Convenzione - 7/12/2000 - n. 11312 art. 47 - Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale

Alfonso Celotto

Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale

Ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, nel rispetto delle condizioni previste nel presente articolo.

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge. Ogni persona ha la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare.

A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti è concesso il patrocinio a spese dello Stato, qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia.

Inquadramento

L'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea apre la sezione dedicata alla giustizia, proclamando un principio generale del diritto UE che si articola in tre garanzie fondamentali: il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice, il diritto a un equo processo, il diritto a un accesso effettivo alla giustizia.

Non si tratta della consacrazione di un nuovo principio, ma della codificazione di un «diritto vivente», ovvero di quell'insieme di garanzie già radicate nel sistema dell'Unione europea, in quanto «valori effettivi e fondanti» (Trocker, 381). Tra di essi, gioca un ruolo decisivo lo Stato di diritto che, qualificando «la forma di Stato che si basa sulla supremazia del diritto (Rechtsstaat)» è tale da «ricomprendere il principio generale del diritto dei singoli ad una tutela giurisdizionale effettiva» (Mastroianni, 586).

Il contenuto della disposizione sancita nell'art. 47 della Carta rappresenta, dunque, il frutto dell'elaborazione giurisprudenziale avviata dalla Corte di giustizia, dalla fine degli anni Sessanta.

Il cammino percorso dall'ordinamento, prima comunitario, poi dell'Unione, in tema di giustizia e di tutela giudiziaria, affonda le sue radici nella garanzia dei diritti assicurata in via pretoria, sin da quando, nella nota sentenza Stauder, la Corte di giustizia affermava che la tutela dei diritti fondamentali era parte integrante dei principi generali del diritto comunitario e che quindi la salvaguardia degli stessi sarebbe stata da essa assicurata nel quadro degli obiettivi comunitari (CGCE, 12 novembre 1969, C-29/69, Stauder). È mediante tale strada che la Corte di giustizia è riuscita così a sopperire alla originaria mancanza di norme comunitarie sul tema, a fronte della precisa scelta istituzionale che qualificava la giustizia come «affare» degli Stati. Nell'arco di circa un trentennio, la Corte ha quindi definito i connotati essenziali e caratterizzanti l'ordinamento comunitario ed entro tale cornice assicurato che la tutela giurisdizionale fosse effettiva. La costruzione dei pilastri portanti il processo di integrazione europea, ovvero il primato, gli effetti diretti e indiretti del diritto comunitario, garantiti mediante la disapplicazione e l'interpretazione conforme del diritto nazionale, ha consentito il graduale sviluppo delle garanzie giurisdizionali. Acclarato che la primauté del diritto comunitario implica l'applicazione uniforme dello stesso negli Stati membri e che l'efficacia diretta delle sue norme garantisce ai singoli la giustiziabilità delle stesse, ovvero la possibilità di invocarle dinanzi ad organi nazionali, al fine di ottenerne l'attuazione, è stato indispensabile, oltre che conseguenziale, assicurare che gli Stati predisponessero adeguati strumenti di tutela giudiziaria. Ferma restando l'autonomia processuale dei legislatori nazionali, si è dunque affermato che i meccanismi autonomamente scelti dai singoli ordinamenti non potessero, in alcun modo, spingersi al punto da rendere impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti di matrice comunitaria (CGCE, 16 dicembre 1976, C-33/76, Rewe). Nella mirabile costruzione pretoria, un passo avanti si è poi compiuto con il riconoscimento, in capo agli Stati, dell'obbligo di garantire la tutela effettiva dei diritti derivanti dell'ordinamento comunitario (CGCE, 10 aprile 1984, C-14/83, Von Colson). Per arrivare, così, alla proclamazione, nella metà degli anni Ottanta, del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, quale «espressione di un principio giuridico generale che trova ingresso ed assume rilievo nell'ordinamento comunitario» in quanto «principio su cui sono basate le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» e in quanto «diritto sancito dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali del 1950» (CGCE, 15 maggio 1986, C-222/84, Johnston).

Innegabile il ruolo delle tradizioni costituzionali, della Cedu e della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, nella determinazione contenutistica del principio di effettività della tutela giurisdizionale.

D'altra parte, è proprio attingendo a tali «fonti di ispirazione», quali «vivai della protezione dei diritti fondamentali», che la Corte ha progressivamente arricchito gli strumenti di tutela a garanzia delle situazioni giuridiche soggettive dei singoli (Weiler, 95). Ben presto, però, il legame rispetto a tali fonti si è sensibilmente attenuato, consentendo alla Corte di giustizia di plasmare un sistema di tutela dei diritti capace di esprimere in modo originale l'identità del sistema comunitario.

È coerentemente con tale sviluppo che il forte legame con la Cedu si è attutito anche con riguardo al principio di effettività della tutela giurisdizionale, il cui contenuto sostanziale si è riempito di un significato proprio ed esclusivo del sistema giuridico dell'Unione europea.

Ecco allora che nella successiva giurisprudenza, il principio in esame acquista una sua indiscussa autonomia e originalità.

