Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 1 - Principi generali dell'attività amministrativa1.

Luigi Tarantino

Principi generali dell'attività amministrativa1.

 

1. L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri di economicità, di efficacia, di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti, nonché dai principi dell'ordinamento comunitario2.

1-bis. La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente3.

1-ter. I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1, con un livello di garanzia non inferiore a quello cui sono tenute le pubbliche amministrazioni in forza delle disposizioni di cui alla presente legge4.

2. La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria.

2-bis. I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai principi della collaborazione e della buona fede.5

[5] Comma aggiunto dall'articolo 12, comma 1, lettera 0a), del D.L. 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla Legge 11 settembre 2020, n. 120.

Inquadramento

L'attività amministrativa coincide con l'insieme delle attività dirette alla cura in concreto dell'interesse pubblico, sia che si svolgano secondo moduli autoritativi, sia che si svolgano secondo moduli privatistici.

La circostanza che si tratti di azioni soggettivamente imputabili alla p.a. (e, quindi a soggettività amministrativa) le rende funzionalmente piegate all'interesse pubblico. Per questo, si tratta di attività mai libere e pienamente autonome ma sempre vincolate, perché obbedienti al perseguimento di un fine pubblico, con la conseguente applicazione dei canoni dell'art. 97 Cost.

Fuoriescono invece dalla nozione di attività amministrativa gli atti politici, che, essendo liberi nei fini, non sono qualificabili come atti amministrativi: non a caso essi non soggiacciono al controllo del g.a. anche all'indomani dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo.

La l. n. 241/1990 contiene la disciplina generale del procedimento amministrativo e rappresenta una disciplina che si applica ove non diversamente disposto a tutte le tipologie dei procedimenti amministrativi, raffigurando un archetipo che vincola l'attività dell'amministrazione nel suo svolgimento.

La l. n. 241/1990 si apre con la definizione, all'art. 1, dei principi che regolano l'attività amministrativa e che devono presiedere ed ispirare l'intero agere della p.a.

L'incidenza dei principi giuridici sull'attività della p.a., consacrata dall'art. 1, ed ancor prima, ma in misura ridotta, dall'art. 97 Cost., rappresenta un traguardo rispetto ad un non breve cammino compiuto dagli ordinamenti di civil law nel corso del XX secolo. La separazione netta tra norme giuridiche e regole sociali vacilla nell'elaborazione dottrinale francese degli anni venti del secolo scorso ed i criteri di bonne administration et de moralité administrative divengono criteri di valutazione dell'attività amministrativa nella giurisprudenza del Conseil d'Etat, sino ad essere riassorbiti nel concetto di legalità, la cui violazione si manifesta in un'ipotesi di eccesso di potere.

Nel nostro ordinamento questa conclusione tarda ad essere raggiunta e se pure gli studi sulla discrezionalità amministrativa pongono in luce come l'amministrazione nel suo agire non si conformi soltanto a regole giuridiche, ma, secondo la partizione gianniniana, anche a regole morali, sociali, di buona amministrazione, di correttezza amministrativa e a principi politici, non si giunge alla conclusione che tali regole non giuridiche possano diventare parametri di verifica giurisdizionale dell'attività amministrativa, in considerazione del loro carattere elastico. Il superamento di questa posizione si avverte nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, che indica come l'utilizzazione delle regole tecniche o sociali svolga un ruolo fondamentale nell'applicazione delle regole giuridiche ogni qual volta le stesse contengano concetti che a queste fanno riferimento. Ma è grazie agli studi di C. Mortati che, in modo esplicito, vengono indicati quali limiti della discrezionalità amministrativa i principi generali dell'ordinamento. L'obiezione che viene portata a questa tesi fa leva sulla difficile individuazione e sull'assenza di stabilità e certezza dei principi, ma può essere facilmente contrastata sul piano logico. È il rispetto dei principi generali che assicura la conformità dell'azione amministrativa alle regole sociali o di esperienza. Inoltre a seguito dell'introduzione dell'art. 1, l. n. 241/1990, la tesi sopra esposta può essere confutata anche sul piano del diritto positivo. La norma in commento, infatti, individua in modo puntuale i principi ai quali l'azione amministrativa deve conformarsi, prevedendo un'indicazione tassativa per quelli nazionali ed operando un rinvio recettizio per quelli di derivazione comunitaria, a conferma dell'integrazione che caratterizza i due ordinamenti.

