Legge - 4/08/1955 - n. 848 art. 7 - Nullum crimen sine lege 1.

Alfonso Celotto

Nullum crimen sine lege 1.

1. Nessuno può essere condannato per un'azione o un'omissione che, al momento in cui fu commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o secondo il diritto internazionale. Non può del pari essere inflitta una pena maggiore di quella che sarebbe stata applicata al momento in cui il reato è stato commesso.

2. Il presente articolo non vieterà il giudizio e la condanna di una persona colpevole d'una azione o d'una omissione che, al momento in cui è stata commessa, era ritenuta crimine secondo i princìpi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili.

[1] Rubrica aggiunta dal Protocollo n. 11, firmato a Strasburgo l'11 maggio 1994 e ratificato con legge 28 agosto 1997, n. 296.

Inquadramento

Con l'articolo in commento, il principio di legalità ed i suoi corollari assumono il rango di garanzie riconosciute anche dal sistema convenzionale di tutela dei diritti umani.

Nella sistematica della Convenzione, il principio del nullum crimen assume una posizione di primo piano facendo parte, insieme ai diritti sanciti dall'art. 2 («diritto alla vita»), dall'art. 3 («proibizione della tortura») e dall'art. 4, par. 1 («proibizione della schiavitù») di un nucleo duro di garanzie che non ammette nessuna deroga, neppure in caso di guerra o di altro pericolo pubblico.

Presupposto per l'esame dell'articolo è l'individuazione del relativo campo di applicazione, per il quale viene in rilievo la nozione di «materia penale» già oggetto di esame nel par. 1.2. del commento all'art. 6 ed al quale si fa integrale rinvio.

Contenuto del principio nullum crimen

Prevedibilità ed accessibilità della norma penale

Più opportuno appare, in questa sede, concentrarsi sul profilo contenutistico del principio di legalità per come enunciato dalla Convenzione EDU.

Innanzitutto, esso appare privo del corollario della riserva di legge, come naturale se si considera che sono Parti della Convenzione anche paesi di common law.

Ma, soprattutto, la dimensione convenzionale del principio di legalità pone l'accento su requisiti qualitativi e sostanziali della legge, non più circoscritti alla sua determinatezza ma concernenti anche l' accessibilità e la prevedibilità delle fonti di produzione delle norme incriminatrici e sanzionatorie, siano esse di origine legislativa o giurisprudenziale.

È con la storica sentenza Sunday Times c. Regno Unito del 1979 che i giudici di Strasburgo, per la prima volta, chiariscono il significato di accessibilità in relazione ad una norma sanzionatoria, affermando che «il cittadino deve poter disporre di informazioni sufficienti, nella situazione concreta, sulle norme giuridiche applicabili ad un determinato caso», a tal fine rilevando il grado di pubblicità delle norme rilevanti, parametrato anche al numero e alle caratteristiche dei destinatari.

Nella stessa sentenza la Corte delinea anche il secondo requisito qualitativo che la norma penale deve possedere, ossia il concetto di prevedibilità.

Perché una legge possa essere definita prevedibile è necessaria, innanzitutto, la determinatezza della norma incriminatrice posto che, come affermato dalla Corte sempre nel caso Sunday Times c. Regno Unito, «si può considerare legge solo una norma enunciata con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta: eventualmente facendo ricorso a consigli chiarificatori, questi deve avere la possibilità di prevedere, con un grado di ragionevole approssimazione in rapporto alle circostanze del caso, le conseguenze che possono derivare da un atto determinato (Corte EDU, Sunday Times c. Regno Unito, par. 49).