Sviluppandosi infatti in funzione delle esigenze del sistema comunitario, assume connotati identitari diversi rispetto alla configurazione dello stesso sul piano convenzionale e più ampi, in quanto caratterizzanti le peculiarità di un ordinamento integrato.

Indubbiamente il principio di effettività della tutela giurisdizionale è strettamente legato all'effettività del diritto, in quanto «nozione imprescindibile per comprendere e giustificare ogni ordinamento giuridico» (Carbone, 12). La tutela delle situazioni processuali dei singoli è dunque funzionale a garantire la piena efficacia delle norme dell'Unione (Tizzano, 138) e più in generale il buon funzionamento dell'ordinamento giuridico dell'Unione. Così, come, d'altra parte, le norme UE sono davvero «effettive» solo se e nella misura in cui l'ordinamento riesce a garantire, in modo altrettanto «effettivo», una tutela idonea ai soggetti che ad esse ricorrono (Vitale, 11).

Sulla interdipendenza dei due principi, nulla quaestio.

Tuttavia, il principio di effettività della tutela giurisdizionale non ha solo valore strumentale rispetto all'effettività tout court , ma gode di una sua autonomia, a fronte dell'importanza che nell'ordinamento dell'Unione assume la soggettività dei singoli individui (CGCE, 25 luglio 2002, C-50/00P, Union Pequenos Agricultores; CGUE, 17 novembre 2011, C-430/10, Gaydarov).

Come noto, infatti, sin dalla famosa sentenza Van Gend & Loos, la Corte di Giustizia ha precisato che «la Comunità Economica Europea costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati membri hanno rinunciato, seppure in settori limitati, ai loro poteri sovrani ed al quale sono soggetti non soltanto gli Stati membri, ma pure i loro cittadini» (CGCE, 5 febbraio 1963, C-26/62, Van Gend & Loos).

Questi, dunque, al pari degli Stati e delle istituzioni, sono i protagonisti del sistema integrato, in cui l'ordinamento sovranazionale e quelli interni cooperano nell'ottica di una tutela multilivello.

In altri termini, è con riguardo al principio di effettività della tutela giurisdizionale che si coglie l'essenza del rapporto di integrazione, caratterizzato da una efficace ed efficiente cooperazione tra giudici dell'Unione e giudici nazionali, quali longa manus della Corte di giustizia, nell'ottica di assicurare adeguata tutela alla posizione degli individui (Romito, 355).

Il principio di effettività della tutela giurisdizionale, non tanto e non solo legato all'ineluttabile esigenza di tenuta dell'ordinamento, ma finalizzato alla protezione dei diritti individuali, ha così assunto una sempre maggiore specificità nell'ordinamento dell'Unione, ove il coordinamento tra livelli nazionali e livello sovranazionale si è progressivamente sviluppato nella logica di assicurare agli individui, quali soggetti dell'ordinamento, una sempre più efficace tutela, a fronte di eventuali situazioni giuridiche pregiudicate.

Siffatta configurazione ha portato a rendere ancora più netta la linea di demarcazione tra l'art. 47 della Carta e l'art. 13 della CEDU, dal momento che nell'ordinamento dell'Unione, in quanto integrato, la cooperazione tra organi giurisdizionali interni e sovranazionali garantisce un livello di tutela più ampio ed eterogeneo, esplicandosi sia rispetto alle autorità nazionali che dinanzi a quelle europee.

Invero, peraltro, l'operatività del principio rispetto alle istituzioni, agli organi e agli organismi dell'Unione rappresenta uno sviluppo ulteriore, dovuto all'introduzione dell'art. 47 della Carta, rispetto a quanto garantito dalla pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia che si limitava ad assicurare la tutela ai diritti processuali dei singoli solo nei confronti degli Stati membri che agivano nel quadro del diritto dell'Unione (Tridimas).

L'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali non ha dunque solo valore meramente ricognitivo.

Sul piano formale, è noto che la consacrazione di un principio generale in un testo scritto incrementa indubbiamente la certezza del diritto e dei diritti. Una certezza che, declinata nel caso di specie anche in termini di conoscibilità del diritto alla tutela giurisdizionale effettiva, ha determinato un significativo incremento delle questioni pregiudiziali concernenti l'interpretazione del principio stesso (Mastroianni, 590).

Sul piano sostanziale, la più ampia protezione garantita alle situazioni giuridiche dei singoli emerge sia dal tenore letterale della formulazione contenuta nell'art. 47 della Carta, sia dall'interpretazione della stessa.

Il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.

Il comma 1 dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali riconosce a ogni individuo, i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell'Unione, siano stati violati, il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.

Di fondamentale importanza, l'ampia portata soggettiva.

Il soggetto attivo cui è riconosciuto siffatto diritto non è il solo cittadino dell'Unione, bensì l'individuo in quanto tale.