I principi dell'azione amministrativa (comma 1)

Il comma 1 dell'art. 1, come detto, consacra esplicitamente i principi ai quali deve conformarsi la p.a. nello svolgimento dell'attività amministrativa. Si tratta di principi generali che ricadono sotto il più ampio ombrello dei principi di rilievo costituzionale: legalità, imparzialità, buon andamento. Il primo, benché espressamente ribadito dal legislatore ordinario, viene implicitamente desunto da una pluralità di disposizioni costituzionali, quali l'art. 23 e l'art. 101 Cost. I rimanenti sono oggetto di espressa affermazione da parte dell'art. 97 Cost.

Il principio di legalità

Ai sensi dell'art. 97 Cost. «i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione». Sebbene la norma si riferisca espressamente al solo profilo organizzativo, è stata, da taluno, ritenuta il fondamento costituzionale del principio di legalità, insieme ad altre norme contenute nella Costituzione (artt. 13 e 23 Cost., che stabiliscono delle riserve di legge; artt. 24 e 113 Cost., che, nel prevedere un controllo dell'autorità giudiziaria sull'attività amministrativa, presuppongono che la stessa non possa svolgersi in contrasto con le prescrizioni di legge).

Nella nostra Carta Fondamentale, infatti, manca un riferimento esplicito al principio di legalità, che invece si rinviene nel dettato del comma 1 della norma in commento, la quale stabilisce che «L'attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta da criteri (...) secondo le modalità previste dalla presente legge e dalle altre disposizioni che disciplinano singoli procedimenti»; essa prevede un rapporto diretto tra azione amministrativa e rispetto del dato normativo.

Per lungo tempo il principio in parola è stato inteso quale limite imposto all'attività amministrativa, la cui affermazione comportava il definitivo abbandono dell'opposta teoria della libertà dell'amministrazione.

Così nel primo chiaro riconoscimento del principio di legalità, è stata proposta una formula secondo la quale: «mentre l'individuo può fare tutto ciò che non gli è espressamente vietato, l'amministrazione può fare soltanto ciò che la legge espressamente gli consente». Ciò comporta che l'amministrazione, anche nell'esercizio del potere amministrativo discrezionale, incontra sempre due limiti prefissati dal legislatore: il fine pubblico per il quale il potere deve essere esercitato e l'individuazione del plesso amministrativo titolare del potere. Questo traguardo, però, non si traduce nella configurazione di un'amministrazione mera esecutrice dei comandi legislativi, né equipara le relazioni giuridiche tra cittadino ed amministrazione a quelle tra privati. La specialità del diritto rivolto agli apparati amministrativi sopravvive e, con essa, la supremazia del potere dell'amministrazione, alla quale fa da contraltare una tutela giurisdizionale fondata sull'interesse legittimo, che già agli inizi si configura quale figura riflessa, indiretta conseguenza di un comando rivolto all'amministrazione. Pur nel vigore del principio di legalità, che nega la libertà dell'amministrazione, la povertà contenutistica delle norme che ne disciplinano l'attività rimette alla stessa amministrazione il compito di regolare in concreto il conflitto tra amministrazione e cittadino. Il principio di legalità viene, quindi, apprezzato, agli inizi, nella sua dimensione formale. Pertanto, il legislatore, in questa relazione di sovraordinazione rispetto all'amministrazione, indirizza a quest'ultima una disciplina, incontrando soltanto i limiti imposti dalla Costituzione, dai trattati internazionali e dal diritto comunitario.