Tuttavia, i giudici di Strasburgo hanno sempre escluso che la determinatezza di una norma penale sia caratteristica solo delle norme formulate in termini di tassatività assoluta, essendo questo un obiettivo spesso impraticabile e comunque inidoneo ad assicurare l'adattamento dei precetti ai mutamenti del contesto sociale, con la conseguenza che, a certe condizioni, è riconosciuto al giudice penale un margine di apprezzamento per specificare la portata della norma e concorrere, di fatto, alla definizione del precetto penale (così Corte EDU, Kokkinakis c. Grecia, 1993, in cui è stata riconosciuta la conformità a Convenzione della condanna del ricorrente poiché, nonostante la formulazione piuttosto generica delle condotte vietate dalla norma incriminatrice, la stessa era stata fatta oggetto di una consolidata interpretazione giurisprudenziale in base alla quale l'imputato aveva potuto previamente comprendere, con un sufficiente grado di chiarezza, la rilevanza penale della propria condotta).

Proseguendo nell'indagine circa il contenuto che il principio di legalità ha assunto in sede convenzionale, emerge come, affianco al tradizionale divieto di retroattività delle nuove norme incriminatrici in malam partem, la giurisprudenza della Corte abbia delineato un obbligo di interpretazione ragionevole della norma penale, consistente nel riconoscere «ampi spazi all'attività ermeneutica giudiziale, purché sia garantita una prevedibilità dell'esito interpretativo fondata tanto sulla precedente prassi applicativa quanto sull'eventuale mutamento del contesto socio-culturale» (Bartole-De Sena-Zagrebelsky, cit., 281).

Ciò ha condotto la Corte a ritenere necessario che l'interpretazione giurisprudenziale si sviluppi secondo linee coerenti e che un eventuale overruling, per essere legittimo, dev'essere ragionevolmente prevedibile alla luce dei cambiamenti intervenuti nel contesto sociale, economico e culturale in un dato momento storico, come sancito nel leading case S.W. c. Regno Unito del 1995.

In base alle coordinate così tracciate, in due occasioni i giudici europei hanno ritenuto convenzionalmente non conformi due sentenze di condanna emesse da organi giudiziari di due stati Parti della Convenzione. Si allude ai casi «Pessino» e «Contrada».

Nella prima ipotesi (Corte EDU, Pessino c. Francia, 2006) il ricorrente era stato condannato per un reato in materia urbanistica sulla base di un'interpretazione della norma incriminatrice che la Corte di Cassazione francese aveva adottato abbandonando la precedente interpretazione, ostile a considerare reato il fatto contestato. In quella occasione, la Corte di Strasburgo ha rinvenuto una violazione dell'articolo in parola sul presupposto che «era difficile, se non impossibile per il ricorrente prevedere il mutamento di giurisprudenza e quindi sapere che, al momento in cui l'aveva commesso, poteva incorrere in una sanzione penale».

Nel secondo caso (Corte EDU, Contrada c. Italia, 2015), la Corte ha ritenuto non convenzionalmente conforme una condanna per il reato di concorso esterno in associazione a delinquere di tipo mafioso irrogata in forza di un'evoluzione giurisprudenziale consolidatasi successivamente alla commissione dei fatti contestati, giacché la configurazione del reato è stata «il risultato di un'evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni '80 del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry» e che «all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente, il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo», concludendo che «il ricorrente non poteva conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti».

L'applicazione retroattiva della legge più favorevole al reo. Il caso Scoppola

Ma è soprattutto con riguardo al tema della successione di leggi penali nel tempo che l'approccio «sostanzialista» della Corte europea dei diritti umani ha avuto modo di dispiegarsi pienamente.

Infatti, nonostante il tenore letterale dell'articolo in commento sembri vietare formalmente solo l'ipotesi di applicazione retroattiva di nuove norme incriminatrici o di norme sopravvenute recanti un inasprimento del trattamento sanzionatorio, è all'esito di un percorso evolutivo che la Corte di Strasburgo è giunta, in occasione del noto caso Scoppola c. Italia del 2009, ad enunciare espressamente l'obbligo di applicazione retroattiva dello jus superveniens ove, in ipotesi, più favorevole al reo.

In quella occasione, i giudici europei ebbero modo di evidenziare che l'esigenza di prevedibilità ed accessibilità della sanzione penale induce a ricavare dall'articolo in esame non solo un divieto di ogni forma di retroattività in malam partem, ma anche un più generale divieto di interpretazione estensiva delle previsioni sfavorevoli al destinatario cui si correla, specularmente, l'obbligo di applicazione retroattiva delle disposizioni più favorevoli sopravvenute al fatto e alla condanna.