Posto che l'esigenza di assicurare un controllo giurisdizionale effettivo «è intrinseca all'esistenza di uno Stato di diritto», ragioni di eguaglianza e ragionevolezza hanno indotto a estendere siffatta garanzia a ogni individuo (CGUE, 28 marzo 2017, C-72/15, Rosneft). Si tratta, peraltro, di una scelta indubbiamente coerente con la ratio sottesa alla proclamazione della Carta stessa. Un testo scritto che ufficialmente suggella che anche l'Unione tutela i diritti dell'uomo, non più e non solo considerato come lavoratore, come operatore economico, come protagonista di un complesso sistema volto al (solo) perfezionamento del mercato unico, ma come persona umana, non può che assicurare l'operatività di un diritto di sì rilievo a ogni individuo.

Nel determinare le motivazioni sottese all'oggetto della tutela giurisdizionale, l'art. 47 ricorre all'endiadi diritti e libertà, senza ulteriore qualificazione, al pari di quanto sancito nell'art. 13 della CEDU (Borraccetti). Si tratta di una definizione volutamente generica e indubbiamente coerente con la pregressa giurisprudenza della Corte di giustizia. È del tutto irrilevante la qualificazione dei diritti, sulla base di nozioni, istituti e definizioni degli ordinamenti nazionali. Si pensi, ad esempio, alle differenze, nel nostro ordinamento, tra diritti soggettivi, interessi legittimi, interessi diffusi. Manca ogni riferimento a siffatte definizioni perché quel che conta, per l'ordinamento dell'Unione, è che sia garantita una tutela giurisdizionale adeguata ed effettiva a tutte le posizioni giuridiche soggettive protette dal diritto dell'Unione (Trocker, 383).

A fronte di un'eventuale violazione di tali posizioni giuridiche, l'art. 47 garantisce il diritto a un ricorso effettivo. L'oggetto della tutela giurisdizionale sorge dunque nel caso di una violazione. Violazione che può essere perpetrata da organi europei o da organi nazionali.

Nel primo caso, ovvero qualora la lesione dei diritti e delle libertà di un individuo derivi da attività poste in essere da istituzioni dell'Unione, il principio della tutela giurisdizionale va contemperato con il principio di attribuzione.

Ciò significa che l'applicazione del primo non può in alcun modo conferire agli individui il diritto di rivolgersi al giudice dell'Unione per chiedere alle istituzioni di compiere attività diverse e ultronee rispetto a quelle delimitate dalle competenze loro attribuite (Trib. 11 giugno 2015, T-496/13, McCullough c. Cedefop).

L'orientamento giurisprudenziale è sempre stato, rispetto a tale configurazione, molto restrittivo (Trib. 3 maggio 2002, T-177/01, Jégo-Quéré c. Commissione).

Né le modifiche apportate con il Trattato di Lisbona hanno sortito gli effetti sperati.

Si auspicava, infatti, che sia l'ampliamento della portata applicativa dell'art. 263, comma 4, del TFUE – nella parte in cui introduce la possibilità di impugnare gli atti regolamentari che riguardano direttamente il singolo e non comportano misure di esecuzione – sia la consacrazione del principio nell'art. 47 della Carta avrebbero spinto i giudici dell'Unione a muoversi verso un'interpretazione evolutiva ed estensiva della tutela giurisdizionale in tale ambito (Waelbroeck, Bombois, 114).

Tuttavia, la giurisprudenza successiva ha tradito siffatte aspettative, confermando un atteggiamento forse eccessivamente riluttante e formale (CGUE, 28 aprile 2015, T e L Sugars c. Commissione).

Probabilmente dietro un orientamento sì riottoso si cela la necessità di limitare il carico di lavoro gravante sulle autorità giurisdizionali dell'Unione e contestualmente di responsabilizzare, il più possibile, i giudici nazionali, quali giudici del diritto dell'Unione.

Emblematica in tal senso l'immagine dei «vasi comunicanti» per raffigurare il necessario ampliamento dei poteri dei giudici nazionali «in corrispondenza di (e per colmare le) lacune del sistema giurisdizionale comunitario», nell'ottica di assicurare adeguata tutela alla posizione degli individui. Per quanto stimolante e suggestiva, però, tale ricostruzione spesso non funziona (Mastroianni). Non è sempre possibile, ad esempio, far valere l'invalidità di un atto dell'Unione in via incidentale a mezzo del rinvio pregiudiziale (Vitale). O, ancora, per sindacare la conformità degli atti dell'Unione agli accordi internazionali da essa stessa stipulati, pare evidente l'impossibilità di compensare, con l'intervento delle corti nazionali, il divieto di accesso diretto alla Corte di giustizia (Mastroianni).

Ben diverso, invece, l'orientamento dei giudici dell'Unione rispetto all'eventuale violazione di diritti e libertà imputabile a organi nazionali. Naturalmente deve trattarsi di una violazione commessa nell'ambito di attività poste in essere nell'attuazione del diritto dell'Unione, sulla base di quanto prescritto dall'art. 51 della Carta. Come in più occasioni precisato dalla Corte di giustizia, stante la difficoltà riscontrata dai giudici, tale ipotesi ricorre allorquando esiste «un collegamento di una certa consistenza che vada al di là dell'affinità tra le materie prese in considerazione o dell'influenza indirettamente esercitata da una materia sull'altra» (Terminiello).

