Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 21 - Responsabilità dirigenziale (Art. 21, commi 1, 2 e 5 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituiti prima dall'art. 12 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi dall'art. 14 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificati dall'art. 7 del d.lgs n. 387 del 1998)

Ciro Silvestro

Responsabilità dirigenziale

(Art. 21, commi 1, 2 e 5 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituiti prima dall'art. 12 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi dall'art. 14 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificati dall'art. 7 del d.lgs n. 387 del 1998)

1. Il mancato raggiungimento degli obiettivi accertato attraverso le risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni ovvero l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano, previa contestazione e ferma restando l'eventuale responsabilita' disciplinare secondo la disciplina contenuta nel contratto collettivo, l'impossibilita' di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale. In relazione alla gravita' dei casi, l'amministrazione puo' inoltre, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio, revocare l'incarico collocando il dirigente a disposizione dei ruoli di cui all'articolo 23 ovvero recedere dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo 1.

1-bis. Al di fuori dei casi di cui al comma 1, al dirigente nei confronti del quale sia stata accertata, previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali, la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione, conformemente agli indirizzi deliberati dalla Commissione di cui all'articolo 13 del decreto legislativo di attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttivita' del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni, la retribuzione di risultato e' decurtata, sentito il Comitato dei garanti, in relazione alla gravita' della violazione di una quota fino all'ottanta per cento 2.

[ 2. Nel caso di grave inosservanza delle direttive impartite dall'organo competente o di ripetuta valutazione negativa, ai sensi del comma 1, il dirigente, previa contestazione e contraddittorio, può essere escluso dal conferimento di ulteriori incarichi di livello dirigenziale corrispondente a quello revocato, per un periodo non inferiore a due anni. Nei casi di maggiore gravità, l'amministrazione può recedere dal rapporto di lavoro, secondo le disposizioni del codice civile e dei contratti collettivi.] 3

3. Restano ferme le disposizioni vigenti per il personale delle qualifiche dirigenziali delle Forze di polizia, delle carriere diplomatica e prefettizia e delle Forze armate nonche' del Corpo nazionale dei vigili del fuoco 4.

[4] Comma modificato dall'articolo 73 del D.Lgs. 13 ottobre 2005, n. 217, con la decorrenza indicata dall'articolo 175 del medesimo D.Lgs. 217/2005 e successivamente dall'articolo 205, comma 3, del D.Lgs. 13 ottobre 2005, n. 217, come modificato a decorrere dalla data del 1° gennaio 2018, dall'articolo 3, comma 1, del D.Lgs. 6 ottobre 2018, n. 127.

Inquadramento

L'emersione di una peculiare dimensione di responsabilità dei dirigenti per i risultati conseguiti rispetto agli obiettivi prefissati rappresenta elemento complementare e conseguenza indefettibile rispetto all'autonomia gestionale acquisita (cfr. anche l'art. 4, comma 2, del decreto n. 165/2001; Cerbo, 568).

Come confermato da Corte cost., n. 193/2002, proprio «la distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e l'attività gestionale con propria autonomia e responsabilità dei dirigenti generali delle amministrazioni pubbliche, nonché la progressiva estensione della privatizzazione del rapporto d'impiego, comportano, da un canto, un maggior rigore nella responsabilità degli stessi dirigenti e, dall'altro, attraverso varie forme di garanzia che concorrono a realizzare il principio di imparzialità e buon andamento della p.a., il rafforzamento della loro situazione mediante la specificazione delle peculiari responsabilità dirigenziali, la previsione di adeguate garanzie procedimentali in tema di valutazione dei risultati e osservanza di direttive e la tipicizzazione delle misure sanzionatorie adottabili, che può giungere, oltre che alla revoca delle funzioni, anche alla risoluzione del rapporto, purché in base a precise previsioni normative».

La prevalente ricostruzione dottrinale della responsabilità dirigenziale la definisce come una specie autonoma di responsabilità, con propri tratti ed elementi distintivi. Essa risulta: a) aggiuntiva; b) riferita al complesso delle attività, di gestione e di organizzazione, relative al posto di funzione dirigenziale cui il dirigente è preposto. A venire in evidenza è «la corrispondenza fra titolarità del potere e obbligo di rispondere dell'uso del potere stesso, non sotto il profilo della sua legittimità – verificata e sindacata in sede giurisdizionale – bensì sotto il profilo della sua capacità di rispondere alle esigenze della collettività» (Torchia, 145).