Il principio di legalità che connota l'azione dei pubblici poteri nella sua dimensione formale va letto, quindi, in una duplice declinazione: a) in senso proprio, secondo cui non può darsi esercizio legittimo di potere senza che sussista una specifica fonte legislativa legittimante; b) ma anche nel senso che, ove detta fonte legislativa sussista e, come nella fattispecie oggetto di causa, l'esercizio del potere (sanzionatorio) sia vincolato al verificarsi di taluni presupposti fattuali, l'Amministrazione non potrebbe, dopo aver riscontrato la ricorrenza delle condizioni previste dalla legge, sottrarsi legittimamente al suo esercizio.

Negli anni, tuttavia, tale modello, staticamente ancorato alla conformità estrinseca dell'atto amministrativo al dato normativo, è stato superato in favore di una concezione del principio di legalità inteso in senso sostanziale. È ormai pacifico, infatti, che il principio in commento imponga la conformità di tutta l'azione amministrativa non soltanto alle prescrizioni normative espresse (legge formale), ma anche ai valori di efficacia, efficienza, adeguatezza che promanano dall'intero corpus normativo, nonché alle norme diverse dalla legge, ancorché alla stessa collegate (regolamenti, statuti e così via).

Questa impostazione, peraltro, trova conferma nella nuova previsione di cui all'art. 21-octies. La norma, infatti, sancisce la non incidenza di vizi (e non già mere irregolarità) formali, la cui correzione non muterebbe il contenuto del provvedimento. In questo modo il legislatore della novella fornisce una chiave di lettura del principio di legalità inteso non come mera – ed asettica – corrispondenza del provvedimento al dato normativo formale, ma in chiave strumentale, come rispetto del dato formale in ragione del fine in concreto perseguito con l'adozione del provvedimento medesimo (per l'esame completo dell'istituto dei vizi non invalidanti vedi sub art. 21-octies).

I corollari applicativi di tale impostazione sono molteplici: essi si annidano principalmente nella tipicità dei provvedimenti amministrativi, ordinariamente non ammessi al di fuori dei casi previsti e disciplinati dalla legge, nella possibilità di portare a esecuzione coattivamente i provvedimenti solo nei casi espressamente previsti dalla legge, ex art. 21-ter l. n. 241/1990 (cui si fa rinvio), nell'eccezionalità degli atti amministrativi ammessi a formare certezza legale privilegiata solo nei casi previsti ex lege (Garofoli, Ferrari, 542).

Con particolare riferimento al principio di tipicità degli atti amministrativi, la giurisprudenza ha sottolineato come esso sia in stretta relazione con il principio di legalità inteso come limite all'attribuzione di poteri autoritativi: nello specifico, è stato affermato che «il principio di tipicità degli atti e dei provvedimenti amministrativi comporta che l'Autorità amministrativa ha il potere di emanare solo atti disciplinati nel contenuto, nei presupposti e nell'oggetto dalla legge, sicché non sarebbe ammissibile un provvedimento negatorio, incidente sull'attività d'impresa, al di fuori di quello adottato all'esito del procedimento tipico autorizzatorio regolato dalla legge; peraltro, lo stesso principio di tipicità impone che ogni istanza privata volta ad attivare un procedimento amministrativo contenga gli elementi dai quali evincere il tipo di atto richiesto, allo scopo di consentire all'Amministrazione di svolgere una completa ed adeguata istruttoria alla luce degli elementi caratterizzanti il procedimento attivato.» (Cons. St. IV, n. 5663/2015).

Dal principio di legalità e corrispondente soggezione dell'amministrazione alla legge consegue che qualunque manifestazione dell'azione amministrativa sia sottoposta al controllo da parte della competente autorità giurisdizionale, al fine di verificarne la conformità normativa, anche sotto il profilo della logica e ragionevolezza (così Cons. St. V, n. 4207/2005). Il principio di legalità è, inoltre, alla base della regola della irretroattività dell'azione amministrativa limitativa della sfera giuridica del privato: in tal modo si vuole evitare che la p.a., con decisione unilaterale, possa incidere con effetto ex ante sulle situazioni giuridiche soggettive (cfr. Cons. St. VI, n. 4301/2008).

