Decreto legislativo - 30/03/2001 - n. 165 art. 63 - Controversie relative ai rapporti di lavoro ( Art. 68 del d.lgs n. 29 del 1993 , come sostituito prima dall' art. 33 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi dall' art. 29 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall' art. 18 del d.lgs n. 387 del 1998 ).Controversie relative ai rapporti di lavoro (Art. 68 del d.lgs n. 29 del 1993, come sostituito prima dall'art. 33 del d.lgs n. 546 del 1993 e poi dall'art. 29 del d.lgs n. 80 del 1998 e successivamente modificato dall'art. 18 del d.lgs n. 387 del 1998). 1. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo. 2. Il giudice adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro. Il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennita' risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore alle ventiquattro mensilita', dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attivita' lavorative. Il datore di lavoro e' condannato, altresi', per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali1. 2-bis. Nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalita', il giudice puo' rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravita' del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato 2. 3. Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie relative a comportamenti antisindacali delle pubbliche amministrazioni ai sensi dell'articolo 28 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, e le controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva di cui all'articolo 40 e seguenti del presente decreto. 4. Restano devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché, in sede di giurisdizione esclusiva, le controversie relative ai rapporti di lavoro di cui all'articolo 3, ivi comprese quelle attinenti ai diritti patrimoniali connessi. 5. Nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui all'articolo 64, comma 3, il ricorso per cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all'articolo 40. [1] Comma modificato dall'articolo 21, comma 1, lettera a), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75. [2] Comma aggiunto dall'articolo 21, comma 1, lettera b), del D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75. InquadramentoCon l'avvio del processo di privatizzazione del pubblico impiego, la P.A. ha perso il ruolo autoritativo che tradizionalmente rivestiva nei confronti dei suoi dipendenti, assumendo le capacità e i poteri dei privati datori di lavoro. Gli atti di gestione del rapporto sono stati privati della connotazione pubblicistica per essere equiparati alle corrispondenti determinazioni dei datori di lavoro del settore privato, con riduzione del novero delle ipotesi in cui i pubblici dipendenti sono titolari, nei confronti della P.A., di interessi legittimi. Tale evoluzione ha determinato, in punto di giurisdizione, l'inevitabile devoluzione delle controversie in materia di pubblico impiego al giudice ordinario. Lo svuotamento della precedente giurisdizione esclusiva del G.A. è stato inaugurato dal d.lgs. n. 29/1993, approdando, infine, al disposto dell'art. 63 del decreto n. 165/2001. Esso stabilisce l'attribuzione al G.O., in funzione di giudice del lavoro, della quasi totalità delle controversie tra P.A. e pubblici dipendenti (eccezion fatta per quelle relative ai rapporti non privatizzati e per quelle in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti: art. 63, comma 4), soluzione perfettamente in linea con il mutato assetto del lavoro alle dipendenze della P.A.. Da ricordare, altresì, che nel pubblico impiego privatizzato il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica è ormai precluso dall'art. 7, comma 8, del Codice del processo amministrativo, che limita l'utilizzo di tale strumento alle sole materie attribuire alla giurisdizione amministrativa. Le controversie che restano assoggettate alla giurisdizione amministrativa.La privatizzazione del rapporto di pubblico impiego ha comportato l'erosione della giurisdizione del G.A., ma non un totale prosciugamento della stessa. Per esplicita previsione normativa, infatti, talune controversie in ambito pubblico impiego restano devolute alla giurisdizione del G.A. Si è già evidenziato come il processo di contrattualizzazione non abbia coinvolto tutte le categorie di pubblici dipendenti, essendo stati eslcusi il personale di cui all'art. 3 del d.lgs. n. 165/2001 e quanti altri rimasti in regime di diritto pubblico. Conseguenza della permanenza del regime pubblicistico per tali categorie è stata la conservazione della competenza a conoscere le controversie di lavoro tra i dipendenti di cui trattasi e la P.A. in capo al G.A., la cui giurisdizione a proposito è non solo esclusiva, ma anche piena (art. 133, comma 1, lett. i, c.p.a.). Trattasi, dunque, di una giurisdizione esclusiva e piena, estesa anche ai diritti patrimoniali connessi. Secondo la tesi prevalente, la giurisdizione amministrativa esclusiva comprende i danni biologici e, in generale, quelli non patrimoniali solo nel caso in cui la relativa domanda risarcitoria sia proposta a titolo contrattuale, venendo in rilievo il collegamento al rapporto di impiego. Cons. St. V, n. 215/2021 ha, invece, chiarito che detta giurisdizione cessa con il venir meno del rapporto, con la conseguenza che le questioni successive sono soggette al normale riparto di giurisdizione basato sulla consistenza della posizione soggettiva azionata. Cass. S.U., n. 601/2005 ha, poi, sviluppato i temi della sentenza Corte cost., n. 204/2004 in materia di comportamenti amministrativi, avallando la compatibilità di una giurisdizione esclusiva che riguarda aspetti anche meramente patrimoniali di un rapporto che conserva essenza e matrice pubblicistica e trova la sua genesi in un provvedimento pubblicistico. Ai sensi dell'art. 63, comma 4, del decreto n. 165, la giurisdizione amministrativa permane anche per le controversie relative agli atti delle procedure concorsuali di assunzione (nonché, implicitamente, per le controversie inerenti l'autotutela pubblicistica – revoca o annullamento – sugli atti della procedura concorsuale), in quanto trattasi di veri e propri procedimenti amministrativi. La giurisdizione relativa alle controversie in materia di procedure concorsuali, al pari di quanto avveniva prima della privatizzazione (allorquando la giurisdizione esclusiva del G.A. concerneva solo le controversie successive alla instaurazione del rapporto), è una giurisdizione di legittimità. Essa, pertanto, concerne solo posizioni d'interesse legittimo: tanto si desume, senza difficoltà, dall'espressione posta in apertura del comma 4 dell'art. 63 («restano devolute alla giurisdizione amministrativa»), indice della volontà del legislatore di non apportare, in tale materia, alcuna modifica in ordine alla autorità giudiziaria competente (tradizionalmente quella amministrativa) e alla natura della giurisdizione (che, come visto, anche prima della privatizzazione, era di legittimità). Sulla giurisdizione del GA in relazione all’impugnazione degli atti di macro-organizzazione, cfr. Cons. St., V, Ord. 7 giugno 2023, n. 5615. Il confine tra le giurisdizioni: le procedure concorsuali.Non sono mancati i problemi interpretativi, legati alla formulazione dell'art. 63 in esame, nella definizione di alcune zone di confine tra le due giurisdizioni. Tra esse, particolare