Su tali coordinate della responsabilità dirigenziale – quale tipologia di responsabilità specifica ed aggiuntiva, che sorge per l'inidoneità del dirigente a conseguire gli obiettivi indicati dagli organi di governo – concorda la giurisprudenza (cfr., ad es., Trib. Trapani, 26 novembre 2003). Essa ha ulteriormente precisato che la responsabilità dirigenziale «non sorge dalla violazione di canoni normativi di comportamento ed anzi, trascende il comportamento personale del dipendente: essa si ricollega ai risultati complessivi prodotti dalla organizzazione cui il dirigente è preposto ed implica, in caso di giudizio negativo, più che una colpa del dirigente, la sua inidoneità alla funzione» (C. conti sez. giur. Piemonte, n. 1192/EL/2000). Nel regime previgente al d.lgs. n. 29/1993, già Cons. St. IV, n. 330/1983 aveva, peraltro, ritenuto che, dal momento che il dirigente risponde dell'azione complessiva dell'ufficio, la responsabilità dirigenziale si avvicini ad alcune ipotesi «di responsabilità civile per fatti altrui (culpa in eligendo, culpa in vigilando), con tutti i limiti che la cautela impone in siffatti raffronti».

Ai fini delle responsabilità dirigenziale non conta l'imputabilità a titolo di colpa o dolo, quanto che l'attività posta in essere dall'amministrazione sia effettivamente frutto delle scelte gestionali del dirigente e che essa si sia rivelata inadeguata, non raggiungendo gli obiettivi minimi previsti.

La responsabilità dirigenziale riguarda, quindi, il rendimento complessivo ed è strumentale all'esigenza dell'amministrazione di rimuovere in maniera tempestiva il dirigente dimostratosi inidoneo alla funzione, e come tale non in grado di raggiungere il risultato prefissato, indipendentemente dal verificarsi di un fatto sanzionabile o dalla produzione di un danno. Di qui la netta differenziazione rispetto alla responsabilità disciplinare, che concerne, invece, l'esattezza e la correttezza dei singoli adempimenti dell'attività del dirigente pubblico. Peraltro, la distinzione tra le varie figure di responsabilità non comporta che siano incompatibili e che debbano escludersi reciprocamente.

Peculiarità della responsabilità dirigenziale è proprio quella di «fornire non tanto uno strumento punitivo o para-sanzionatorio, ma fornire un meccanismo correttivo dell'organizzazione pubblica, nell'idea che una migliore organizzazione pubblica possa permettere una migliore allocazione delle risorse (soprattutto umane) e quindi garantire una performance di qualità» (David).

Da rilevare anche che l'istituto normato dall'art. 21 del d.lgs. n. 165/2001 ha scontato le numerose difficoltà attuative della normativa inerente il processo di valutazione della dirigenza, antecedente logico e imprescindibile dell'accertamento di responsabilità. Ciò ha comportato una menomazione nella catena «pianificazione-gestione-controllo», che si ripercuote anche sull'eventuale «accertamento» di responsabilità.

In definitiva, la responsabilità dirigenziale, non sorgendo dalla violazione di una norma giuridica in senso stretto, risponde, invece, all'esigenza di garantire l'effettività dell'indirizzo politico e l'autonomia della funzione dirigenziale, volendo sanzionare una condotta del dirigente non ritenuta sufficiente agli obiettivi da raggiungere. [...] Si tratta quindi di una responsabilità interna all'amministrazione, non attivabile da alcun soggetto esterno» (David).

La riscrittura della responsabilità dirigenziale operata dalle riforme Frattini e Brunetta.

Sulla disciplina positiva della responsabilità dirigenziale, particolare rilievo ha assunto la novella recata dalla l. n. 145/2002.

L'art. 41 del decreto 150/2009 ha, poi, riaggiornato il dettato dell'art. 21 in esame.

A seguito della novella del 2009, per l'accertamento del mancato raggiungimento degli obiettivi opera rinvio alle «risultanze del sistema di valutazione di cui al Titolo II del decreto legislativo di attuazione della n. 15/2009». La legge statuisce, poi, che il mancato raggiungimento degli obiettivi e l'inosservanza delle direttive imputabili al dirigente comportano l'impossibilità di rinnovo dell'incarico dirigenziale in corso, calcando sull'esigenza della previa contestazione. Il richiamo alla previa contestazione e al rispetto del principio del contraddittorio viene ripetuto anche laddove, in relazione alla gravità dei casi, l'amministrazione scelga di revocare l'incarico con collocazione del dirigente a disposizione dei ruoli ovvero proceda al recesso dal rapporto di lavoro secondo le disposizioni del contratto collettivo. Resta ferma l'eventuale responsabilità disciplinare del dirigente.