Nella motivazione con cui la Grande Camera ha accolto il ricorso, la presa di posizione assunta viene giustificata facendo riferimento ad un consenso progressivamente formatosi a livello europeo e internazionale e si conclude, quindi, che «il canone di legalità penale convenzionale deve oramai intendersi nel senso di imporre altresì l'applicazione retroattiva della legge più favorevole» (Bartole-De Sena-Zagrebelsky, cit., 285).

Il ne bis in idem e il «doppio binario sanzionatorio» nella giurisprudenza della Corte: il caso Grande Stevens

Il divieto di sottoposizione del medesimo imputato a un nuovo processo per i medesimi fatti già oggetto di accertamento in una precedente sentenza definitiva è venuto in rilievo, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani, con particolare riferimento al tema del c.d. « doppio binario sanzionatorio ».

È questo un punto in cui le riflessioni concernenti la dimensione convenzionale del principio di legalità intersecano le osservazioni, già evidenziate in sede di commento all'art. 6 della Convenzione, riguardanti la concezione autonoma dell'illecito penale.

Infatti, in conseguenza della «riqualificazione» in termini penali di illeciti e sanzioni che, negli ordinamenti interni, possiedono natura amministrativa, laddove il medesimo fatto costituisce sia illecito penale che presupposto per l'applicazione di una sanzione amministrativa si verifica un insanabile contrasto con il principio del ne bis in idem, corollario, anch'esso del principio di legalità tutelato dalla Convenzione con l'articolo oggetto di analisi.

La Corte EDU ha affrontato la tematica nel celebre caso « Grande Stevens » (Corte EDU, Grande Stevens c. Italia, 2014).

La vicenda che ne ha formato oggetto riguardava l'applicazione congiunta, a carico del ricorrente, delle sanzioni amministrative irrogate dalla Consob per la violazione delle norme del T.U.F. e delle sanzioni penali previste, per il medesimo fatto, dallo stesso testo normativo.

In quella occasione, la Corte europea ha, dapprima, riqualificato in termini penalistici le sanzioni amministrative in questione – valorizzando il carattere generale dell'interesse al regolare funzionamento dei mercati tutelato dalla sanzione in discorso, la funzione preventiva della punizione irrogata ed il suo carattere afflittivo, tenuto conto del massimo edittale astrattamente irrogabile – per poi ravvisare la violazione dell'art. 7, sub specie di divieto di bis in idem, giacché i ricorrenti erano stati già condannati, per i medesimi fatti, con sentenza definitiva.

È interessante sottolineare che il giudizio di identità formulato dalla Corte tra l'illecito penale e quello punito con una sanzione amministrativa si fonda «non sugli elementi strutturali delle fattispecie contestate agli imputati, bensì sull'identità materiale dei fatti per cui si procede una seconda volta dopo una prima condanna definitiva» (Romano, cit., 454).

I principi affermati nella sentenza «Grande Stevens» sono stati poi ulteriormente precisati dalla Corte nel caso «Nykanen» (Corte EDU, Nykanen c. Finlandia, 2014).

In quella occasione, i giudici di Strasburgo hanno affermato che, perché sia ravvisabile una violazione del divieto di bis in idem , occorre che le sanzioni previste per il medesimo comportamento siano irrogate nell'ambito di procedimenti autonomi e differenti, laddove in caso di connessione di procedimenti applicativi di più sanzioni, non è ravvisabile alcuna violazione del divieto poiché è consentito agli Stati contraenti articolare in più tipologie diverse di pena la risposta sanzionatoria al medesimo fenomeno.

Quest'ultima constatazione è stata ulteriormente precisata nella sentenza «A e B» (Corte EDU, A e B c. Norvegia, 2016).