rilievo rivestono le tematiche inerenti le procedure concorsuali. La scelta della giurisdizione amministrativa di legittimità per le controversie in materia appare in linea con il criterio di riparto fondato sulla causa petendi. Le procedure concorsuali, in cui rientrano sia le procedure connotate dall'espletamento di prove stricto sensu intese, sia i concorsi per soli titoli (mente non concretano procedure concorsuali le assunzioni che non sono basate su di una logica selettiva), sono procedure a evidenza pubblica i cui atti, pertanto, hanno natura amministrativa: da ciò discende che i partecipanti a esse sono titolari di meri interessi legittimi alla corretta esplicazione della selezione. Il comma 4 in esame va, poi, letto in combinato disposto con il comma 1 del medesimo art. 63 che devolve al G.O. le controversie «concernenti l'assunzione al lavoro». Occorre, pertanto, chiarire la linea di confine tra le controversie in materia di procedure concorsuali e quelle concernenti l'assunzione al lavoro, linea oltre la quale non sussiste più la giurisdizione amministrativa. Sul tema cfr. Cass. S.U., ord. n. 7483/2017: «ai sensi dell'art. 63, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165, la giurisdizione del giudice amministrativo riguarda le sole procedure concorsuali delle P.A. in senso stretto (nonché quelle cosiddette interne per l'accesso ad aree o fasce funzionali superiori), dalla pubblicazione del bando alla valutazione dei candidati, sino all'approvazione della graduatoria finale che individui i vincitori, mentre le controversie relative agli atti successivi rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario (sempre che la parte non contesti la legittimità dell'atto di approvazione della graduatoria), venendo in questione atti che non possono che restare compresi tra le determinazioni assunte con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato (art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001), di fronte ai quali sono configurabili solo diritti soggettivi, avendo la pretesa ad oggetto il diritto all'assunzione; né la giurisdizione del giudice del lavoro soffre deroga per il fatto che venga in questione un atto amministrativo presupposto, che può essere disapplicato a tutela del diritto azionato». Dalla predetta definizione risulta chiaramente che rientrano tra le controversie di cui al comma 4 dell'art. 63 tutte quelle nelle quali i partecipanti alle procedure concorsuali lamentino il cattivo esercizio del potere selettivo da parte della P.A.: a fronte di un potere siffatto non è, infatti, configurabile alcuna posizione di diritto soggettivo. In base al principio del contrarius actus, detta giurisdizione comprende anche l'annullamento della procedura concorsuale ed i danni patiti, per effetto di tale autotutela, nei confronti dei candidati che dimostrino, sulla base di un giudizio prognostico, una situazione soggettiva destinata, secondo un criterio di normalità, ad un esito positivo del concorso. Esulano, invece, dalle previsioni del comma 4, e rientrano in quelle del comma 1, tutte le controversie concernenti le assunzioni che avvengono attraverso meccanismi non concorsuali, quali le assunzioni mediante collocamento o le assunzioni obbligatorie che, cioè, prescindono dalla valutazione comparativa e dipendono dall'accertamento, in capo al soggetto che vanta il titolo prioritario ai fini dell'assunzione, della sussistenza dei requisiti richiesti per l'instaurazione del rapporto di lavoro. In presenza dei requisiti legittimanti, infatti, il soggetto che vanta il titolo all'assunzione è portatore di un diritto soggettivo all'assunzione medesima, la cui cognizione è pertanto naturalmente devoluta al G.O. Si ritengono, inoltre, escluse dall'ambito di giurisdizione riservato al giudice amministrativo le controversie concernenti fasi selettive non concorsuali, finalizzate cioè unicamente alla identificazione di una rosa ristretta di candidati entro i quali sarà prescelto il soggetto al quale conferire un incarico. Manca, infatti, in questo genere di procedure, il connotato proprio del concorso. Esulano dalle previsioni del comma 4 e rientrano, pertanto, tra le controversie concernenti l'assunzione al lavoro di cui al comma 1, tutte le controversie ingenerate dai comportamenti della P.A. successivi all'esaurimento del concorso e, dunque, all'approvazione della graduatoria (cfr. Cass, S.U., n. 1417/2018).L'attività provvedimentale della P.A., a fronte della quale sono configurabili interessi legittimi, si esaurisce, infatti, con l'ultimo atto della procedura concorsuale, con la conseguenza che tutti gli atti di gestione del rapporto di lavoro successivi a esso, ivi compreso l'atto di assunzione, sono atti di diritto privato. Ad analoga conclusione deve giungersi per le controversie relative alla riassunzione del dipendente cessato dal servizio (Sordi, 175; Matteini, Talamo, 391). Devono, dunque, essere conosciute dal G.O. le controversie tra la P.A. e i soggetti utilmente posizionati in graduatoria i quali lamentino il rifiuto o il ritardo della P.A. medesima nell'assunzione: la giurisprudenza, infatti, è, almeno in parte, orientata a ritenere che, per effetto della privatizzazione e della sostituzione del provvedimento unilaterale di nomina con il contratto, è configurabile, in capo al soggetto vincitore del concorso, un vero e proprio diritto soggettivo all'assunzione e, in capo all'Amministrazione, l'obbligo giuridico (assunto con l'emanazione del bando) di procedere all'assunzione medesima. Viceversa, spettano al giudice amministrativo le controversie per il risarcimento del danno derivante dalla ritardata assunzione, quando essa sia dovuta ad una illegittima collocazione in graduatoria, accertata nel giudizio amministrativo. In questi casi, infatti, la pretesa risarcitoria dell'interesse legittimo leso è consequenziale all'annullamento dell'atto della procedura concorsuale e spetta, pertanto, alla cognizione del giudice amministrativo. Lo scorrimento della graduatoria: diritto soggettivo o interesse legittimo? Come sottolineato da Cass. S.U., ord. n. 21607/2019, i candidati utilmente collocati in una graduatoria finale di un concorso pubblico ancora efficace possono ricorrere alla giurisdizione del giudice ordinario nel caso in cui vantino un diritto perfetto all'assunzione, derivante da una decisione dell'amministrazione di coprire i posti vacanti mediante scorrimento della precedente graduatoria e la contestazione abbia ad oggetto le modalità di attuazione dello scorrimento della graduatoria del concorso espletato. Se, invece, la pretesa al riconoscimento del suddetto diritto è conseguenziale alla negazione degli effetti del provvedimento di indizione di un nuovo concorso, la contestazione investe l'esercizio di un potere autoritativo dell'amministrazione, al quale corrisponde una situazione di interesse legittimo del singolo candidato idoneo, la cui tutela spetta al giudice amministrativo (cfr. anche Cass. S.U., n. 7483/2017). Peraltro, la P.A. può scegliere, in base a valutazioni discrezionali, di coprire i posti vacanti avvalendosi di risorse interne. Sul tema Cons. St., Ad. plen., n. 11/2014 ha chiarito che non sussiste in capo alla P.A. alcun obbligo giuridico di procedere allo scorrimento della graduatoria, ma solo la facoltà di procedere alla assunzione degli idonei. È stato, inoltre, affermato