Vero è che, in nome della leale collaborazione e conformemente alle ragioni sottese al rapporto di integrazione, gli ordinamenti giuridici nazionali, pur godendo di ampia autonomia, devono adoperarsi affinché il trattamento processuale delle situazioni giuridiche di matrice europea sia equivalente a quello garantito a livello interno. I rimedi giurisdizionali nazionali non possono dunque rendere eccessivamente difficile o del tutto inoperante la tutela processuale delle posizioni giuridiche attribuite dall'Unione.

Tuttavia, in tale ambito e fermo restando il rispetto dell'autonomia procedurale, la giurisprudenza della Corte ha raggiunto «un elevato grado di invasività», fino al punto di imporre agli Stati rimedi addizionali, non previsti sul piano interno, o finanche di obbligarli alla rimozione di prassi e regole considerate ostative alla realizzazione di una tutela giurisdizionale effettiva (Mastroianni). Emblematica, nel primo caso, la declaratoria di incompatibilità con il diritto dell'Unione di una normativa nazionale ungherese, nella parte in cui precludeva a determinati soggetti la legittimazione processuale ad agire in giudizio (CGUE, 19 marzo 2015, C-510/13, E.ON Földgàz Trade). O, con riguardo a interventi demolitori di regole processuali nazionali, interessante la pronuncia con cui la Corte ha richiesto al giudice estone di disapplicare una norma interna, nella parte in cui prevedeva la non impugnabilità di una decisione resa da un organo nazionale (si trattava, in particolare, di una decisione del comitato di sorveglianza con cui veniva respinta una domanda di sovvenzione: CGUE, 17 settembre 2014, C-562/12, MTÜ Liivimaa Lihaveis).

È in tale contesto che si inserisce, peraltro, il severo scrutinio condotto dalla Corte di giustizia con riguardo a eventuali limitazioni poste dagli ordinamenti nazionali rispetto alle condizioni di ammissibilità del rinvio pregiudiziale,exart. 267 TFUE (CGUE, 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan e a.; CGUE, 4 ottobre 2021, C-161/21, Comune di Camerota). Risponde, poi, alla stessa logica la qualificazione dell'omesso rinvio pregiudiziale da parte di giudici di ultima istanza, quale causa di responsabilità nei confronti dello Stato (CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler; CGUE, 13 giugno 2006, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo).

Con riguardo, in particolare, alle violazioni del diritto dell'Unione imputabili ad attività di organi nazionali, l'evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia si è rivelata direttamente proporzionale a un progressivo ampliamento e sviluppo dell'effettività della tutela risarcitoria (Ferraro).

Acclarato che tutte le forme di inadempimento del diritto dell'Unione, compiute da qualsiasi organo nazionale, sia esso legislativo, amministrativo o giurisdizionale, implicano la responsabilità risarcitoria dello Stato se cagionano danni ai singoli, si realizza un più efficace ed efficiente modello europeo di garanzia giurisdizionale (CGCE, 19 novembre 1991, C-6/90 e 9/90, Francovich; CGCE, 23 maggio 1996, C-5/94, Hedley Lomas Ltd; CGUE, 30 settembre 2003, C-224/01, Kobler).

In altri termini, l'affermazione di un obbligo risarcitorio di così ampia portata, a favore degli individui, risulta funzionale al rafforzamento del principio di effettività della tutela giurisdizionale e garantisce, sia pur indirettamente, e in una prospettiva più ampia, l'uniforme e corretta attuazione del diritto dell'Unione (Cannizzaro).

È forse in ragione della stretta complementarietà, in tale ambito, dei due principi – di effettività della tutela giurisdizionale e di effettività del diritto in generale – che si giustifica l'elevato grado di incisività della giurisprudenza di Lussemburgo sugli ordinamenti nazionali. Il mantenimento di standard eccessivamente diversificati di tutela delle posizioni processuali degli individui non solo pregiudicherebbe il soddisfacimento degli interessi dei singoli, ma inciderebbe sull'esigenza di uniformità nell'applicazione del diritto dell'Unione, precludendone significativamente l'operatività.

È in nome del principio di uniformità, peraltro, che va qualificato l'oggetto della tutela giurisdizionale di cui all'art. 47 della Carta. Si è molto discusso, a fronte delle diverse versioni linguistiche, sul se il diritto in esame si configuri quale ricorso, come tradotto in Italia, Francia e Spagna, o quale rimedio, come tradotto nei sistemi di common law. Non si tratta di una divergenza meramente formale. Posto infatti che i termini non sono perfettamente fungibili e che «i rimedi precedono i diritti» (Brutti), «ragionare in termini di rimedi è (...) più garantista per il soggetto che vuol difendere il proprio interesse violato dall'Autorità o da un altro provato» (Alpa). Il rimedio, piuttosto che il ricorso, è dunque in grado di attagliarsi più opportunamente al sistema processuale europeo, contribuendo a realizzare una tutela più effettiva. L'effettività, infatti, va declinata, in tale ambito, nella necessità di individuare concretamente lo strumento davvero adeguato e corrispondente alla singola fattispecie. Ecco allora che il rimedio, per la duttilità delle soluzioni che ricomprende (Mazzamuto), è in grado di soddisfare efficacemente le molteplici ed eterogenee situazioni giuridiche che caratterizzano i diversi ordinamenti nazionali.