Mai sopito è risultato, peraltro, il dibattito relativo all'inquadramento alla natura della responsabilità individuata dalla disposizione legislativa in esame. In contrapposizione ai sostenitori della tesi che riconduce la responsabilità dirigenziale al peculiare stampo della responsabilità manageriale si colloca chi afferma la sua sussunzione nel modello della responsabilità da inadempimento, di cui costituirebbe una figura speciale. La diatriba era anche più accesa in precedenza, quando la formulazione normativa prevedeva l'ipotesi di responsabilità per «grave inosservanza delle direttive».

Al riguardo, Cass. sez. lav., n. 24905/2017 rimarca che la riscrittura della norma operata dalla legge Frattini non può essere ritenuta priva di significato laddove «esprime la volontà del legislatore di accentuare, rispetto alla configurazione di detto tipo di responsabilità, il ruolo svolto dagli obiettivi, massimizzando l'effetto del mancato raggiungimento degli stessi ed orientando verso un accertamento di tipo oggettivo, che prescinde, cioè, da colpevoli inadempimenti nella gestione dell'ufficio e delle risorse umane e strumentali. In tal modo il legislatore, che non a caso con lo stesso intervento ha tenuto a precisare che la responsabilità dirigenziale va distinta da quella disciplinare, ha individuato l'elemento caratterizzante la prima delle due forme di responsabilità nella incapacità del dirigente di raggiungere il risultato programmato, incapacità che prescinde da condotte realizzate in violazione di singoli doveri, in quanto la idoneità alla funzione si misura sui risultati che il dirigente è stato capace di assicurare rispetto a quelli attesi, non già sui comportamenti tenuti. In tal senso si è già espressa la giurisprudenza di questa Corte che, dopo avere evidenziato già con la sentenza n. 3929 del 20 febbraio 2007 l'autonomia delle due forme di responsabilità, ha precisato poi che l'intervento del Comitato dei garanti, organo esterno all'amministrazione in funzione di garanzia, si giustifica in considerazione del carattere gestionale della responsabilità dirigenziale “non riferibile a condotte realizzate in puntuale violazione di singoli doveri e collegata, invece, ad un apprezzamento globale dell'attività del dirigente” (Cass. 8 aprile 2010 n. 8329; negli stessi termini Cass. 7 dicembre 2015 n. 24801 e Cass. 8 giugno 2015 n. 11790), per cui la prevalenza della responsabilità dirigenziale su quella disciplinare, quanto alle forme del procedimento, può essere affermata solo nei “casi di indissolubile intreccio fra tale tipo di responsabilità e quella, tipicamente disciplinare, per mancanze” (Cass. n. 8329/2010)». Gli Ermellini richiamano poi la sentenza n. 1753/2017 con la quale è stato sottolineato che anche nel caso di inosservanza delle direttive imputabili al dirigente, ossia di comportamento nel quale potrebbe essere ravvisato un tipico inadempimento fonte di responsabilità disciplinare, “il discrimine va ravvisato nel collegamento con la verifica complessiva dei risultati, sicché l'addebito assumerà valenza solo disciplinare nella ipotesi in cui l'amministrazione ritenga che la violazione in sé dell'ordine e della direttiva, in quanto inadempimento contrattuale, debba essere sanzionata; dovrà, invece, essere ricondotta alla responsabilità dirigenziale qualora la violazione medesima abbia inciso negativamente sulle prestazioni richieste al dirigente ed alla struttura dallo stesso diretta». Pertanto, prosegue la Corte, «la commistione fra le due forme di responsabilità sarà, quindi, ipotizzabile solo qualora la contestazione presenti aspetti che la rendano contemporaneamente sussumibile nell'una e nell'altra forma di responsabilità, il che si verifica nell'ipotesi in cui il procedimento venga avviato con riferimento ad una pluralità di addebiti, di cui alcuni riconducibili alla responsabilità disciplinare altri a quella dirigenziale» (cfr. anche Cass. sez. lav., n. 3929/2007).