il dovere di motivazione dell'atto di indizione di un nuovo concorso in luogo dello scorrimento delle graduatorie degli idonei ancora valide ed efficaci. Tale dovere rileva per evidenziare l'interesse pubblico dell'amministrazione sotteso alla scelta compiuta e l'attenta considerazione degli interessi giuridici facenti capo ai soggetti collocati in graduatorie ancora efficaci. Al contempo, viene confermato l'indirizzo secondo cui la contestazione della procedura di indizione di un concorso, fondata sull'affermazione di un “diritto allo scorrimento”, si basa sulla deduzione non già di una carenza di potere dell'amministrazione, ma di un vizio di violazione di legge, la cui cognizione spetta al giudice amministrativo. Secondo Cons. St., V, 961/2021, la mobilità volontaria va, invece, preferita allo scorrimento in quanto, alla luce dell'art. 30 del Testo Unico, assolve a una funzione perequativa di assorbimento di eventuale personale eccedentario e si risolve in un risparmio di spesa, nel recupero di professionalità già formate e nella garanzia dell'immediata operatività delle scelte. Concorsi esterni e interni: un confine impalpabile. Ulteriore problematica è quella del giudice competente a conoscere le controversie concernenti i concorsi c.d. interni, finalizzati, cioè, non al reclutamento di nuovo personale, ma alla progressione di carriera del personale già assunto. L'art. 63, al comma 4, non contiene alcuna specificazione in proposito. Parte della dottrina e della giurisprudenza ha reputato che le selezioni interne per la progressione di carriera dei pubblici impiegati apparterrebbero alla cognizione del G.O., in quanto atti di gestione del rapporto di lavoro già instaurato, emessi dalla P.A. con la capacità e i poteri dei privati datori di lavoro. L'orientamento della Cassazione si è però progressivamente indirizzato in senso difforme, anche a seguito dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale (ad es. sentenze Corte cost. n.205/2004 e n. 190/2005) che ha chiarito che anche l'accesso a funzioni più elevate, ossia il passaggio ad una fascia funzionale superiore da parte dei dipendenti di ruolo, determina una forma di reclutamento soggetta alla regola del pubblico concorso ex art. 97 Cost.. Sulla distinzione tra concorsi interni ed esterni è intervenuta Cons. St., Ad. plen., n. 17/2012. In quella occasione, i magistrati di Palazzo Spada hanno richiamato la predetta giurisprudenza costituzionale (da ultimo, Corte cost., n. 299/2011), secondo cui il principio del concorso come strumento di accesso all'impiego pubblico comprende «sia le procedure preordinate all'ingresso ex novo di personale nei ruoli dell'amministrazione sia quelle finalizzate al passaggio dei dipendenti ad una qualifica superiore. La regola del concorso pubblico si atteggia, in definitiva, a principio costituzionale, passibile di deroga solo nell'ipotesi in cui la progressione non determini la novazione, con effetti estintivo-costitutivi, del rapporto di lavoro preesistente». La Corte costituzionale, in sede di interpretazione della portata della regola del concorso pubblico, ha altresì sottolineato che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico aperto è stata delimitata in modo rigoroso, potendo tali deroghe essere considerate legittime solo quando siano funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell'amministrazione e ove ricorrano peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle (ex plurimis, sentenze n. 52/2011 e n. 195/2010). In particolare, si è più volte ribadito che il principio del pubblico concorso, pur non essendo incompatibile, nella logica dell'agevolazione del buon andamento della pubblica amministrazione, con la previsione per legge di condizioni di accesso intese a consentire il consolidamento di pregresse esperienze lavorative maturate nella stessa amministrazione, non tollera, salvo circostanze del tutto eccezionali, la riserva integrale dei posti disponibili in favore di personale interno. La valorizzazione della caratterizzazione sostanzialmente novativa degli effetti sortiti, a fronte della posizione originaria, dall'attribuzione di una qualifica superiore per effetto della procedura concorsuale, è l'argomento posto a sostegno anche dell'indirizzo ermeneutico della Corte di legittimità che, in punto di riparto di giurisdizione, afferma la giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione del contenzioso relativo alle procedure riservate volte a sancire la progressione verticale interna, ossia il passaggio tra diverse aree di inquadramento previste dalla contrattazione collettiva. Posto il principio secondo cui, nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, l'accesso del personale dipendente ad un'area o fascia funzionale superiore deve avvenire per mezzo di una pubblica selezione, comunque denominata - al quale, di norma, deve essere consentita anche la partecipazione di candidati esterni –, si osserva che il quarto comma dell'art. 63 d.lgs. n. 165/2001, laddove riserva alla giurisdizione del giudice amministrativo “le controversie in materia di procedure concorsuali per l'assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”, fa riferimento non solo alle procedure concorsuali strumentali alla costituzione, per la prima volta, del rapporto di lavoro, ma anche alle prove selettive dirette a permettere l'accesso del personale già assunto ad una fascia o area superiore: il termine “assunzione” deve essere correlato alla qualifica che il candidato tende a conseguire e non all'ingresso iniziale nella pianta organica del personale, dal momento che, oltre tutto, l'accesso nell'area superiore di personale interno od esterno implica, esso stesso, un ampliamento della pianta organica (Cass. S.U.,n. 15403/2003). La successiva giurisprudenza della Corte di Cassazione ha specificato l'ambito di operatività della giurisdizione amministrativa, evidenziando che essa sussiste per tutte le controversie concernenti, oltre i concorsi esterni e i concorsi «misti», anche i concorsi interni con progressione c.d. «verticale», ossia i concorsi per l'accesso ad un'area o categoria contrattuale diversa in modo da dar luogo ad una novazione del rapporto. La giurisdizione amministrativa va, invece, esclusa per tutte le controversie concernenti i concorsi interni ma con progressione c.d. «orizzontale», ossia per i concorsi interni che consentono al dipendente di passare da una qualifica ad un'altra ma attuano una mera progressione economica nell'ambito della medesima area. Essi, infatti, lungi dall'essere esplicazione del potere provvedimentale della P.A., sono espressione del potere privatistico di gestione del rapporto di lavoro; ne consegue che non consentono la novazione del contratto di lavoro ma una mera modifica di esso e che, a fronte degli atti loro relativi, i privati sono titolari di diritti soggettivi azionabili, in quanto tali, dinanzi al G.O. Cass. S.U. , n. 8821/2018 ha, infine, escluso che che i procedimenti di mobilità, compresa quella di carattere professionale (nella specie, passaggi di cattedra e di ruolo) siano suscettibili di essere ascritti alla categoria delle procedure concorsuali per l'assunzione, laddove il passaggio di ruolo resta compreso nell'unicità dell'area professionale (cfr. anche Cass. S.U., n. 15472/2003; Cass.S.U., n. 17140/2019). Inoltre, secondo