Nel caso portato all'attenzione dei giudici europei, le differenti sanzioni penali ed amministrative irrogate per i medesimi fatti di evasione fiscale avevano costituito oggetto di accertamento in due distinti procedimenti. Nondimeno, tale circostanza non è apparsa alla Corte sicuro indice della violazione del divieto di bis in idem posto che, pur essendo preferibile che l'irrogazione di sanzioni per il medesimo fatto avvenga nel medesimo procedimento, la Convenzione non osta alla previsione di due procedimenti paralleli, purché tra i due vi sia una sufficiente connessione sul piano oggettivo e su quello temporale.

Più in particolare, «la connessione presuppone non solo una contestualità, sul piano temporale, dei due procedimenti, quanto soprattutto la prevedibilità da parte del privato della duplice risposta sanzionatoria ed il carattere proporzionato delle sanzioni in concreto adottate» (Romano, 455).

Da ultimo Cons. St. VI, ord., 7 gennaio 2022, n. 68 ha rimesso alla Corte di Giustizia UE le questioni:

a) se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29/Ce, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale;

b) se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea vada interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale e rendere definitiva una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona giuridica per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno Stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell'impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale;

c) se la disciplina di cui alla Direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli artt. 3 paragrafo 4 e 13 paragrafo 2 lett. e), possa giustificare una deroga al divieto di “ne bis in idem” stabilito dall'art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (successivamente incorporata nel Trattato sull'Unione Europea dall'art. 6 TUE) e dell'art. 54 della Convenzione di Schengen.

Le ricadute sull'ordinamento italiano. Il principio di retroattività in mitius e le sanzioni amministrative.

Il settore in cui più di tutti sono apparse in tutta la sua incisività le conseguenze della lettura convenzionale del principio di legalità operata dalla Corte europea dei diritti umani è, senza dubbio, quella della possibile applicazione retroattiva di norme sopravvenute più favorevoli al trasgressore di un precetto punito con una sanzione amministrativa.

In proposito, è noto come nell'ordinamento interno il fondamento costituzionale del principio di retroattività favorevole in materia penale non ripone nell'art. 25, comma secondo, Cost. nel quale, piuttosto, si ravvisa la base costituzionale del simmetrico principio di irretroattività delle norme sopravvenute sfavorevoli.

L'ancoraggio costituzionale del principio di retroattività in mitius è individuato nel principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost., col quale urterebbe il mantenimento di una sanzione penale per fatti commessi sotto il vigore di una norma modificata in senso favorevole al reo laddove, per quei medesimi fatti, non vi sarebbe pena ove gli stessi fossero commessi dopo l'entrata in vigore della modifica normativa (Fiandaca-Musco, 86).

Ciò ha condotto ad escludere del tutto dal campo di applicazione del meccanismo di retroattività favorevole l'ipotesi di successione nel tempo di leggi che puniscono più lievemente un illecito con sanzione amministrativa ritenendo, nel bilanciamento degli interessi contrapposti, non irragionevole una norma che privilegi la risposta sanzionatoria rispetto al diritto del sanzionato a vedersi modificato in mitius il trattamento sanzionatorio subito.

Tuttavia, la concezione autonomistica dell'illecito penale propugnata dalla Corte EDU da una parte – che ha determinato la riqualificazione in senso penale di molti illeciti sanzionati solo in via amministrativa nell'ordinamento italiano – e dall'altra l'ampia latitudine del principio di legalità convenzionale – nella quale rientra a pieno titolo anche il principio di retroattività favorevole – hanno comportato, per l'interprete interno, la necessità di ripensare la preclusione, sin lì operante, all'applicazione retroattiva di modifiche normative più benevole verso i soggetti colpiti da sanzioni amministrative.

Tale percorso non è stato, però, privo di ostacoli posto che, sul punto, si sono confrontate due impostazioni distinte tra Corte di Cassazione e Consiglio di Stato.

La prima, forse preoccupata di non vanificare l'effetto dei processi di depenalizzazione avviati dal legislatore, ha limitato al massimo la sovrapposizione tra sanzione amministrativa e sanzione penale, mantenendo ben distinte le due categorie formali ed operando un'interpretazione restrittiva della giurisprudenza della Corte EDU, considerata vincolante solo allorquando riguardi un caso specifico già deciso in una fattispecie identica (per tutte, Cass. II, n.3652/2016).