Il principio di legalità e quello di buon andamento dell'azione amministrativa risultano legati anche sotto un altro profilo individuato efficacemente dalla Corte costituzionale, che ha chiarito come la buona fattura delle nome incide in modo significativo sulla capacità dell'organizzazione amministrativa di raggiungere gli obiettivi assegnategli dal legislatore.

Esemplare la pronuncia della Corte cost. n. 70/2013, secondo la quale: «Non è conforme all'art. 97 della Costituzione l'adozione, per regolare l'azione amministrativa, di una disciplina normativa foriera di incertezza, posto che essa può tradursi in cattivo esercizio delle funzioni affidate alla cura della pubblica amministrazione.

Il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate, quand'anche si manifesti nell'ambito delle ipotesi tipiche e molto limitate che l'ordinamento costituzionale tollera, rientra in linea generale in questa fattispecie, perché può generare conseguenze imprevedibili, valutabili anche con riguardo all'obbligo del legislatore di assicurare il buon andamento della pubblica amministrazione».

I principi di economicità, efficacia ed efficienza.

Il secondo principio al quale la norma in commento assoggetta l'azione amministrativa è quello di economicità, il quale vincola la p.a. all'uso accorto delle proprie risorse, che si traduce nell'obbligo di perseguire i propri obiettivi con il minor impiego possibile dei mezzi a disposizione, personali, finanziari e procedimentali. Ne consegue che la p.a., nell'esercizio della sua attività, è chiamata a razionalizzare l'impiego delle risorse umane e materiali, in modo da evitare sprechi e al contempo ottimizzare i risultati.

Analogamente, il principio di efficacia indica il rapporto tra risultati ottenuti ed obiettivi prestabiliti ed esprime l'esigenza che l'amministrazione adotti tutte le misure che appaiono più idonee a conseguire i propri obiettivi. Esso, pertanto, attiene al rapporto tra obiettivi prefissati e conseguiti, «ed esprime la necessità che la p.a., oltre al rispetto formale della legge, miri soprattutto al perseguimento nel miglior modo possibile delle finalità ad essa affidate» (Casetta, 387).

Il principio di efficacia involge aspetti particolarmente delicati del contenzioso amministrativo, posto che l'esigenza, prescritta dalla legge, che l'atto amministrativo produca i risultati prestabiliti, confligge necessariamente con l'indefettibile tutela del cittadino a fronte dell'azione amministrativa ove questa, inficiata da vizi di legittimità, sia lesiva di diritti e di interessi. Tale seconda esigenza, peraltro, è diventata sempre più pregnante, non esaurendosi nella semplice possibilità di paralizzare l'azione amministrativa, ma anche di coartarla, modificarla ed adeguarla alle prescrizioni di legge, ottenendo in concreto non solo l'annullamento dell'atto illegittimo, ma anche la cessazione di un comportamento lesivo o l'adozione di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del destinatario.

La sempre maggiore centralità di tali istanze di tutela delle posizioni soggettive dei cittadini, peraltro, ha implicato notevoli riflessi sul crinale processuale: negli anni, invero, si sono accordati al giudice amministrativo sempre maggiori poteri, caducatori, accertativi e di condanna, al fine di consentirgli un sindacato sostanziale sulla spettanza del bene della vita sotteso alle istanze di tutela azionate da cittadino (così T.A.R. Puglia, Bari III, 3 luglio 2008, n. 1613: «Il principio di efficacia dell'azione amministrativa, stabilito dalla l. n. 241/1990, comporta un'indagine più penetrante sull'esercizio della discrezionalità amministrativa, posto che implica una valutazione puntuale del rapporto tra scelte in concreto effettuate e possibili opzioni in relazione agli obiettivi di legge»).

Il principio di efficienza, invece, benché non tipizzato dal legislatore, esprime la necessità che il bilancio tra costi sostenuti e vantaggi ottenuti dia un saldo attivo a favore di quest'ultimi.