T.A.R. Sicilia, Palermo III, 15 ottobre 2019, n. 2364, con riferimento alla procedura di stabilizzazione del personale precario, indetta ai sensi dell'art. 20, comma 1, del d.lgs. n. 75/2017, deve ritenersi che l'Amministrazione non bandisce un concorso, ma si limita a dare avviso della procedura di stabilizzazione e della possibilità degli interessati di presentare la domanda con conseguente devoluzione delle relative controversie al giudice ordinario. Il secondo comma ha, invece, ad oggetto una vera e propria selezione, aperta anche all'esterno, per un numero di posti inferiore a quello dei soggetti aventi i requisiti, la quale è rivolta al personale che non ha già superato prove concorsuali, cosicché, in applicazione dei medesimi principi, deve ritenersi che le relative controversie rientrano nella giurisdizione del giudice amministrativo. Segue: controversie su conferimento e revoca degli incarichi dirigenziali e la natura dell'atto di conferimento.La questione della natura giuridica degli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali è da sempre controversa, «dividendosi tra dottrina e Cassazione, che li ritengono atti di diritto privato, con conseguente devoluzione al G.O. del contenzioso e Consiglio di Stato, che li ritiene veri e propri provvedimenti amministrativi devolvendo il contenzioso al G.O., in via esclusiva. Il dibattito non è stato sopito dall'art. 19, d.lgs. n. 165/2001 che ha espressamente qualificato gli atti di conferimento dell'incarico dirigenziale quali provvedimenti confermando la giurisdizione del G.O. Gli studiosi e gli operatori del diritto che, ancor prima della riforma del 2002, includevano gli atti in esame tra i provvedimenti amministrativi e reputavano che la giurisdizione del G.O. loro relativa fosse esclusiva, hanno rinvenuto nella l. n. 145 una conferma della correttezza della soluzione da loro prospettata» (Caringella, 662). È tuttavia assolutamente maggioritario, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, il contrapposto orientamento che desume la natura privatistica degli atti di cui trattasi dalla lettera dell'art. 19, il quale li qualifica «provvedimenti» e non «provvedimenti amministrativi», locuzione che costantemente connota gli atti di esercizio del potere pubblico. L'assenza del predicato «amministrativi» e il fatto che gli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali, attenendo a profili organizzativi e gestionali di rapporti di lavoro già costituiti, non possono essere inclusi tra gli atti di cui all'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 165/2001 (per i quali soltanto residua il regime pubblicistico) sono considerati indici inequivocabili della piena equiparabilità degli stessi agli atti dei privati datori di lavoro. Ne consegue che appare assolutamente giustificata la devoluzione delle controversie loro relative al G.O.: trattandosi di atti appartenenti alla gestione dei rapporti di lavoro e assunti con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro, a fronte di essi i dipendenti non possono che vantare diritti soggettivi (cfr. Cons. St. V, n. 2814/2016; Cass.S.U., n. 24877/2017; Cass.S.U., n. 6076/2020). L'espressa indicazione, tra le controversie riservate alla giurisdizione ordinaria, anche di quelle relative al conferimento e alla revoca degli incarichi dirigenziali ha stimolato uno specifico dibattito circa la natura della giurisdizione ordinaria. La natura degli atti di conferimento di incarico dirigenziale è infatti – come si è visto – ampiamente dibattuta in dottrina e giurisprudenza. Secondo i sostenitori della «tesi della natura provvedimentale dell'atto di conferimento degli incarichi dirigenziali, e, quindi, anche dell'atto di revoca, la disposizione di cui all'art. 63 avrebbe esteso la cognizione del G.O. a controversie che, secondo gli ordinari criteri di riparto, dovrebbero essere devolute alla giurisdizione amministrativa poiché concernenti interessi legittimi. La giurisdizione ordinaria in tale materia, pertanto, sarebbe una giurisdizione esclusiva, al pari di quella prevista per le sanzioni amministrative di cui alla l. n. 689/1981. Da tale qualificazione della giurisdizione del giudice ordinario deriverebbero due importanti conseguenze. In primo luogo, il riconoscimento della titolarità, in capo al giudice ordinario, oltre al potere di disapplicazione (espressamente attribuitogli dalla legge), anche del potere di annullamento dei provvedimenti amministrativi illegittimi, ogni qual volta la mera disapplicazione non garantisca adeguata tutela ai privati. In secondo luogo, l'ultimo inciso del comma 1 dell'art. 63 dovrebbe essere interpretato nel senso che la coesistenza, ivi ipotizzata, tra giudizio civile ed amministrativo è possibile solo laddove il provvedimento amministrativo, rilevante nella controversia tra P.A. e dipendenti, venga impugnato da soggetti estranei al rapporto di lavoro. Solo questi ultimi, infatti, qualora siano eventualmente lesi dal conferimento di un incarico dirigenziale, non possono adire il G.O. (la cui giurisdizione è esclusiva solo relativamente alle controversie tra P.A. e dipendenti), ma, in conformità con l'ordinario criterio di riparto fondato sulla causa petendi, devono rivolgersi al G.A. Tale interpretazione dell'art. 63 quale norma derogatoria degli artt. 4 e 5 L.A.C. è tuttavia minoritaria (Caringella, 665). Nettamente prevalente è, invece, il contrapposto orientamento secondo il quale l'art. 63 avrebbe carattere meramente ricognitivo, limitandosi a confermare che il G.O. è il giudice dei soli diritti soggettivi. Tale tesi poggia sull'assunto – affermato dalla Cassazione – della natura privatistica dei «provvedimenti» di conferimento degli incarichi dirigenziali, la quale troverebbe anzi ulteriore conferma proprio nella inclusione delle relative controversie tra quelle spettanti al giudice ordinario. Ai sensiDell'art. 63, l'estensione della giurisdizione ordinaria ai soli provvedimenti amministrativi presupposti, l'attribuzione al G.O. del mero potere di disapplicazione dei provvedimenti illegittimi e la conservazione di alcuni spazi di operatività della giurisdizione amministrativa sono da considerare indici inequivocabili del fatto che oggetto principale del giudizio dinanzi al G.O. può essere solo un atto di gestione del rapporto di lavoro, ossia un atto privatistico emesso dalla P.A. con i poteri e la capacità del privato datore di lavoro (a fronte del quale il dipendente vanta un diritto soggettivo) e non un provvedimento amministrativo (e, dunque, l'interesse legittimo del privato alla correttezza di esso). La legittimità di quest'ultimo, infatti, può essere valutata dal giudice ordinario solo in via incidentale, allorquando tale valutazione risulti essere imprescindibile ai fini della decisione della controversia relativa ad un diritto soggettivo. Solo in tali ipotesi, in cui cioè gli atti (privatistici) di gestione del rapporto trovano fondamento in un atto di natura pubblicistica, il G.O. può estendere la sua giurisdizione anche ai provvedimenti amministrativi e, verificatane l'illegittimità, può procedere alla disapplicazione di essi, ossia può decidere la controversia rispetto alla cui soluzione essi rilevano tamquam non essent. Al di fuori di queste ipotesi, invece, tutte le controversie concernenti in via principale la valutazione della legittimità dei provvedimenti