Il secondo invece, competente in sede di giurisdizione esclusiva per le sanzioni irrogate dall'AGCM, ha pienamente aderito all'impostazione sostanzialistica propugnata dai giudici di Strasburgo (si veda, ex multis, Cons. St. VI, n. 2042 e Cons. St. VI, n. 2043/2019).

Anche la Corte costituzionale ha mostrato alcune incertezze prima di pervenire, con due sentenze del 2019 e del 2021, a una piena acquisizione degli esiti interpretativi elaborati dalla giurisprudenza EDU.

Ancora nel 2017 la Consulta ha ritenuto che l'art. 30, quarto comma, della l. n. 87/1953 – a mente del quale «quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali» – fosse applicabile solo «agli illeciti formalmente penali e alle statuizioni tipicamente penali» (Corte cost. n.43/2017).

A suffragare tale conclusione vi era l'idea che la nozione di «materia penale» fosse stata elaborata dalla Corte EDU al solo fine di dare interpretazione ed applicazione alla Convenzione, con la conseguenza di ritenere applicabili ad una sanzione formalmente amministrativa «tutte e soltanto le garanzie previste dalle pertinenti disposizioni della Convenzione», rimanendo invece nel margine di apprezzamento di cui gode ciascuno Stato aderente la definizione dell'ambito di applicazione delle ulteriori tutele predisposte dal diritto nazionale, le quali quindi varrebbero solo per quelle sanzioni che lo stesso considera come penali.

Tale esito appariva poco convincente e difficilmente condivisibile, di fatto introducendo «un doppio regime di garanzie: le sanzioni formalmente penali avrebbero goduto delle garanzie CEDU e delle garanzie costituzionali, mentre le sanzioni formalmente amministrative solo delle garanzie CEDU» (Pisaneschi, 2021, 268).

È nel 2019 che la giurisprudenza costituzionale sull'argomento fa un «salto di qualità» riconoscendo esplicitamente anche a sanzioni formalmente qualificate come amministrative lo status e le garanzie che il diritto interno riserva anche alle sanzioni penali, a partire dall'applicazione retroattiva della lex mitius.

In quella occasione la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che «rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità punitiva, il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale (...) non potrà che estendersi anche a tali sanzioni. A tale conclusione non osta l'assenza, di precedenti specifici nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo. (...) infatti è da respingere l'idea che l'interprete non possa applicare la CEDU se non con riferimento ai casi che siano già stati oggetto di puntuali pronunce da parte della Corte di Strasburgo» (Corte cost. n.63/2019).

Il processo di acquisizione del bagaglio di garanzie procedurali e sostanziali elaborato dalla giurisprudenza convenzionale per gli illeciti penali alle sanzioni che l'ordinamento interno qualifica come formalmente amministrative ha compiuto un ulteriore «passo in avanti» con la sentenza n. 68/2021 della Corte costituzionale.

Con essa la Consulta ha dichiarato illegittimo l'art. 30, comma 4, della l. n. 87/1957 laddove esclude l'applicazione retroattiva delle sentenze di accoglimento di questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto illeciti amministrativi che abbiano l'effetto di eliminare, o modificare in mitius, la sanzione stessa (Corte cost. n.68/2021).

In sostanza, con il pronunciamento in esame la Corte ha parificato la «cedevolezza» del giudicato sulle sanzioni formalmente amministrative ma sostanzialmente penali alla «cedevolezza» del giudicato in materia di illeciti penali, accogliendo in toto la concezione autonomista e sostanzialista della sanzione penale propugnata dalla Corte di Strasburgo e, cosa ancor più importante, attribuendo espressamente alle sanzioni amministrative sostanzialmente penali tutte le garanzie che la Costituzione prevede per le sanzioni penali in senso proprio.

