affermare nella Costituzione che ai pubblici impieghi si debba accedere per concorso. Un'affermazione di tal genere starebbe a precisare in forma solenne che non si può entrare a far parte di una pubblica Amministrazione per tramite di favoritismi»). Quanto sopra evidenziato è stato ben messo in risalto anche dalla Corte costituzionale, la quale ha più volte precisato che il metodo del concorso pubblico è quello che offre la migliore garanzia di selezione di personale qualificato, dei soggetti più capaci, rappresentando, quindi, uno strumento atto a garantire l'efficienza della macchina amministrativa (tra le tante, sentenza Corte cost. n.194/2002 e 215/2009). La regola, per espressa previsione costituzionale, non è tuttavia assoluta, potendo soffrire eccezioni nei «casi stabiliti dalla legge» (come si vede, dunque, anche in tale specifica materia il legislatore costituzionale ha ritenuto di introdurre, come garanzia, una riserva di legge). In relazione a tali deroghe, lo scrutinio del giudice costituzionale è sempre stato particolarmente attento, attesa la rilevanza del principio affermato dalla norma. Ciò perché, secondo la Consulta, ancorché possano verificarsi casi in cui da essa si prescinde, comunque l'«opened competition», in quanto «meccanismo di selezione tecnica e neutrale dei più capaci», resta il «metodo migliore per la provvista di personale da parte di ogni amministrazione pubblica chiamata ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed efficienza» (in questo senso, posso vedersi le sentenze Corte cost. nn.34/2003, 274/2003, 205/2004, 215/2009, 62/2012) e, in quanto tale, esso tollera la previsione di deroghe solo in singoli casi e solo in ricorrenza di specifici requisiti e condizioni tassativamente indicati per legge (così, invece, le sentenze Corte cost. nn.89/2003, 363/2006, 215/2009, 108/2011, e 167/2013). Ancor più nel dettaglio, può definirsi oramai costante e granitica in giurisprudenza l'affermazione per cui «il pubblico concorso costituisce la forma generale e ordinaria di reclutamento per le amministrazioni pubbliche, quale strumento per assicurare efficienza, buon andamento e imparzialità e che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe a tale regola, con la previsione di un diverso meccanismo di selezione per il reclutamento del personale del pubblico impiego, deve essere delimitata in modo rigoroso alla sola ipotesi in cui esse siano strettamente funzionali al buon andamento dell'amministrazione e sempre che ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle» (sentenze Corte cost. n.40/2018 e 110/2017). Affinché l'assunzione presso una pubblica amministrazione possa avvenire senza previo esperimento di procedura concorsuale è, quindi, necessario che la deroga alla regola generale non sia determinata da situazioni tali da farla apparire irragionevole, ma che, per contro, abbia lo specifico fine di garantire il miglior andamento della azione pubblica, venendo in evidenza circostanze di interesse pubblico idonee a giustificare l'impiego diretto. In caso contrario, la norma costituzionale viene violata, con conseguente illegittimità della procedura concorsuale (che può essere dichiarata, in caso di ricorso giurisdizionale, dal giudice amministrativo) e declaratoria di nullità del rapporto di impego venutosi a determinare. BibliografiaAllegretti, L'imparzialità amministrativa, Padova, 1965; Barile, Il dovere di imparzialità della pubblica amministrazione, in Scritti in onore di Calamandrei, Padova, 1958; Caranta, Art. 97 Cost., in Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, Milano, 2006; Caretti, Art. 97, comma 1, parte I Cost., in Caretti, Pinelli, Pototschnig, Long, Borrè, La Pubblica Amministrazione. Art. 97-98, Bologna, 1994; Carlassarre, Amministrazione e potere politico, Padova, 1974; Cerri, Principi di legalità, imparzialità, efficienza, in Lanfranchi L. (a cura di), Garanzie costituzionali e diritti fondamentali, Roma,1998; Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2017; Gardini, Imparzialità amministrativa tra indirizzo e gestione, Milano, 2006; Longobardi, La posizione istituzionale dell'amministrazione pubblica e la Costituzione, Napoli, 2017; Lucifredi, La nuova Costituzione italiana raffrontata con lo Statuto Albertino, Milano, 1952; Mercati, voce Efficienza della pubblica amministrazione, in S. Cassese (diretto da), Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006; Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1962; Niccolai, Riserva di legge e organizzazione della Pubblica Amministrazione, in Giur. cost.,1988; Rescigno, Corso di diritto pubblico, Bologna, 1984. |