amministrativi (tali sono, a seguito della privatizzazione, solo gli atti di macro-organizzazione nonché gli atti relativi alle procedure concorsuali) devono essere conosciute dal G.A., giudice tradizionalmente deputato ad accordare tutela agli interessi legittimi, cui solo spetta il potere di annullamento dei provvedimenti illegittimi. Caratteri e ambito della giurisdizione del G.O.Salve le eccezioni di cui si è detto, per effetto della privatizzazione tutte le controversie in materia di pubblico impiego, dalla costituzione all'estinzione del rapporto, sono state devolute al G.O., siccome delineato dall'art. 63 del d.lgs. n. 165/2001. Rientrano nella giurisdizione del G.O. anche le controversie, promosse da organizzazioni sindacali, dall'ARAN o dalle pubbliche amministrazioni, relative alle procedure di contrattazione collettiva (di cui all'art. 40 e seguenti del decreto n. 165) nonché le vertenze per repressione della condotta antisindacale (ex art. 28 l. n. 300/1970) posta in essere dal datore di lavoro pubblico (cfr. il comma 3 dell'art. 63). In tema, T.A.R. Sardegna I, n. 10/2018 evidenzia come «ai sensi dell'art. 28, comma 1, della legge della l. n. 300/1970, appartengano alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario le sole controversie per condotte antisindacali instaurate «su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse», questo, peraltro, anche laddove l'azione delle associazioni di tutela si appunti su situazioni soggettive –sindacalmente rilevanti, ma- direttamente riconducibili alla sfera giuridica di uno o più specifici dipendenti. Viceversa le controversie –ancorché vertenti su condotte antisindacali- introdotte per iniziativa processuale «personale» degli stessi dipendenti lesi sono da ricondurre alla materia generale del pubblico impiego e, come tali, si ripartiscono tra il giudice ordinario e quello amministrativo a seconda che il rapporto di volta in volta implicato rientri fra quelli «privatizzati» oppure fra quelli rimasti in regime di diritto pubblico» (cfr. anche Cass. S.U.,n. 2359/2015). Peraltro, C. conti sez. giurisd. Sicilia, n. 377/2018 ha precisato che il dirigente che pone in essere una condotta antisindacale risponde dell'esborso finanziario subito dall'ente, rimasto soccombente dinanzi al giudice del lavoro. In base all'art. 63, comma 2 del d.lgs. n. 165/2001 il giudice ordinario, nelle materie in cui ha giurisdizione, esercita il suo sindacato ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi «siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo». L'art. 63, comma 1 del d.lgs. n. 165/2001 ipotizza, quindi, che il giudizio civile e quello amministrativo relativi alla medesima controversia possano essere contemporaneamente pendenti. Tale ipotesi potrebbe verificarsi non solo nel caso in cui il provvedimento rilevante ai fini della decisione della controversia tra P.A. e privati venga impugnato da un terzo che lamenta la lesione, da parte di esso, di un interesse legittimo, ma anche qualora il medesimo provvedimento venga impugnato da un dipendente la cui sfera giuridica sia da esso immediatamente incisa. Naturalmente, tanto la disapplicazione degli atti amministrativi presupposti quanto la loro impugnazione riguardano unicamente quegli atti che hanno mantenuto, pur dopo la c.d. privatizzazione, natura pubblicistica e sono, pertanto, veri e propri provvedimenti amministrativi. Il problema che si pone in concreto è quello di distinguere, caso per caso, quando ci si trovi di fronte a un provvedimento amministrativo presupposto e quando, invece, si tratta di un atto privatistico di gestione del rapporto di lavoro. Sono sicuramente atti amministrativi gli atti di macro-organizzazione, che attengono alla organizzazione complessiva degli uffici e che sono espressione della potestà pubblicistica di auto-organizzazione della P.A., vale a dire gli atti di cui all'art. 2, comma 1, del decreto n. 165/2001. Viceversa, non è configurabile alcun potere di disapplicazione né è ipotizzabile una impugnazione dinanzi al giudice amministrativo nei confronti degli atti di gestione del rapporto e di micro-organizzazione, trattandosi di atti privatistici, assunti nell'esercizio dei poteri propri del datore di lavoro e a fronte dei quali il dipendente pubblico è titolare di diritti soggettivi o, al più, di interessi legittimi di diritto privato. Su tali atti il G.O. ha cognizione piena e diretta e può, quindi, accertarne l'invalidità secondo le norme del codice civile. Viene a questo punto in rilievo il problema dei rapporti tra impugnazione dinanzi al G.A. e disapplicazione, dovendosi verificare sulla base di quali criteri si debbano distinguere i casi in cui per il dipendente sia possibile (o necessaria) l'impugnazione innanzi al G.A. dell'atto di macro organizzazione, da quelli in cui sia possibile (o necessario) invocarne unicamente la disapplicazione innanzi al G.O., ai sensi dell'art. 63 cit., oppure se sia consentita la c.d. doppia tutela, cioè il ricorso ad entrambi i giudici. «Dal sistema di riparto di giurisdizione delineato dall'art. 63, comma 1, d.lgs. n. 165/2001, risulta chiaramente che le controversie concernenti gli atti recanti le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, adottati dalle Amministrazioni ai sensi dell'art. 2, comma 1, dello stesso decreto – quali atti presupposti rispetto a quelli di organizzazione e gestione dei rapporti di lavoro, nei confronti dei quali sono configurabili astrattamente situazioni d'interesse legittimo, in quanto gli effetti pregiudizievoli derivano direttamente dall'atto presupposto – spettano alla giurisdizione del G.A. (ex pluribus, v. Cass. S.U., n. 25210/2020). Ai fini della loro attrazione alla giurisdizione del G.O., infatti, sono irrilevanti la incidenza riflessa di essi sugli atti di gestione di diritto privato dei rapporti di lavoro, nonché l'effettiva sussistenza dell'interesse al ricorso, atteso che le questioni della legittimazione – processuale e sostanziale – e delle condizioni dell'azione sono estranee all'area dei limiti esterni del potere giurisdizionale e vanno, pertanto, risolte dal giudice munito di giurisdizione» (Caringella, 667). Il potere di disapplicazione previsto dall'art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165/2001, presuppone che sia dedotto in causa un diritto soggettivo e non una posizione giuridica soggettiva suscettibile di assumere la consistenza di diritto soggettivo solo all'esito della rimozione del provvedimento. Viene, in tal modo, posto un argine a un uso indiscriminato e distorto dell'istituto della disapplicazione da parte del giudice ordinario, attraverso il quale si rischierebbe di introdurre delle deroghe surrettizie al rispetto del termine decadenziale, e, in definitiva, di violare il meccanismo del riparto di giurisdizione. Lo conferma Cass. S.U., n. 15820/2016: «in tutti i casi nei quali vengono in considerazione atti amministrativi presupposti, ove si agisca a tutela delle posizioni di diritto soggettivo in materia di lavoro pubblico, il diritto positivo consente esclusivamente l'instaurazione del giudizio ordinario, nel quale la tutela è pienamente assicurata dalla disapplicazione dell'atto e dagli ampi poteri riconosciuti al g.o. dall'art. 63, comma 2, d.lgs. n. 165/2001» (cfr. anche Cons. St. III, n. 2162/2019; Cass.S.U., n. 17123/2019). Emerge, quindi, «una linea interpretativa