Rimedi che vanno, in ogni caso, esperiti, dinanzi a un giudice.

Diversi i criteri, sostanziali e non meramente formali, che nel tempo sono stati elaborati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia per qualificare il «giudice» (De Sena): l'origine legale dell'organo, il suo carattere permanente, l'obbligatorietà della sua giurisdizione, l'indipendenza, la natura contraddittoria del procedimento dinanzi a lui instaurato e la doverosa applicazione di norme giuridiche (a partire dalla CGCE, 30 giugno 1966, C-61/65, Vaassen-Göbbels; poi, CGCE26 novembre 1999, C-440/98, RAI; CGUE, 21 gennaio 2020, C-274/14, Banco de Santander).

In ogni caso, però, per «giudice» deve intendersi, nel sistema di integrazione europea, tanto il giudice dell'Unione, quanto quello nazionale, nella sua veste di giudice comune di diritto europeo, il cui ruolo è fondamentale soprattutto in sede di rinvio pregiudiziale (Grasso).

La competenza degli uni non esclude necessariamente la competenza degli altri, come dimostrato dalla più recente giurisprudenza europea, in tema di questioni doppiamente pregiudiziali (CGUE, 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki Abdeli; CGUE, 11 settembre 2014, C-112/13, A c. B).

In tale contesto, è proprio a fronte del possibile «concorso di rimedi giurisdizionali», derivanti dalla «sopravvenienza delle garanzie approntate dalla CDFUE a quelle previste dalla Costituzione italiana», che anche la Corte costituzionale italiana si è avvicinata all'orientamento della Corte di giustizia e si è rivolta ai giudici comuni, invitandoli a una più proficua collaborazione, per garantire una partecipazione attiva di tutti i giudici nel circuito sovranazionale di tutela dei diritti, ove la formazione dell'identità europea deriva anche dal contributo della viva vox nazionale (Corte cost.n. 269/2017; Corte cost. n. 20/2019; Corte cost. n. 63/2019; Corte cost. n. 117/2019; Corte cost. n. 119/2019; Corte cost. n. 182/2020, Corte cost. n. 182/2021).

Il diritto a un equo processo.

Il secondo comma dell'art. 47 della Carta dei diritti contiene due principi fondamentali relativi ai meccanismi processuali che garantiscono l'applicazione dei rimedi giudiziali, ovvero il diritto a un giusto processo e il diritto alla difesa.

Il primo, configurandosi come diritto ad avere un esame equo, pubblico, in termini ragionevoli e dinanzi a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge, riprende in larga misura la proclamazione già sancita nell'art. 13 della CEDU.

A differenza di quest'ultima, però, la norma non distingue i meccanismi di tutela in base alla natura penale o civile delle azioni, ricomprendendo nell'ambito della stessa previsione le garanzie per entrambi i giudizi (Trocker).

Per definire contenuti e dimensioni del concetto di equo processo, i giudici europei si sono avvalsi non solo della Cedu, ma soprattutto dell'interpretazione della stessa, come emerge anche dalle Spiegazioni della Carta dei diritti fondamentali, relative all'art. 47, ove si legge che il contenuto e la portata dei diritti sono determinati non solo dal testo ma anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Già prima del riconoscimento dell'efficacia giuridica vincolante della Carta, il Tribunale affermava che «il rispetto del diritto degli amministrati a che la loro causa sia esaminata da un tribunale indipendente e imparziale è garantito dall'art. 6, n. 1, della Convenzione, cui rinvia l'art. 6, n. 2, del Trattato sull'Unione europea, ed è stato riaffermato dall'art. 47, comma 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. In quanto parte integrante dei diritti fondamentali protetti nell'ordinamento giuridico comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto (...), il diritto ad un equo processo costituisce manifestamente una norma di diritto intesa a conferire diritti agli amministrati» (Trib. 11 luglio 2007, T-351/03, Scheneider electric SA/Commissione).

Il frequente richiamo alla Cedu, nella tutela del diritto all'equo processo, non preclude però che il diritto dell'Unione possa assicurare «una protezione più estesa nell'ottica della creazione di uno spazio giuridico europeo di «giustizia»» (Martone).

Diversi e strettamente complementari i corollari che discendono dalla garanzia di equo processo.

Innanzitutto, il principio della parità delle armi. Esso implica «che tutte le parti devono poter agire in giudizio, e produrre prove, in condizioni che non le penalizzino nettamente rispetto ai propri avversari (...) garantendo così che qualsiasi documento prodotto dinanzi al giudice possa essere esaminato e contestato da ciascuna di esse». Ne consegue che «il danno causato dalla mancanza di tale equilibrio deve in linea di principio essere dimostrato da chi lo ha subito». (CGUE, 6 novembre 2012, C-199/11, Europese Gemeenschap).