Appare, quindi, predicabile che la responsabilità dirigenziale per “violazione di direttive”, proprio perché presuppone uno stretto collegamento con il raggiungimento dei risultati programmati, deve riferirsi a quelle direttive che siano strumentali al perseguimento dell'obiettivo assegnato al dirigente perché solo in tal caso la loro violazione può incidere negativamente sul risultato, in via anticipata rispetto alla verifica finale. Correlativamente, non si può confondere il rispetto delle direttive con il corretto adempimento degli altri obblighi che discendono dal rapporto di lavoro con il dirigente (diligenza, perizia, lealtà, correttezza e buona fede tanto nel proprio diretto agire quanto nell'esercizio dei poteri di direzione e vigilanza sul personale sottoposto): la loro violazione, in sé e per sé considerata, non rileva ai fini della responsabilità dirigenziale, nella quale ciò che conta è il mancato raggiungimento del risultato.

Parte della dottrina rileva, altresì, che, nella vigente formulazione dell'art. 21 del decreto n. 165, «permane un deficit normativo nella determinazione del rapporto tra «ipotesi di responsabilità» e «sanzioni»: infatti, si fa perno su una sola coppia di ipotesi, (individuate nel «mancato raggiungimento degli obiettivi» e «nell'inosservanza delle direttive»), comminando la sanzione «in relazione alla gravità dei casi» (Bolognino, D'Alessio, 27).

Profili procedurali.

I procedimenti per responsabilità dirigenziale, pur non ricevendo una disciplina particolareggiata al pari dei procedimenti disciplinari, exartt. 55 e seguenti del d.lgs. n. 165/2001, devono ineludibilmente informarsi ai principi del giusto procedimento, coniugati con i canoni di buona fede e correttezza cui è soggetta la pubblica amministrazione, la quale assume le proprie determinazioni con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro (art. 5, comma 2 d.lgs. 165/2001). A tale riguardo, la disciplina dettata dall'art. 21 individua come momenti procedimentali indefettibili nelle procedure per responsabilità dirigenziale la previa contestazione degli addebiti e l'instaurazione del contraddittorio con il dirigente destinatario dell'addebito. La contestazione dell'addebito deve essere formalmente notificata all'interessato e assumere forme e contenuti tali da metterlo in condizione di prendere cognizione puntuale dei fatti ascritti, anche mediante l'esperimento degli istituti di accesso documentale, della valutazione che ne dà l'Amministrazione e dell'ipotesi di sanzione nel caso di specie; inoltre deve assegnare un termine congruo per le deduzioni difensive dell'interessato e/o l'audizione dello stesso (su autonoma valutazione dell'Amministrazione o su richiesta dell'interessato). All'esito del contraddittorio, l'Amministrazione assume la propria motivata determinazione, dando opportunamente conto delle difese dell'interessato e della valutazione delle stesse. Una volta espletati i suddetti passaggi procedimentali, la motivata determinazione, unitamente all'intero compendio istruttorio, è trasmessa al Comitato dei garanti per l'espressione del prescritto parere.

In giurisprudenza è stato ampiamente sottolineato che «mentre nel rapporto dirigenziale privato vale il principio della recedibilità ad nutum, a norma dell'art. 2118 cod. civ. (e salva la disciplina contrattuale risarcitoria in caso di recesso ingiustificato), nel pubblico impiego il mancato raggiungimento degli obiettivi non comporta la possibilità di risoluzione ad nutum del rapporto con il dirigente, ma tre sbocchi graduati a seconda della gravità del caso, tutti causali: l'impossibilità di rinnovo dell'incarico, la revoca dello stesso, il recesso dal rapporto di lavoro (d.lgs. n. 165/2001, art. 21, comma 5, ora comma 1, come sostituito dalla l. n. 145/2002, art. 2)». Peraltro, «il dirigente pubblico può rimanere senza incarico, senza per questo perdere il suo status di pubblico dipendente con qualifica dirigenziale, ad es. prima dell'assegnazione del primo incarico, negli intervalli tra un incarico e l'altro, o perché collocato in disponibilità (art. 21, comma 1, come modificato dalla l. n. 145/2002, art. 3). Il venir meno di un incarico da parte del dirigente pubblico, quindi, non implica la fuoriuscita dalla dirigenza, perché permane l'appartenenza al ruolo unico (ora nei singoli ruoli), in posizione di disponibilità» (Cass. sez. lav., n. 2233/2007; cfr. anche Trib. Napoli, 7 gennaio 2003). Quindi, la sopravvenuta sfiducia non è un motivo valido ex se per il recesso stesso (T.A.R. Veneto II, 18 marzo 1999, n. 380), mentre risulta illegittima la risoluzione del contratto di lavoro del dirigente per mancato raggiungimento degli obiettivi allorché questi ultimi non siano stati adeguatamente predeterminati dall'amministrazione (Cons. St. V, n. 5476/2006).