che non consente, nella materia del lavoro pubblico, al titolare del diritto soggettivo che risente degli effetti di un atto amministrativo di scegliere, per la tutela del diritto, di rivolgersi al giudice amministrativo per l'annullamento dell'atto, oppure al giudice ordinario per la tutela del rapporto di lavoro, previa disapplicazione dell'atto presupposto. Dalle considerazioni svolte sopra discende che, nell'area dei poteri autoritativi attribuiti dall'ordinamento all'Amministrazione in materia di lavoro pubblico contrattuale, si configurano (in astratto) situazioni d'interesse legittimo esclusivamente in capo ai soggetti con i quali non intercorrono rapporti giuridici, non potendo, per essi, il pregiudizio essere arrecato da atti consequenziali di diritto privato, nonché in capo ai soggetti i quali risentono di effetti pregiudizievoli imputabili direttamente all'atto amministrativo presupposto, e non all'atto paritetico consequenziale o applicativo. Ciò deve ritenersi che accada tutte le volte in cui l'utilità materiale cui si aspira può essere conseguita non con la mera rimozione degli effetti che l'atto produce sul rapporto giuridico (che è il solo ambito riconoscibile al potere di disapplicazione del giudice ordinario), ma con l'esercizio in senso favorevole del potere amministrativo, risultato ottenibile soltanto all'esito del controllo del giudice amministrativo» (Caringella, 668). I poteri del giudice ordinario.Come accennato, l'art. 63, comma 2, del decreto n. 165/2001, va letto in combinato disposto con il comma 1 del medesimo articolo, che, dopo aver elencato le controversie devolute al G.O. per effetto della privatizzazione, specifica che esse rientrano nella cognizione di tale giudice «ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica se illegittimi». Ne consegue che il giudice ordinario non deve limitare la sua cognizione agli atti emessi dalla P.A. con i poteri e la capacità dei privati datori di lavoro, ma può estenderla anche ai limitati provvedimenti amministrativi che la P.A. può emettere a seguito della privatizzazione. Tuttavia, ciò può avvenire solo allorquando tali provvedimenti non siano direttamente oggetto del giudizio: in tale ipotesi il giudice, valutatane l'illegittimità, può disporne la disapplicazione. Occorre, invece, rivolgersi al G.A. per l'annullamento qualora questo sia necessario ai fini della tutela. Esclusa la possibilità che il G.O. emetta pronunce di annullamento dei provvedimenti amministrativi, occorre focalizzare l'attenzione sulla tipologia di sentenze adottabili da tale giudice: provvedimenti di accertamento, ma anche provvedimenti costitutivi o di condanna, rispetto ai quali l'accertamento circa la fondatezza della domanda è strettamente propedeutico. Quanto ai provvedimenti costitutivi, tra essi rientrano anche quelli con i quali il G.O. «riconosce il diritto all'assunzione, ovvero accerta che l'assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali»: essi, infatti, «hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro» (art. 63 comma 2). Tali sono, secondo la dottrina, le sentenze emesse dal G.O. a seguito di un giudizio intentato da un soggetto che, lamentando la copertura dei posti in violazione della graduatoria, pretenda di essere sostituito al soggetto illegittimamente assunto. Poiché il sistema vigente impedisce alla P.A. di assumere lavoratori al di là dell'entità numerica programmata, infatti, il giudicato che accerta la fondatezza della domanda attorea produce contestualmente l'effetto estintivo del rapporto di lavoro illegittimamente instaurato (in violazione, cioè, della graduatoria), nonché l'effetto costitutivo del rapporto di lavoro in conformità con la graduatoria. Quanto, invece, alle pronunce di condanna, tra esse rientrano la condanna in tema di repressione della condotta antisindacale, la condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro, la condanna ad adibire il dipendente alle mansioni corrispondenti alla qualifica rivestita, ma anche la condanna al pagamento di somme di denaro. Il G.O. è, poi, tenuto ad assicurare ai dipendenti pubblici tutela risarcitoria. Egli, dunque, deve conoscere tanto le questioni relative alla condanna della P.A. al pagamento della somme da questa dovute, quanto le questioni relative ai diritti patrimoniali consequenziali (in passato pure rimesse alla cognizione del G.O.), intendendosi per tali tutte le questioni risarcitorie relative sia agli interessi moratori e al danno da rivalutazione monetaria, che alla generalità degli effetti dannosi derivanti da comportamenti o atti della P.A. sulla sfera dei dipendenti. Al G.O. è riservata anche la pronuncia di condanna della P.A. al risarcimento dei danni alla vita e alla integrità fisica del dipendente pubblico, verificatisi nell'ambito dell'esercizio dell'attività lavorativa. Esulano, invece, dalla competenza del G.O. tutte le pronunce che dispongono il risarcimento dei danni patiti dai dipendenti pubblici per effetto degli atti di macro-organizzazione e degli altri provvedimenti amministrativi che, anche a seguito della privatizzazione, possono essere emessi dalla P.A. datrice di lavoro. In virtù degli artt. 7 e 30 del Codice del processo amministrativo, deve ritenersi che spettano al G.A. anche le sentenze di condanna della P.A. al risarcimento dei danni nelle materie che residuano nella sua giurisdizione (art. 63, comma 4, d.lgs. n. 165/2001) e, dunque, anche in materia di procedure concorsuali finalizzate all'assunzione. Si è posto, in giurisprudenza, «il problema della possibilità che il G.A. condanni la P.A. al pagamento delle retribuzioni non percepite dal lavoratore che, a seguito dell'annullamento della graduatoria di concorso, risulti tardivamente vincitore. L'orientamento prevalente tende a escludere tale possibilità evidenziando che dall'annullamento della graduatoria deriva, per il soggetto risultante vincitore, il diritto all'assunzione con effetti giuridici retroattivi, ma non anche il diritto di percepire le retribuzioni dal momento della decorrenza della nomina, in quanto non giustificate dalla prestazione di servizio. Non mancano, tuttavia, pronunce in senso contrario le quali, nella prospettiva della tutela aquiliana, riconoscono al ricorrente il diritto al risarcimento del danno corrispondente alle retribuzioni non percepite, derivante dalla tardiva assunzione in servizio, nella sussistenza dei requisiti oggettivi e soggettivi di cui all'art. 2043 c.c.» (Caringella, 673). Ammissibilità del giudizio di ottemperanza per le pronunce del G.O.Al riconoscimento del potere del G.O. di adottare sentenze definitive di condanna, si accompagna il problema dell'esecuzione forzata delle stesse, allorquando impongano alla P.A. un facere infungibile e l'amministrazione non vi porga ossequio. Identica problematica riguarda anche l'esecuzione dei provvedimenti cautelari disposti dal G.O. nel corso del giudizio. Parte della dottrina reputa che il dipendente che abbia ottenuto dal giudice ordinario una sentenza di condanna, a fronte dell'inerzia della P.A. nell'ottemperare agli obblighi di facere imposti, debba accontentarsi della sola tutela sussidiaria di carattere patrimoniale. Egli, dunque, non potrebbe invocare né l'esecuzione forzata innanzi al giudice civile, vertendosi in tema di obblighi aventi ad oggetto un facere infungibile, né l'ottemperanza