Aspetto fondamentale del diritto delle parti è dunque il diritto alla prova che assicura contestualmente la garanzia del contraddittorio tra le parti. Quest'ultima non solo consente la partecipazione delle parti al processo che le coinvolge, ma è «strumentale alla «giustizia del processo», intesa quale adozione di una decisione giusta», configurandosi dunque come altro essenziale corollario del principio di equità del giudizio (Martone, Bertolino).

È nella stessa ottica di garanzia della corretta amministrazione della giustizia che rileva anche la pubblicità processuale. Una giustizia «trasparente» concorre infatti a riempire di contenuto le garanzie di equità del giudizio, sia a tutela delle parti, in quanto strumentale alla difesa dei diritti, sia più in generale a tutela dell'amministrazione della giustizia. È con riguardo a tale profilo, peraltro, che si coglie la natura relazionale della pubblicità processuale. La trasparenza non è mai assoluta, dovendosi contemperare con ulteriori esigenze processuali, legate alle specifiche caratteristiche del procedimento, ovvero, il rispetto della vita privata, la ragionevole durata del processo (Casiraghi).

Quest'ultima, peraltro, quale principio generale dell'ordinamento europeo, rappresenta un ulteriore ed essenziale requisito nella garanzia dell'equo processo. Costruito in stretta interdipendenza rispetto all'interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, si è poi sviluppato anche in relazione all'espletamento delle attività degli organi dell'Unione, allorquando le loro azioni si traducono in provvedimenti pregiudizievoli per i ricorrenti (Trib 15 marzo 2000, T-25/95, T-26/95, Cimenteries CBR e a c. Commissione europea). Stante la complessità della determinazione del concetto di «reasonable time», la Corte di giustizia, avvalendosi anche dei criteri elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, valuta la ragionevole durata del processo, tenuto conto delle circostanze proprie di ciascun processo, del contesto in cui si inserisce, della complessità della causa, degli interessi delle parti, nonché della rilevanza della lite per l'interessato, del comportamento del ricorrente e delle autorità competenti (CEDU, 24 luglio 2012, ricorso n. 58104, Sivoz c. Russia). A ciò, la Corte aggiunge poi che «l'elencazione di suddetti criteri non è esaustiva e la valutazione del carattere ragionevole del termine richiede un esame sistematico complessivo; la durata del procedimento può risultare giustificata anche alla stregua di uno solo di essi, e può assumersi come parametro di valutazione, il tempo medio dedicato alla definizione di un caso simile a quello esaminato» (CGUE, 21 settembre 2006, C-105/04, Nederlandse Federatieve c. Commissione).

L'esigenza di garantire celerità e speditezza va inoltre bilanciata con la necessità di valutare scrupolosamente i fatti all'origine della controversia. La rapidità processuale non deve compromettere in alcun modo l'approfondimento delle indagini, assicurando che la pronuncia giunga «soltanto a seguito di una matura riflessione» (Borraccetti, 560).

Molti ed eterogenei, dunque, gli aspetti da considerare nell'esame della ragionevole durata del processo, la cui violazione non determina necessariamente e automaticamente l'annullamento della decisione. Occorre constatare, a tal fine, che il mancato rispetto di tale requisito abbia inciso significativamente sulla soluzione della controversia e abbia pregiudicato i diritti di difesa dei soggetti interessati (CGUE, 21 settembre 2006, C-113/04, Technische Unie c. Commisisone; CGUE, 26 novembre 2013, C-40/12 P, Gascogne Sack Deutschland GmbH c. Commissione).

Anche in tal caso, dunque, la valutazione circa la buona amministrazione della giustizia va ponderata di volta in volta, in relazione alle specifiche circostanze del caso di specie.

Analogamente, è in relazione alle peculiarità che contraddistinguono i singoli procedimenti che viene diversamente modulato anche l'obbligo di motivazione delle pronunce. Quale corollario del diritto a un equo processo, esso «impone che qualsiasi decisione giudiziaria sia motivata, e ciò al fine di consentire al convenuto di comprendere le ragioni per le quali è stato condannato» (CGUE, 6 settembre 2012, C-619/10, Trade Agency Ltd c. Seramico Investments Ltd).

L'equità del giudizio dipende, poi, come sancito dall'art. 47 della Carta dalla presenza di un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge.

L'indipendenza va intesa sia in un'accezione «esterna», ovvero rispetto agli altri organi e poteri, sia in un'accezione «interna», quale espressione dell'autonomia di ogni singolo giudice. Assicurare il rispetto di tale requisito significa anche che «il regime disciplinare di coloro che hanno una funzione giurisdizionale presenti le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di utilizzo di un siffatto regime come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie» (CGUE, 12 febbraio 2019, C-8/19PPU, RH).