In realtà, i principi in parola costituiscono corollario del canone di buon andamento consacrato dall'art. 97 Cost., che impone alla p.a. il conseguimento degli obiettivi legislativamente prefissati con il minor dispendio di mezzi. Si tratta, evidentemente, di criteri gestionali di derivazione economica, che tuttavia operano come parametri di legittimità dell'attività amministrativa, oggetto di verifica in sede giurisdizionale del rapporto tra effettivo beneficio conseguito dalla p.a., mezzi impiegati e costi sopportati.

I principi in questione, peraltro, appaiono fortemente sentiti dal legislatore del 1990, il quale, in attuazione dei criteri di economicità ed efficacia dell'azione amministrativa, stabilisce, al successivo comma 2 dell'art. 1 in commento, il generale divieto alla p.a. di aggravare il procedimento, ossia di compiere atti procedimentali diversi da quelli legislativamente prescritti e di rinnovare quelli precedentemente compiuti, se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria. Applicazione di tale principio può essere considerato lo stesso art. 18 della legge in commento, che vieta alla P.A. di chiedere al privato documenti già in possesso dell'Amministrazione, imponendole, invece, di acquisirli d'ufficio, e ciò al fine di non aggravare inutilmente il procedimento (si veda, sul punto, Cons. St. IV, 16 luglio 2007, n. 4011; T.A.R. Campania, Napoli, VII, 3 aprile 2009, n. 1722. Sul divieto generale di aggravamento del procedimento amministrativo si veda, altresì, Cons. St. V, n. 1293/1996, secondo cui l'Amministrazione, ove possibile, deve preferire la prosecuzione della gara già esistente anziché indirne una nuova).

La giurisprudenza amministrativa più recente ha chiarito, con riguardo alla fattispecie concorsuale, che tutti i summenzionati principi «concorrono ad assicurare che un procedimento sia rispettoso, al contempo, della dignità del cittadino a non subire richieste vessatorie, defatigatorie ed inutili da parte dei pubblici uffici e dell'interesse, privato degli altri candidati e pubblico dell'amministrazione, alla conclusione del procedimento concorsuale in termini ragionevoli e con risultati efficaci» (Cons. St. IV, n. 6948/2009).

Il principio di imparzialità e di buon andamento.

La l. n. 69 del 2009 ha inserito tra i canoni posti a presidio dell'attività amministrativa il principio di imparzialità. In tal modo il legislatore ha evidenziato, in ossequio alle conclusioni da tempo rassegnate da dottrina e giurisprudenza, che il precetto costituzionale di cui all'art. 97 Cost. («I pubblici uffici sono organizzati in modo che siano assicurati il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione») non tocca solo l'organizzazione, ma anche l'azione della P.A., tenuta a dispiegarsi in modo da non compromettere e discriminare i soggetti coinvolti nell'azione amministrativa (Corte cost. n. 234/1985; Corte cost., n. 333/1993; in dottrina, v. Garofoli, Ferrari, 548). La scelta legislativa, tuttavia, nel consacrare espressamente, con la funzione programmatica propria della norma in commento, l'assoggettamento dell'azione amministrativa ad un principio già ritenuto pacificamente ineludibile, in quanto contenuto nell'art. 97 Cost., rischia di risolversi in un'operazione pleonastica, che nulla aggiunge e nulla toglie rispetto all'affermazione del principio di imparzialità a livello costituzionale.