innanzi al G.A. Tale rimedio, infatti, non sarebbe esperibile avverso la P.A. che agisce non in veste di autorità, ma secondo le regole di diritto privato. Altra parte della dottrina evidenzia che il rimedio dell'ottemperanza, sebbene sia stato utilizzato maggiormente al fine di garantire l'esecuzione delle sentenze dei giudici amministrativi, è esperibile anche avverso le sentenze dei giudici civili. Esso, infatti, è nato proprio per garantire il rispetto da parte della P.A. degli obblighi di facere imposti dal G.O.. Da ultimo l'art. 112 del Codice del processo amministrativo ha chiarito che il giudizio di ottemperanza può essere attivato anche per l'esecuzione delle sentenze passate in giudicato del giudice ordinario, e, segnatamente, al fine di ottenere l'adempimento dell'obbligo della P.A. di conformarsi, per quanto riguarda il caso deciso, al giudicato (Sassani, 413). Una siffatta soluzione non determina una riattribuzione della giurisdizione del rapporto di pubblico impiego al G.A.: la giurisprudenza tende, infatti, ad escludere che questi, in sede di ottemperanza, possa adottare statuizioni integrative del giudicato promananti dal giudice civile. Piuttosto, essa consente al G.A. di nominare un commissario ad acta che sostituisca la P.A. inerte. Non è mancato chi ha sostenuto l'inutilità del rimedio dell'ottemperanza in tema di pubblico impiego, in virtù della considerazione secondo cui, essendo l'attività della P.A. retta dai criteri di cui all'art. 97 Cost., anche allorquando essa veste i panni di datrice di lavoro, tutti gli obblighi di facere su di essa gravanti sono fungibili. Ne consegue che l'esecuzione delle sentenze che condannano la P.A. ad un facere è possibile attraverso il rimedio dell'esecuzione forzata (Police, 925). Per tale tesi cfr. anche Trib. Catania, sez. lav., ord. 18 aprile 2001. La tutela reale del dipendente pubblico.L'art. 21 del d.lgs. n. 75/2017 (attuativo della legge delega Madia) ha disciplinato le conseguenze del licenziamento illegittimo dei dipendenti pubblici, stabilendo che trovi sempre applicazione la cd. tutela reale. A tal fine, il legislatore delegato ha integrato la parte finale del comma 2 dell'art. 63. Il nuovo articolato specifica che «il giudice, con la sentenza con la quale annulla o dichiara nullo il licenziamento, condanna l'amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell'effettiva reintegrazione». Viene fissato un limite massimo all'indennità, determinata in «misura non superiore alle ventiquattro mensilità». Dall'importo va dedotto «quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative». Ciò secondo il tradizionale criterio dell'aliunde perceptum. La norma precisa ulteriormente che «il datore di lavoro è condannato, altresì, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali». La novella del 2017 interviene dopo che sul tema del licenziamento dei pubblici dipendenti si è sviluppato un ampio dibattito in relazione all'interrogativo sull'applicabilità dell'art. 1, comma 42, della l. n. 92/2012 (c.d. «legge Fornero»), modificativo dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che ha introdotto un nuovo sistema di rimedi contro il licenziamento illegittimo, nel quale la tutela reale (reintegrazione nel posto di lavoro) non è più regola generale (Magri, 527). Sul punto, cfr. Cons. St. comm. spec., n. 916/2017, secondo cui il legislatore delegato del 2017 ha operato con «l'intento chiaro di escludere l'applicazione delle regole del lavoro privato a quello pubblico per quanto attiene alla disciplina del licenziamento, e ha [...] recepito la formulazione del «vecchio» art. 18 Stat. lav. La nuova disciplina si riferisce ad ogni tipo di licenziamento, non solo quello disciplinare, ma anche quello per giusta causa e per giustificato motivo o le altre ipotesi previste dalla contrattazione collettiva: il legislatore ha ritenuto inadeguata la sola tutela indennitaria per la tutela del pubblico dipendente, riconoscendogli nel caso di licenziamento dichiarato nullo o annullato (ma non già di dimissioni volontarie, in esito alle quali non esiste un «diritto soggettivo alla riammissione», Cass., sez. lav., n. 6779/2017), il diritto alla reintegrazione nel posto. Ciò appare conforme a quanto rilevato dal Giudice delle leggi, secondo cui, a differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente o un dipendente dall'incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro «è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi» (Corte cost., 24 ottobre 2008, n. 351), con la conseguenza che sul piano degli strumenti di tutela, che «forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi» (così, ancora, Corte cost., n. 351/2008)». Annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalitàLa seconda integrazione prodotta dall'art. 21 del d.lgs. n. 75/2017 è l'inserimento, sempre nel corpo dell'art. 63 del decreto 165, di un nuovo comma 2-bis. Esso affronta il tema dell'annullamento giudiziario delle sanzioni disciplinari che abbiano violato il principio di proporzionalità. Giova ricordare che tale principio impone, in generale, all'amministrazione di adottare un provvedimento non eccedente a quanto è opportuno e necessario per conseguire lo scopo prefissato. Esso ha trovato frequente applicazione nella giurisprudenza della Corte costituzionale, per lo più richiamandolo unitamente al principio di ragionevolezza. Nello specifico, il Giudice delle leggi ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli automatismi sanzionatori previsti dalla legge, nella misura in cui conducono all'irrogazione di sanzioni amministrative e disciplinari senza consentire il giusto e adeguato proporzionamento della sanzione all'addebito (cfr., ad es., Corte cost., n. 297/1993 e n. 220/1995). Secondo quanto ora disposto dal legislatore delegato del 2017, nel caso di annullamento della sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità, «il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni normative e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato». Si è così preferito conservare gli esiti processuali dell'accertamento dell'illecito e di demandare direttamente al giudice la fissazione della nuova misura della sanzione, senza dover ripetere l'intero procedimento disciplinare. Come rimarcato dal parere Cons. St. comm. spec., n. 916/2017, una volta che l'esistenza dell'illecito è ormai incontestata, così come il suo tempestivo e legittimo perseguimento in sede disciplinare, e che resta soltanto da stabilire una sanzione più proporzionata – in ossequio al principio utile per inutile non vitiatur è «più semplice, più economico, più efficace evitare lo svolgimento ex novo di un secondo procedimento disciplinare e affidare direttamente al giudice, che ha già verificato la sussistenza dell'illecito, la possibilità di graduare egli stesso la sanzione, comminando quella (più mite) prevista dalla legge o dalla contrattazione collettiva». Ciò, quindi, «intervenendo adeguatamente sul tessuto normativo di cui all'art. 63, comma 2, del medesimo d.lgs. n. 165/2001, secondo cui il giudice adotta nei confronti delle pubbliche amministrazioni tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Naturalmente, in sede di difesa in giudizio, l'amministrazione pubblica potrà far presente al giudice tutte le sue ragioni per indurlo a rimodulare nel modo più adeguato possibile la