In tema di rapporto obiettivi/valutazione, Cass. sez. lav., n. 9392/2017 evidenzia che «perché venga effettuata una valutazione negativa dell'operato di un dirigente per non aver raggiunto degli obiettivi, da cui derivi la mancata corresponsione dell'indennità di risultato, è necessario che l'interessato sia stato posto in condizione di conoscere tempestivamente gli obiettivi da raggiungere, periodicamente e/o anno per anno». Detto «principio, in linea con la giurisprudenza amministrativa e contabile (Cons. St. 3 febbraio 2014 n. 472; Cons. St. 14 gennaio 2009 n. 131; Corte conti Basilicata Sez. giurisdiz., 16 dicembre 2016, n. 48; Corte conti Veneto Sez. giurisdiz. 16 giugno 2009 n. 481), deve essere ribadito, perché coerente [...] con le finalità che il legislatore ha inteso perseguire, assegnando primario rilievo nella disciplina della dirigenza pubblica non già alla generica osservanza dei doveri di ufficio, bensì ai risultati dell'attività dirigenziale, da valutarsi in relazione alle ragionevoli attese e, quindi, ad obiettivi specifici e predeterminati assegnati al dirigente» (Cass. Sez. lav., ord. n. 28404/2017). Nella citata pronuncia n. 9392/2017, la Cassazione ha, altresì, puntualizzato che «il giudice ordinario se accerta l'illegittimità del procedimento amministrativo di valutazione negativa di un dirigente per mancato raggiungimento degli obiettivi da perseguire – nella specie per l'illogicità derivante dalla avvenuta indicazione degli obiettivi stessi con un abnorme e immotivato ritardo rispetto al periodo nel quale gli stessi avrebbero dovuto essere raggiunti – non può certamente sostituirsi all'organo deputato ad effettuare la verifica dei risultati condizionante la corresponsione dell'indennità di risultato e, quindi, commisurare automaticamente la condanna dell'ente datore di lavoro a risarcire i danni richiesti all'indennità di risultato non percepita dal dirigente. Tuttavia, in base al principio consolidato secondo cui la perdita di chance è dimostrabile anche per presunzioni e la relativa liquidazione è necessariamente equitativa, il giudice non può neppure escludere in radice la sussistenza del diritto al risarcimento dei danni per perdita di chance, ritualmente richiesto».

La fattispecie di culpa in vigilando.

Ulteriore novità recata, a suo tempo, dal d.lgs. n. 150/2009 è quella contenuta nel comma 1-bis aggiunto all'art. 21 del decreto n. 165. Viene riportata ad una specifica responsabilità del dirigente – «al di fuori dei casi di cui al comma 1» – la colpevole violazione del dovere di vigilanza «sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione». La violazione va accertata previa contestazione e nel rispetto del principio del contraddittorio secondo le procedure previste dalla legge e dai contratti collettivi nazionali. La negativa conseguenza prevista è quella della decurtazione della retribuzione di risultato del dirigente – sentito il Comitato dei garanti – che può arrivare, nei casi più gravi, fino alla quota dell'80%. Ciò lascia, comunque, una discrezionalità molto ampia in capo all'organo chiamato a comminare la sanzione.

Il legislatore appare, così, sdoppiare le conseguenze dell'accertata responsabilità dei dirigenti, a seconda che sia occorso il mancato raggiungimento degli obiettivi e/o l'inosservanza delle direttive oppure una ipotesi di colpevole omessa vigilanza; nel secondo caso sarebbe applicabile la sola sanzione economica.

La finalità della norma è coerente con la costruzione di una dirigenza responsabile del «buon andamento» degli uffici dei quali ha la titolarità. Non sono, però, mancati commenti critici al riguardo: innanzitutto perché si opera «un ulteriore proliferazione di fattispecie sanzionabili, ritagliando nell'ambito di fattispecie più ampie fattispecie più ristrette e collegando a certi comportamenti certe misure, secondo una logica in palese controtendenza rispetto all'esigenza di semplificare un quadro oltremodo complesso. [..] Ed ancora, la vigilanza sull'operato dei singoli non rientra forse tra le competenze organizzative della dirigenza? Se così è, qual è il motivo per applicare una misura solo economica?» (Boscati, 53). Vago è, poi, apparso il concetto stesso di «omessa vigilanza».