La sentenza della Corte Costituzionale n. 68/2021 , sulla caducazione del giudicato applicativo di legge incostituzionale in tema di sanzioni amministrative incompatibili con i canoni della legalità sostanziale Cedu (art. 7) è un autentico atto fondativo che sancisce la nascita del diritto amministrativo punitivo come autentica branca del diritto penale convenzionale; ne deriva, per la fatale forza espansiva che connota le conquiste giuridiche e per la conseguente inammissibilità di irragionevoli differenziazioni, la necessità che la Consulta sancisca anche il diritto alla riapertura di processi culminati nella formazione di giudicati in contrasto con la legalità procedurale ex art. 6 della Convenzione.

La sentenza della Consulta pare aver portato a compimento un processo ma, tuttavia, lascia aperti alcuni interrogativi.

Infatti, mentre la cedevolezza del giudicato penale dinanzi ad un pronunciamento della Corte EDU che accerti la violazione delle garanzie sostanziali e procedurali approntate dalla Convenzione appare un dato pienamente acquisito a livello normativo (anche per effetto dell'intervento additivo della Corte Costituzionale che, con la sentenza n.113/2011, ha dichiarato illegittimo l'art. 630 c.p.p. laddove non prevedeva la possibilità di revisione della sentenza definitiva di condanna ove ciò fosse necessario a conformarsi ad una pronuncia della Corte di Strasburgo), non così è a dirsi per le sentenze civili e amministrative passate in giudicato ma contrastanti con la giurisprudenza EDU.

Infatti, i casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c. appaiono estremamente stringenti e, come noto, la Consulta ha anche rigettato la questione di costituzionalità sollevata dal Consiglio di Stato con cui veniva propugnata una declaratoria di incostituzionalità dell'articolo in parola ove non prevede, tra i casi di revocazione, l'adeguamento ad una sentenza passata in giudicato della Corte EDU (Corte cost. n.123/2017).

Secondo i giudici costituzionali, infatti, vi sarebbe una differenza importante tra processo penale e giudizio civile o amministrativo. Nel primo verrebbe in gioco la libertà personale, oggetto assente nei secondi. Di converso i processi civili e amministrativi, al contrario di quelli penali, possono coinvolgere terzi diversi dallo Stato, il cui affidamento sulla stabilità del giudicato è particolarmente meritevole di tutela.

Tuttavia, a ben vedere, proprio una lettura sostanzialistica delle sanzioni formalmente amministrative conduce ad auspicare un superamento delle conclusioni raggiunte dalla Consulta nel 2017.

Infatti, se la sanzione formalmente amministrativa ha una portata afflittiva e punitiva tale da poter essere considerata, nella sostanza, avente carattere penale, nel giudizio che l'ha ad oggetto viene in rilievo inevitabilmente l'afflizione personale che ne deriva. Inoltre, postulandone il carattere penale, prevalgono finalità afflittive e dissuasive che fanno sì che la controparte, nel giudizio di opposizione alla sanzione sia solo l'autorità amministrativa dotata del potere punitivo, e non soggetti privati che possano confidare nella stabilità del relativo giudicato (Pisaneschi, 2021, 274 e ss.).

L’escussione della cauzione provvisoria nelle gare pubbliche non è una sanazione punitiva sostanzialmente penale

Con un'importante pronuncia  caratteri del diritto amministrativo punitivo Corte Cost. 29 luglio 2022, n. 198 ha dichiarato infondata la  questione di  legittimità costituzionale- in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 49, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, e all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848del combinato disposto degli artt. 93, comma 6, e 216, comma 1, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), nella parte in cui limita l'applicazione della più favorevole disciplina da esso dettata in tema di garanzia provvisoria «alle procedure e ai contratti per i quali i bandi o avvisi con cui si indice la procedura di scelta del contraente siano pubblicati successivamente alla data della sua entrata in vigore».

 Nel merito, le questioni non sono fondate in relazione a tutti i parametri evocati dal rimettente, che possono essere scrutinati congiuntamente, posto che il principio di retroattività della lex mitior in materia penale trova fondamento nell'ordinamento costituzionale, sia direttamente, sia per effetto dell'azione degli artt. 49 CDFUE e 7 CEDU, in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost.