sanzione disciplinare: tale possibilità appare, si ripete, di efficacia analoga ma ben più semplice ed economica della rinnovazione dell'intero procedimento disciplinare (anche per l'ulteriore ma non ultima ragione che in tal modo si disattiva altresì un secondo, probabile contenzioso per violazione del primo giudizio)». Neppure sembrano ostare alla soluzione scelta dal legislatore delegato questioni di ordine giuridico-sistematico. Nella specie, non può configurarsi un inammissibile sconfinamento del potere giurisdizionale in quello dell'amministrazione, attesa la natura paritetica della posizione del pubblico dipendente rispetto a quello dell'amministrazione. Né potrebbe ipotizzarsi ragionevolmente una minore tutela del dipendente nel procedimento giurisdizionale rispetto a quello disciplinare/amministrativo. In definitiva, la possibilità, per il giudice, di modulare le sanzioni irrogate dall'amministrazione (come per esempio nel caso degli illeciti amministrativi) rappresenta attuazione di un fondamentale principio costituzionale, quello di una tutela giurisdizionale piena ed effettiva, del resto già esplicitata dallo stesso tenore letterale dell'art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165 (Galetta, 54). Il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali.Fino al 1998 la violazione o la falsa applicazione delle clausole dei contratti collettivi di lavoro non costituiva motivo di ricorso per Cassazione e non dava vita ad un sindacato diretto della Suprema Corte, dal momento che, trattandosi di ricercare la volontà delle parti contraenti, si era in presenza di una indagine su una questione di fatto, riservata al giudice di merito. Sicché poteva accadere che i giudici di merito pervenissero ad opposte interpretazioni di una stessa clausola del contratto o dell'accordo collettivo nazionale e che la Corte di Cassazione le ritenesse entrambe valide, perché immuni da vizi della motivazione o dei canoni ermeneutici legali. Il quadro normativo muta significativamente con il d.lgs. n. 80/1998, allorquando viene modificato l'art. 68 del d.lgs. n. 29/1993, tra l'altro con l'introduzione del 5° comma, ora trasfuso nel corrispondente comma 5 dell'art. 63 del decreto n. 165. Viene, così, introdotto il ricorso per cassazione per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro nelle controversie rientranti nella giurisdizione ordinaria in materia di pubblico impiego contrattualizzato (il rinvio è ai commi 1- 3 dell'art. 63 del decreto n. 165), nonché nel caso di cui al successivo art. 64, comma 3, relativo alle controversie individuali di lavoro nelle quali risulta emessa sentenza che ha risolto in via pregiudiziale la sola questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale. La ratio «della previsione in esame è stata individuata nelle peculiarità che appunto contrassegnano il contratto collettivo nazionale di lavoro dei pubblici dipendenti e nell'obbligo che incombe sulla pubblica amministrazione di osservare il contratto collettivo, obbligo che viene a realizzare sia pure indirettamente una specie di estensione erga omnes della disciplina pattuita. In diverse parole, proprio in considerazione della circostanza che le clausole dei contratti e degli accordi nazionali collettivi di lavoro hanno una portata generale e quindi si applicano ad una moltitudine di soggetti, da un lato, e che la poca chiarezza delle clausole contenute nei contratti collettivi può dare vita a controversie seriali e quindi ad un altro numero di controversie giudiziali, dall'altro, hanno sollecitato il legislatore nel 1998 a introdurre la previsione suindicata, affinché la funzione nomofilattica propria della Cassazione potesse esplicarsi in quei casi nei quali vengono in discussione clausole aventi portata generale e riguardanti un alto numero di soggetti, finendo così per garantire la certezza dell'interpretazione di tali clausole e per limitare il contenzioso di serie». Con il d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il legislatore ha, poi, esteso un analogo meccanismo al settore privato (Liuzzi, 622). Come precisato da Cass. sez. lav., n. 22234/2007, nelle controversie di lavoro concernenti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ai sensi dell'art. 63, comma 5, del decreto n. 165, la Corte di Cassazione può procedere alla diretta interpretazione dei contratti e accordi nazionali, secondo i criteri di cui agli art. 1362 c.c. e ss., procedendo eventualmente all'esame, ai sensi dell'art. 1363 c.c., anche di clausole che non hanno formato oggetto di censure da parte del ricorrente. Per Cass. sez. lav., n. 13802/2017, “ai sensi del d.lgs. n. 165/2001, art. 63 e dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal d.lgs. n. 40/2006, la denuncia della violazione e falsa applicazione dei contratti collettivi di lavoro è ammessa solo con riferimento a quelli di carattere nazionale, per i quali è previsto il particolare regime di pubblicità di cui al d.lgs. n. 165/2001, art. 47, comma 8, mentre i contratti integrativi, attivati dalle amministrazioni sulle singole materie e nei limiti stabiliti dal contratto nazionale, tra i soggetti e con le procedure negoziali che questi ultimi prevedono, se pure parametrati al territorio nazionale in ragione dell'amministrazione interessata, hanno una dimensione di carattere decentrato rispetto al comparto, con la conseguenza che la loro interpretazione è riservata al giudice di merito, ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizio di motivazione, nei limiti in cui questi rilevano secondo la normativa processuale applicabile ratione temporis» (in termini, Cass. sez. lav., n. 24701/2021). Ancora, «quando la corte di cassazione accoglie il ricorso per violazione o falsa applicazione di disposizioni dei contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, decide la causa nel merito applicando in via analogica l'art. 384, 1° comma, c.p.c., atteso che sarebbero contraddetti i principi di ragionevolezza ed economicità se la corte cassasse con rinvio nei casi in cui la decisione del merito della causa dipende interamente dall'interpretazione di una clausola contrattuale» (Cass. sez. lav., n. 4714/2005). BibliografiaCaringella, Manuale di diritto amministrativo, Roma, 2021, 609; Galetta, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; Liuzzi, La Corte di Cassazione e la violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, in Dalfino (a cura di), Scritti in onore di Maurizio Converso, Roma, 2016, 619; Magri, Sciogliere o recidere il nodo dell'applicabilità dell'art. 18 Stat. lav. al settore pubblico?, in Giornale di dir. amm., 2016, 4, 527; Matteini, Talamo, Il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80; completamento della riforma del lavoro pubblico in attuazione della delega contenuta nella legge 59/1997. Prime analisi, in Il lavoro nelle p.a., 1998, 2, 374; Police, Inottemperanza della p.a. ai provvedimenti del giudice ordinario (in materia di pubblico impiego) ed esecuzione in forma specifica, in Dir. proc. amm., 2003, 925; Sassani, Giurisdizione ordinaria, poteri del giudice ed esecuzione della sentenza nelle controversie di lavoro con la pubblica amministrazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1999, 413; Sordi, I confini della giurisdizione ordinaria nelle controversie di pubblico impiego, in Arg. dir. lav., 1999, 175. |