Manca una diretta individuazione dei casi e degli indicatori concreti che consentono di rilevare ed eccepire il difetto di vigilanza, e di graduare la «sanzione pecuniaria» a carico del dirigente.

Il legislatore, introducendo una nuova e distinta ipotesi di responsabilità, ha indotto a chiedersi se essa sia «riconducibile alla responsabilità manageriale o fuoriesca dalla logica delle sanzioni di cui all'art. 21 [..]. L'ipotesi di responsabilità è data, infatti, da «la colpevole violazione del dovere di vigilanza sul rispetto, da parte del personale assegnato ai propri uffici, degli standard quantitativi e qualitativi fissati dall'amministrazione», omissione della vigilanza la cui rilevazione sembra non rientrare nella valutazione di cui all'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 150/2009, che dovrebbe essere il presupposto per l'applicazione delle sanzioni di cui all'art. 21 del d.lgs. n. 165/2001». In definitiva, si è osservato come «il mancato rispetto degli standard qualitativi e quantitativi possa rientrare nell'ambito della generale valutazione dell'operato del dirigente, con l'applicazione delle sanzioni già previste al comma 1, prescindendo dal o, meglio, assorbendo il momento preliminare e strumentale della vigilanza (verosimilmente, la colpevole violazione del dovere di vigilanza provocherà un mancato raggiungimento dei risultati)» (Bolognino, D'Alessio, 34). Altra dottrina vede nell'aggiunta del comma 1-bis all'art. 21, l'accentuarsi della componente soggettiva della responsabilità, con la propensione di ricondurla ad una ipotesi di responsabilità disciplinare del dirigente (Borgongelli, 431; Nicosia).

Varie argomentazioni sono state spese in dottrina per confortare la piena riconduzione alla responsabilità dirigenziale della fattispecie di cui al nuovo comma 1-bis dell'art. 21 del decreto 165. È stato, infatti, affermato che «la responsabilità è dirigenziale allorché la sua imputazione rimane, in qualche modo, pur sempre connessa al procedimento di valutazione, oggi agglutinato nel ciclo della perfomance. [..] Ma al di fuori di una formale imputazione di responsabilità, pare evidente che nel processo di valutazione possono emergere una serie di comportamenti soggettivi negativi del dirigente che, pur non dando luogo ad addebiti formali in termini di inosservanza di direttive, finiscono per incidere sulla retribuzione di risultato riducendone l'ammontare. Ciò avviene, normalmente, nel caso in cui la inosservanza di direttive non sia così eclatante da imporre una diretta imputazione di responsabilità; si tratta di micro comportamenti organizzativi negativi (anche microinosservanze) che finiscono per incidere, comunque negativamente, sulla valutazione finale di risultato per quella parte riguardante il comportamento e la prestazione soggettiva del dirigente nello svolgimento dell'incarico, e non il raggiungimento dell'obiettivo in termini quantitativi. [..] Sul piano della ricostruzione sistematica del regime di responsabilità vale rilevare che la medesima fattispecie (le medesime inosservanze di direttive ecc.) potrebbero entrare contemporaneamente sia nel procedimento di valutazione, sia nel procedimento di addebito disciplinare». Comunque, sono almeno quattro gli argomenti che inducono a ritenere che la nuova macro fattispecie di responsabilità prevista dall'art. 21 comma 1-bis «si collochi all'interno dei confini, per altro sempre più slabbrati, della responsabilità dirigenziale. Il primo argomento riguarda la sua formale collocazione, allocata com'essa è all'interno della norma sulla responsabilità dirigenziale (art. 21) e non all'interno delle nuove disposizioni che regolano espressamente le nuove fattispecie di responsabilità disciplinare del dirigente. Il secondo è un argomento di interpretazione letterale: il legislatore usa l'incipit «al di fuori dei casi di cui al comma 1°». [..] Il significato sembra, comunque, abbastanza chiaro: si aggiunge a quelle già previste dal comma 1° (mancato raggiungimento degli obiettivi e inosservanza di direttive) una nuova macro ipotesi di responsabilità dirigenziale (di micro ipotesi qualificate come dirigenziali dall'incidenza sull'indennità di risultato ce ne sono parecchie sparpagliate in modo random in vari disposti). Il terzo argomento è di tipo sistematico. La nuova ipotesi di responsabilità, individuata nell'art. 21 comma 1-bis, è agganciata pur sempre alla procedura di valutazione (almeno del comportamento organizzativo del dirigente) nella misura in cui fa riferimento alla vigilanza sul rispetto degli standard quantitativi dei sottoposti e non semplicemente ad un comportamento non in linea con il rispetto degli obblighi contrattuali base. È espressamente inserita nel circuito della responsabilità dirigenziale in quanto agganciata alla procedura a monte di valutazione; è previsto, pur sempre l'intervento del Comitato dei garanti [..] Il quarto argomento è collegato al precedente, è in qualche modo consequenziale e attiene ad un dato letterale e sistematico insieme. La conseguenza dell'imputazione di responsabilità prevista dal nuovo comma 1-bis dell'art. 21 si riverbera sulla retribuzione di risultato (connessa all'incarico e non al rapporto base) che consegue alla valutazione. Qui a valle, nell'addebito (oltre che nelle garanzie di contradditorio e di previa contestazione con il richiamo alla fonte collettiva), in effetti, si evidenziano i tratti di maggiore commistione con la responsabilità disciplinare: l'addebito si presenta equipollente (ma tecnicamente non è tale perché segue la valutazione) ad una vera sanzione disciplinare conservativa, tipizzata dalla legge nell'effetto economico patrimoniale (la perdita sino all'80% della retribuzione di risultato), e nel principio di proporzionalità che la sorregge (la decurtazione in proporzione alla gravità della violazione). E tuttavia tanto non basta per far qualificare tale responsabilità come disciplinare» (Caruso).