– Parimenti pertinente è, in linea astratta, l'art. 7 CEDU, il cui significato converge con quello tratto dalla Costituzione e dall'art. 49 CDFUE nel delineare un assetto di tutela omogeneo.

Dopo una prima affermazione di principio contenuta nella sentenza n. 193 del 2016, questa Corte, con la pronuncia n. 63 del 2019, ha infatti espressamente affermato l'applicabilità della regola della retroattività in mitius anche alle sanzioni amministrative, richiamandosi alla giurisprudenza della Corte Edu.

 Tanto premesso,  la  Corte esclude la correttezza del presupposto interpretativo da cui muove l'ordinanza di rimessione, secondo cui l'escussione della garanzia provvisoria, nell'ipotesi di esito negativo del controllo a campione sul possesso dei requisiti speciali a carico dei partecipanti alla procedura di gara diversi dall'aggiudicatario (art. 48, comma 1, del d.lgs. n. 163 del 2006), ha natura di sanzione “punitiva” agli effetti della CDFUE e della CEDU e, quindi, soggiace alle garanzie dalle stesse previste, tra cui il principio di retroattività della lex mitior.

Si tratta, infatti, di «una misura di indole patrimoniale, priva di carattere sanzionatorio amministrativo nel senso proprio», che costituisce l'automatica conseguenza della violazione del dovere di correttezza gravante sull'offerente e realizza un'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante (ancora, Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 34 del 2014; in senso analogo, Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza 4 febbraio 2009, n. 2634, che ne ha sottolineato l'affinità con la caparra confirmatoria).

Si sottolinea  che l'escussione della garanzia provvisoria ha un ambito applicativo limitato agli operatori economici che partecipano alle procedure di gara per l'affidamento di contratti pubblici e non è rivolta alla generalità dei consociati. Detta escussione mira, infatti, a garantire l'ordinato svolgersi di una specifica procedura amministrativa, al punto che il relativo importo non viene assicurato al bilancio pubblico in generale, ma incamerato dalla stazione appaltante.

Lo scopo da essa perseguito, inoltre, non è repressivo e punitivo, essendo volta, da un lato, a «garantire serietà ed affidabilità dell'offerta», dall'altro, a consentire «l'anticipata liquidazione dei danni subiti dalla stazione appaltante» in caso di omessa dimostrazione dei requisiti speciali di partecipazione dichiarati dal concorrente in sede di presentazione dell'offerta (ordinanza n. 211 del 2011).

Anche se talvolta, in letteratura e in giurisprudenza, viene adottata la assai generica espressione “sanzione”, trattasi comunque di un rimedio non “punitivo”. L'escussione della cauzione provvisoria, anche se può avere un effetto indirettamente punitivo del concorrente che ha partecipato alla procedura di gara, dichiarando il possesso di requisiti che non ha poi confermato, risponde infatti all'esigenza di garantire il rispetto delle regole procedurali e, quindi, l'affidabilità di tutti i concorrenti e dell'offerta da essi presentata, nonché la speditezza della procedura medesima.

In questa stessa ottica, l'incameramento della garanzia provvisoria “sanziona” «la violazione dell'obbligo di diligenza gravante sull'offerente» (ordinanza n. 211 del 2011), nel senso che costituisce il rimedio apprestato dall'ordinamento a tutela dell'interesse della stazione appaltante alla serietà e affidabilità dell'offerente stesso e al rispetto, da parte sua, delle regole di gara.

L'attività contrattuale dell'amministrazione, «sebbene svolta con i moduli autoritativi e impersonali dell'evidenza pubblica», è infatti inquadrabile «nello schema delle trattative prenegoziali», da cui deriva «l'assoggettamento al generale dovere di comportarsi secondo buona fede enunciato dall'art. 1337 cod. civ.» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza 29 novembre 2021, n. 21). Quest'obbligo grava, ovviamente, su entrambe le parti “della trattativa” e, quindi, non solamente sulla stazione appaltante, ma anche sui partecipanti alla procedura di gara e la sua violazione dà vita a responsabilità precontrattuale, che è posta appunto «a presidio dell'interesse di ordine economico a che sia assicurata la serietà dei contraenti nelle attività preparatorie e prodromiche al perfezionamento del vincolo contrattuale» (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 21 del 2021).