Il principio di imparzialità impone una duplice valutazione. In una prospettiva soggettiva, esso si riferisce «al «foro interiore» del magistrato», escludendo qualsiasi manifestazione di pensiero, presa di posizione o pregiudizio di natura personale (D'Amico). In una prospettiva oggettiva, invece, l'imparzialità attiene alle condizioni esteriori. Mentre l'imparzialità in senso soggettivo vale fino a prova contraria, l'imparzialità in senso oggettivo richiede un esame più approfondito nel corso del quale anche le semplici apparenze possono avere un certo spessore e rilievo (CEDU, 27 gennaio 2011, ric. N. 42224/02, Krivoshpkin c. Russia).

Il requisito della precostituzione del giudice implica poi che la competenza dell'autorità giudiziaria sia determinata sulla base di criteri generali e uniformi, stabiliti per legge, antecedentemente rispetto al sorgere della controversia (D'Amico).

Il diritto a un accesso effettivo alla giustizia

Strettamente connessi alla garanzia di equità del processo e, in particolare, ai suoi due corollari della parità delle armi e del contraddittorio, sono la tutela della difesa e il diritto all'assistenza processuale.

Quanto alla prima, l'art. 47, comma 2, della Carta riconosce a ogni individuo «la facoltà di farsi consigliare, difendere e rappresentare». Per rendere effettiva tale garanzia, è richiesto al giudice nazionale di porre in essere «tutte le misure necessarie per consentire al convenuto di difendersi contro la domanda giudiziale» (Conclusioni dell'avvocato generale Trstenjak, presentate l'8 settembre 2011, nella causa C-327/10, Hypotcni banka, a.s. c. Udò Mike Linder).

Ciò implica naturalmente il controllo in merito all'esperimento di tutte le indagini necessarie per rintracciare il convenuto. Indagini guidate dai principi di diligenza e buona fede. Il rispetto del diritto di difesa non può infatti essere una prerogativa assoluta. Sono ammesse, dunque, delle eccezioni, volte, ad esempio, a evitare situazioni di diniego di giustizia, derivanti dalla concreta e oggettiva impossibilità di reperire il convenuto (CGUE, 15 marzo 2012, C-292/10, G. c. Cornelius de Visser).

Per garantire l'equità del processo è quindi sempre indispensabile raggiungere il contemperamento tra due esigenze fondamentali: la garanzia dei diritti delle parti da un lato e la corretta amministrazione della giustizia dall'altro. È nell'ottica di conseguire siffatto equilibrio che l'ultimo comma dell'art. 47 della Carta consente «a coloro che non dispongono di mezzi sufficienti» il patrocinio a spese dello Stato «qualora ciò sia necessario per assicurare un accesso effettivo alla giustizia».

Una differenza determinata da fattori economici non può e non deve tradursi in una discriminazione sul piano processuale. L'attribuzione del gratuito patrocinio è però naturalmente il frutto di una attenta e scrupolosa valutazione effettuata dal giudice tenuto conto, oltre che delle condizioni economiche del richiedente, di una molteplicità di elementi che si aggiungono alla valutazione, ovvero, l'oggetto della controversia, la complessità della stessa, il contenimento della spesa pubblica.

Controversa e ampiamente dibattuta è l'eventualità di estendere, nel silenzio della disposizione, il gratuito patrocinio alle persone giuridiche.

Sul piano del diritto positivo, la collocazione della norma, nel Capo VI relativo alla giustizia e non invece nel Capo IV relativo alla solidarietà, spinge a ritenere che «tale diritto non è concepito primariamente come un aiuto sociale tale da permettere di sostenere che l'aiuto in questione deve essere riservato alle persone fisiche» (Martone).

Quanto ai principi generali è però da escludere l'esistenza di una prassi comune tra gli Stati membri in materia di concessione di gratuito patrocinio alle persone giuridiche che possa confluire nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

La Spiegazione relativa al comma 3 dell'art. 47 della Carta rinvia al sistema alla CEDU, per come vive nell'interpretazione della Corte di Strasburgo, e alle procedure previste dinanzi alle giurisdizioni dell'Unione europea. Mentre queste ultime però riservano espressamente il gratuito patrocinio alle persone fisiche, precludendo peraltro qualsiasi forma di interpretazione estensiva rispetto alle persone giuridiche, la Corte di Strasburgo mostra un atteggiamento meno riluttante, affermando che «la concessione del gratuito patrocinio a persone giuridiche non è esclusa in linea di principio, ma deve essere valutata con riferimento alle norme applicabili e alla situazione della società interessata», affinché, in ogni caso, i meccanismi di funzionamento di tale istituto non risultino discriminatori (CEDU, 26 febbraio 2002, Del Sol c. Francia).

È coerentemente con tale ricostruzione che anche la Corte di giustizia, nell'ottica di assicurare imparzialità e buon andamento nell'amministrazione della giustizia, propende per un'interpretazione estensiva della disposizione, previa valutazione della situazione economica della persona giuridica, della forma, dello scopo di lucro o meno, della capacità finanziaria dei suoi soci o azionisti e, più in generale, della complessità della procedura e dei fatti e delle specifiche circostanze di ciascun caso (CGUE, 22 dicembre 2012, C-279/09, DEB).