Lo straripamento della responsabilità dirigenziale.

La più recente evoluzione normativa registra il progressivo ampliamento della fattispecie responsabilità dirigenziale da parte del legislatore rispetto all'originaria formulazione (il mancato raggiungimento dei risultati e l'inosservanza delle direttive). Si è, così, assistito ad una continua fioritura di nuove ipotesi, che a fatica sono apparse rientrare nella definizione originaria di responsabilità dirigenziale intesa come meccanismo tendente al rafforzamento dell'amministrazione di risultato.

Negli ultimi anni, la legge ha, in primo luogo, circondato di sanzioni, a carico del dirigente, il mancato esercizio da parte di quest'ultimo delle proprie prerogative datoriali, con particolare ma non esclusivo riferimento al potere disciplinare. A ciò si è accompagnata «una trasfigurazione della responsabilità dirigenziale, che da responsabilità per violazione di obblighi di risultato diviene, attraverso una lunga serie di fattispecie speciali, incrementate anche dalle leggi sulla trasparenza e sulla corruzione, responsabilità per violazione di obblighi di processo. Il dirigente incorre in responsabilità dirigenziale, ad esempio, se: omette di pubblicare informazioni in materia di procedimenti amministrativi (art. 1, comma 33, l. n. 190/2012); adotta tardivamente il provvedimento amministrativo (art. 2, comma 9 l. n. 241/1990 e s.m.i.); non predispone il piano anticorruzione (art. 1, comma 12-14, l. 190/2012); omette la pubblicazione di moduli e formulari per l'avvio di procedimenti (art. 57, comma 2, d.lgs. n. 82/2005); non trasmette documenti via PEC tra amministrazioni pubbliche (art. 47, comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005); omette la pubblicazione delle informazioni previste nella sezione «amministrazione trasparente» o non adotta il programma triennale per la trasparenza e l'integrità (art. 1, comma 33 l. n. 190/2012; art. 46, commi 1 e 2 d.lgs. n. 33/2013); non comunica gli elementi necessari al completamento ed all'aggiornamento dell'indice degli indirizzi delle pubbliche amministrazioni (art. 57-bis, comma 3,, d.lgs. n. 82/2005); e così via» (Battini). A conferma della segnalata tendenza espansiva e snaturante della responsabilità dirigenziale, con particolare riguardo «all'osservanza della trasparenza ed efficienza dell'amministrazione, va sottolineato che ai sensi dell'art. 1, comma 7 della l. n. 56/2019 (c.d. «legge concretezza»), si introduce un'ulteriore forma di responsabilità dirigenziale che scaturisce dall'omesso rispetto del termine per l'attuazione delle misure correttive che le amministrazioni sono obbligate ad inverare per realizzare le azioni concrete per l'efficienza delle pubbliche amministrazioni stabilite nell'apposito piano triennale emanato dal ministro della funzione pubblica. Mentre, ancor più recentemente, l'art. 1, comma 163 della l. n. 160/2019 estende la responsabilità dirigenziale ed aggrava il regime delle sanzioni per gli inadempimenti relativi agli obblighi di pubblicazione di cui al d.lgs. n. 33/2013 e s.m.i. sul diritto di accesso e gli obblighi di pubblicità, assegnando all'ANAC la competenza in materia di irrogazione delle sanzioni per gli inadempimenti sanciti dall'art. 47 dello stesso decreto n. 33/2013 e s.m.i.». In sostanza, si tratta di ipotesi tipiche di violazione delle prescrizioni sulla gestione della funzione dirigenziale, assunte ad elemento di valutazione negativa della responsabilità dirigenziale. Al riguardo si è osservato che «non solo l'estensione delle tipologie di omissioni, ma soprattutto la natura delle stesse, fa straripare tale forma di responsabilità dalla funzione assegnata dal corretto riparto tra compiti del vertice politico e dirigenza e dal relativo controllo di risultato trasformando quest'ultimo in un controllo (concomitante) sul rispetto degli adempimenti legislativi (imputabilità ai dirigenti della responsabilità «dell'attività gestionale») e, quindi, sulle forme di esercizio del potere organizzativo-gestionale» (Armao).