Il principio in commento va letto in una duplice accezione; da un lato, ne va evidenziato il contenuto negativo, in quanto esso, come innanzi detto, si sostanzia nello svolgimento dell'attività pubblica in guisa da non discriminare i soggetti coinvolti nell'azione amministrativa; dall'altro, nella sua accezione positiva, il principio in questione implica – ed impone – la (positiva) valutazione esauriente di tutti gli interessi (pubblici e privati) suscettibili di incisione da parte dell'amministrazione pubblica, onde evitare che le determinazioni assunte da quest'ultima siano solo parziali e «sbilanciate» in favore di taluni interessi. È evidente, pertanto, come la corretta applicazione del principio in esame imponga di considerare la p.a. essa stessa parte, in situazione di parità con i cittadini ai quali si rivolge. Si è anche ritenuto che l'imparzialità dell'amministrazione possa essere assicurata solo se si allontana dagli schemi tradizionali imposti dalla sua dirigenza politica: per questo, all'esito di un lungo iter che aveva interessato anche la Consulta (Corte cost. n. 453/1990, in tema di composizione di commissioni giudicatrici nella scelta dei pubblici funzionari), si è giunti alla netta separazione tra dirigenti e politici nel pubblico impiego (cfr. artt. 16 ss. d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165). In questa prospettiva, l'imparzialità «organizzativa» si persegue con la predeterminazione della struttura e delle funzioni affidate ad ogni singolo organo e ufficio ed è per questo che si è soliti sostenere che le concrete applicazioni dell'imparzialità, sotto il profilo dell'organizzazione, concernono le attribuzioni di «interventi puntuali» ad organi non politici; ma imparzialità significa anche «agire nell'interesse collettivo», ricollegandosi così al suo collaterale principio di buon andamento.

Tale stato di cose, peraltro, era già stato lucidamente fotografato dalla dottrina più tradizionale: «ciò che è necessario è un riesame del concetto della persona dello Stato, per rendersi conto che questo non è un soggetto astratto, uno schema, e, in definitiva, una finzione costruita al fine di ricondurre ad unità le varie attività statali, finzione della quale si può anche fare a meno, come inutile ipostasi; ma un soggetto che impersona la realtà concreta e vivente di una collettività umana giuridicamente ordinata a Stato e che agisce normalmente per mezzo di persone che non sono organi ma rappresentanti veri e propri, e quindi personalmente e responsabilmente investiti dell'esercizio di poteri spettanti al popolo, sul quale, poi, in definitiva, ricadono, e non astrattamente, gli effetti favorevoli o sfavorevoli della loro attività» (Italia, Bassani, 26).

In definitiva, dunque, il principio di imparzialità impone di individuare tutti gli interessi coinvolti nel procedimento, di considerarli puntualmente e comparativamente, in modo tale che la scelta concreta sull'an e sul quomodo dell'agire amministrativo sia il risultato di un'esatta e completa ponderazione di interessi. In tale ottica la manifestazione più completa ed esaustiva del principio in commento è la stessa procedimentalizzazione dell'attività amministrativa, locus naturalmente e precipuamente deputato al confronto dialettico e trasparente di tutti gli interessi attinti dall'agire amministrativo.

Precipitato di tali affermazioni di principio è la responsabilità della p.a. e segnatamente quella dirigenziale, disciplinare e risarcitoria (sul tema vedi sub art. 6-bis e 7).

I corollari applicativi che discendono dal principio in commento sono i seguenti:

- l'ammissione di tutti i soggetti, indiscriminatamente, al godimento dei pubblici servizi;

- il divieto di qualsiasi favoritismo e l'illegittimità degli atti amministrativi emanati senza aver valutato tutti gli interessi pubblici e privati esistenti;

- la predeterminazione dei criteri e delle modalità cui le amministrazioni si debbono attenere nelle scelte successive, il che consente di diversificare la rispondenza delle scelte concrete ai criteri che l'amministrazione ha prefissato (c.d. autolimite: a titolo esemplificativo si richiama il disposto di cui all'art. 12 della l. n. 241/1990 in tema di sovvenzioni, contributi e sussidi).

- l'obbligo, per i funzionari, di astenersi dal partecipare a quegli atti in cui essi abbiano, direttamente o per interposta persona, un qualche interesse;

- il diritto, per i cittadini (correlativo all'obbligo di astensione), di ricusare il funzionario nei casi in cui questi debba decidere su questioni in cui è personalmente interessato. Si tratta, più precisamente, di un onere di ricusazione, per cui le parti interessate che non vi hanno adempiuto non potranno poi impugnare l'atto per il solo fatto della partecipazione di quella persona che poteva essere ricusata. Ciò non esclude, tuttavia, la possibilità di impugnativa del provvedimento per un vizio derivante da quella partecipazione.