L'effettività della tutela giurisdizionale nell'attuale fase del processo di integrazione europea.

Nell'attuale fase del processo di integrazione europea, l'effettività della tutela giurisdizionale passa attraverso il contemperamento di esigenze contrapposte.

La tutela giurisdizionale è il frutto di un ragionevole equilibrio tra autonomia processuale dei singoli Stati da un lato e applicazione uniforme del diritto dell'Unione europea dall'altro. Va garantita ai singoli individui di tutti gli ordinamenti a fronte di qualsiasi pregiudizio derivante dalla violazione di posizioni giuridiche soggettive di matrice europea, ma sempre nel rispetto del principio di attribuzione delle competenze riconosciute agli organi dell'Unione. La dimensione individuale del diritto va bilanciata con l'esigenza collettiva «di amministrare la giustizia con efficacia» (Trib. della funzione pubblica, 29 febbraio 2012, F-3/11, Luigi Marcuccio c. Commissione europea).

Due le ragioni sottese al carattere «compromissorio» di tale tutela.

Innanzitutto, guardando alla configurazione del diritto, emblematica è la sua natura. Non essendo un diritto assoluto, «può essere sottoposto a limiti e condizioni» (D'Avino).

Coerentemente con quanto affermato dalla Corte di giustizia, «i diritti fondamentali non si configurano come prerogative assolute, ma possono soggiacere a restrizioni, a condizione che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale perseguiti dalla misura di cui trattasi e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato ed inaccettabile, tale da ledere la sostanza stessa dei diritti così garantiti» (CGUE, 16 luglio 2009, C-12/08, Mono Car Styling SA). È per tale ragione che gioca un ruolo decisivo nella garanzia di effettività di tale diritto la valutazione dell'insieme delle circostanze del caso, della complessità della fattispecie, delle peculiarità del procedimento.

In secondo luogo, poi, in una prospettiva teleologica, è significativo il ruolo della tutela giurisdizionale nel sistema integrato dell'Unione. È strumento di tutela dei diritti dell'individuo, quale soggetto attivo dell'ordinamento interno e sovranazionale, ma al contempo è strumento di effettività del diritto, in quanto veicolo di garanzia del primato e degli effetti diretti delle norme UE. La tutela giurisdizionale riconosciuta a ciascun individuo rappresenta dunque quell'ineguagliabile grimaldello che consente di raggiungere l' unità nella diversità , incrementando l'effettività del rapporto tra livelli nazionali e livello sovranazionale nel sistema dell'Unione.

Il diritto europeo non impone uno specifico rimedio per la revisione dei giudicati anti-unionali

 Cons. Stato, VI, 27 aprile 2023, n. 4632 ha ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 395 c.p.c. in base ai parametri di cui agli artt. 11, 117, comma 1, Cost., in quanto il principio di primazia del diritto unionale non impone agli Stati membri di configurare strumenti specifici per la rimozione delle sentenze che abbiano erroneamente applicato la normativa sovranazionale, violando le indicazioni rese in sede di rinvio pregiudiziale. Infatti, in forza del principio di autonomia procedurale degli Stati membri, l’introduzione di un motivo di impugnazione rientra nella piena discrezionalità legislativa, nella specie esercitata con un ragionevole bilanciamento tra diritto d’azione e di difesa.

Il tema posto dal ricorso concerne la questione se l’assenza di un motivo di revocazione delle pronunce del Consiglio violative della normativa UE contrasti col diritto unionale, “in particolare con il principio di leale collaborazione, di uniforme applicazione del diritto dell’Unione europea e di effettività̀ della tutela giurisdizionale”. La sentenza del Consiglio di Stato riprende Corte giustizia UE 7 luglio 2022, in C-251/21, la quale ha  escluso che il diritto europeo imponga un rimedio revocatorio “ad hoc” per eliminare una sentenza definitiva violativa del diritto unionale).In questa prospettiva, giova, infine, ricordare che il diritto unionale, oltre a non imporre la revoca del giudicato amministrativo, non impone nemmeno di configurare strumenti volti alla sua prevenzione. Non a caso, la Cassazione (Cass. n. 2692/2021, id., 2021, I, 3845, con nota di A. Caringella, concernente la stessa vicenda sostanziale della pronuncia in commento), ha affermato che la sentenza del Consiglio di Stato che ha erroneamente applicato il diritto UE non è ricorribile in Cassazione per motivi inerenti la giurisdizione (art. 111, comma 8 Cost.). Tale principio, poi, è stato confermato anche dalla Corte di Giustizia nel noto “caso Randstad” (Corte giustizia UE, 21 dicembre 2021, causa C-497/20, id., 2022, II, 90). L’unica possibilità d’intaccare il giudicato concerne l’ottemperanza: il giudice può, infatti, arricchire, integrare e precisare il contenuto conformativo della sentenza di cognizione, con il solo limite del non stravolgimento del giudicato originario (così, Cons. Stato, ad. plen., 9 giugno 2016, n. 11, id., 2017, III, 204, con nota di Vaccari, che legittima la nozione di “giudicato a formazione progressiva”).

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