Altra parte della dottrina sottolinea che l'art. 21 comma 1-bis, e le numerose nuove fattispecie che a questa sono ispirate, ha introdotto «una responsabilità dirigenziale non più legata alla performance del dirigente e quindi alla considerazione complessiva della condotta dirigenziale, riconducibile ad un numero più o meno ampio di atti amministrativi, ma ha ricondotto l'imputabilità della responsabilità dirigenziale a singole violazioni o inadempimenti. Inoltre a tale meccanismo consegue la sola decurtazione della retribuzione di risultato come unica forma di sanzione». Con tale serie di norme, l'istituto della responsabilità dirigenziale, distorcendone la natura, assume anche una valenza tendenzialmente sanzionatoria e punitiva. In altre parole, «si potrebbe sostenere che, a causa delle modifiche apportate e dai nuovi interventi normativi, il legislatore abbia costruito due differenti meccanismi di responsabilità dirigenziale: un meccanismo, per così dire, hard con riferimento al primo comma dell'art. 21, che tende a sanzionare un dirigente che nello svolgimento della sua attività complessiva o condotta non risponde a canoni di efficienza, efficacia ed economicità e a cui corrispondono sanzioni rilevanti per la sua carriera; un secondo meccanismo, più soft, che fa riferimento principalmente all'art. 21 comma 1-bis, il quale porta a sanzionare un singolo comportamento omissivo o inadempiente con conseguenze solo di natura patrimoniale. Tuttavia, il secondo meccanismo tende ad avvicinarsi maggiormente alla responsabilità disciplinare piuttosto che alla responsabilità dirigenziale, aprendo una area grigia e di confusione tra le due responsabilità» (David).

Bibliografia

Armao, La responsabilità dirigenziale trasfigurata e la disciplina delle Regioni speciali, in ildirittoamministrativo.it, 2019; Battini, Al servizio della Nazione? Verso un nuovo modello di disciplina della dirigenza e del personale pubblico, in astrid-online.it, 2016; Bolognino, D'Alessio, Il dirigente come soggetto «attivo» e «passivo» della valutazione. La responsabilità dirigenziale legata al sistema di valutazione e la responsabilità per omessa vigilanza su produttività ed efficienza, in Pizzetti, Rughetti (a cura di), La riforma del lavoro pubblico, Roma, 2010; Borgongelli, La responsabilità disciplinare del dipendente pubblico, in Zoppoli (a cura di), Ideologia e tecnica nella riforma del lavoro pubblico, Napoli, 2009, 430; Boscati, Dirigenza pubblica: poteri e responsabilità tra organizzazione del lavoro e svolgimento dell'attività amministrativa, in Il lavoro nelle p.a., 2009, 1, 35; Caruso, Le dirigenze pubbliche tra nuovi poteri e responsabilità (Il ridisegno della governance nella p.a. italiane), in csdle.lex.unict.it; Cerbo, La responsabilità dirigenziale fra rigore e garanzia, in Il lavoro nelle p.a., 2002, 3, 568; David, Le nuove fattispecie di responsabilità dirigenziale, ovvero come il legislatore abbia rivoluzionato (o forse trasformato) l'istituto ex art. 21 d.lgs.165/2001, in amministrazioneincammino.luiss.it, 2013; Nicosia, La gestione della performance dei dirigenti pubblici: an, quando, quis e quomodo della «misurazione» e «valutazione» individuale, in csdle.lex.unict.it, 2010; Torchia, La responsabilità dirigenziale, Padova, 2000.

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