L'escussione della garanzia provvisoria risponde, quindi, alla funzione tipica dei rimedi apprestati dall'ordinamento a fronte di condotte contrarie a buona fede fondanti la responsabilità precontrattuale, che, anche quando “sanzionano” comportamenti scorretti imputabili alla parte, non sono “punitivi” perché sono tesi a salvaguardare posizioni giuridiche soggettive contro la violazione ingiustificata del dovere di correttezza.

Peraltro, il carattere sanzionatorio che assumono, in taluni casi, i rimedi civilistici non implica che essi siano conseguentemente qualificabili come sanzioni “punitive” agli effetti della CEDU e della CDFUE, in ragione della ormai riconosciuta natura polifunzionale della responsabilità civile.

L'incameramento della cauzione provvisoria è, insomma, un rimedio atto a sanzionare il mancato rispetto del dovere di buona fede e correttezza nella fase precontrattuale da parte di coloro che, partecipando alla procedura di gara, si impegnano a osservarne le regole.

Come accade in altri istituti previsti dal nostro ordinamento, inoltre, alla funzione di tutela dell'interesse dell'amministrazione ad evitare l'inutile e non proficuo svolgimento di complesse attività selettive, si aggiunge quella di liquidare, preventivamente e forfettariamente, il danno da essa eventualmente subito.

Da qui la funzione complessa della garanzia provvisoria e della sua escussione, volte a rafforzare complessivamente la posizione giuridica dell'amministrazione a tutela dell'interesse pubblico alla concorrenza, trasparenza e legalità delle procedure di affidamento dei contratti pubblici di cui essa è portatrice.

«La stessa mancanza di discrezionalità in capo all'autorità amministrativa» (sentenza n. 276 del 2016) chiamata ad escutere la cauzione provvisoria, la quale consegue automaticamente all'esclusione dalla procedura di gara per assenza o mancata dimostrazione del requisito speciale dichiarato in sede di offerta, costituisce un indice ulteriore del fatto che l'incameramento di questa cauzione non abbia carattere “punitivo”, ma sia essenzialmente diretto a garantire il rispetto delle regole di gara, restaurando l'interesse pubblico leso, che è quello di evitare la partecipazione alla gara stessa di concorrenti inidonei o di offerte prive dei requisiti richiesti.

Una volta escluso che la misura in oggetto persegua le finalità afflittive proprie della pena, poste nell'interesse generale dell'ordinamento, anziché in quello settoriale della pubblica amministrazione coinvolta nella gara, va aggiunto che neppure il suo grado di severità conforta le premesse ermeneutiche del rimettente.

Nella specie, si deve sottolineare – come dedotto dall'Avvocatura generale dello Stato – che l'entità della garanzia provvisoria, ai sensi dell'art. 75 del previgente codice dei contratti pubblici, era pari al «due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito» e, quindi, ad una percentuale non particolarmente elevata di esso.

Peraltro, il comma 7 del medesimo art. 75 prevedeva una serie di ipotesi, cumulabili tra loro, in cui l'importo di questa garanzia era ridotto da un minimo del quindici a un massimo del cinquanta per cento, giustificate dal possesso, da parte degli operatori economici, di determinate certificazioni.

Dall'importo della garanzia provvisoria, dalla previsione di forme alternative di costituzione (la cauzione o la fideiussione) e dal regime delle riduzioni previste dal legislatore, dunque, può ben desumersi l'assenza di quel connotato di speciale gravità, necessario affinché la misura pregiudizievole possa essere assimilata a una sanzione sostanzialmente penale.

Sulla base delle considerazioni che precedono, non può condividersi il presupposto interpretativo dal quale muove l'ordinanza di rimessione, che si basa sulla natura di sanzione “punitiva” dell'incameramento della garanzia provvisoria in caso di esito negativo del controllo a campione.

Bibliografia

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