- i criteri tecnici ed imparziali di composizione delle commissioni giudicatrici di concorsi e gare pubbliche.

Più generalmente, non pare azzardato affermare (Caringella, 934) che l'imparzialità trova diretta esplicazione nel procedimento amministrativo, o, meglio, che lo stesso procedimento nasce per garantire l'imparzialità della P.A., assicurando l'integrità del contraddittorio, la completezza dell'istruttoria, l'obbligo della previa determinazione dei criteri di massima per l'attribuzione di sussidi e altre erogazioni, il rispetto dei criteri prefissati, la motivazione degli atti, la loro pubblicità.

La giurisprudenza ha peraltro affermato che il principio di imparzialità costituisce un parametro di valutazione della legittimità dell'azione amministrativa, in quanto esso si sostanzia «in una declinazione, sul versante ordinamentale, del principio di uguaglianza, scolpito dall'art. 3 della Costituzione. Del principio di imparzialità sono dunque predicabili l'immanenza e la pervasività, di guisa che la violazione del canone costituzionale può venire in rilievo anche in fattispecie sprovviste di tipizzazione normativa» (Cons. St. V, n. 2070/2009).

Strettamente connesso al principio di imparzialità è quello di ragionevolezza, che impone alla p.a. di seguire un «canone di razionalità operativa» nello svolgimento della propria azione (Garofoli, Ferrari, 551), onde evitare decisioni arbitrarie ed irrazionali. L'obbligo di ragionevolezza, pertanto, comporta che l'attività procedimentale e provvedimentale sia immune da censure sotto il profilo logico e rispettosa della realtà dei fatti. Deve evidenziarsi, peraltro, come la violazione del principio in commento può ripercuotersi finanche sulla validità del provvedimento amministrativo, sub specie di indice sintomatico dell'eccesso di potere, ove si traduca in un difetto di motivazione o in una disparità di trattamento di situazioni analoghe (sul tema, vedi il commento sub art. 21-octies).

Quanto all'applicazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità come limite alla facoltà delle stazioni appaltanti di richiedere nel bando di gara requisiti di qualificazione e partecipazione ulteriori a quelli espressamente stabiliti dalla legge, vedi Cons. St. IV, 28 aprile 2008, n. 1860; T.A.R. Liguria, sezione II, 27 maggio 2009, n. 1238; più in generale sul principio di ragionevolezza nelle gare pubbliche cfr. T.A.R. Lazio, Roma III-quater, n. 10365/2009; per le inevitabili ricadute in termini di non aggravamento del procedimento cfr. T.A.R. Trentino-Alto Adige, n. 147/2008.

Il principio di imparzialità ex art. 97 Cost., proprio delle amministrazioni classiche, va distinto dal concetto di neutralità, proprio delle autorità indipendenti (Garofoli, Ferrari, 548). I due termini, pur se simili e spesso adoperati in modo disinvoltamente promiscuo, sono indicativi di concetti diversi.

Il termine imparzialità, infatti, esprime l'esigenza che l'amministrazione, nell'agire al fine del perseguimento dell'interesse pubblico primario che costituisce l'obiettivo di fondo, si comporti nei confronti dei destinatari dell'agere amministrativo, senza dar luogo a discriminazioni arbitrarie. Il canone costituzionale di lealtà ed equità comportamentale impone, cioè, che l'amministrazione, a patto di non perdere di mira il fine dell'ottimale perseguimento dell'interesse pubblico, si comporti equamente nella tutela degli altri interessi, pubblici e privati, in gioco, evitando sacrifici non imposti dall'interesse pubblico primario. Imparzialità, dunque, non significa disinteresse ed indifferenza, ma, al contrario, equità comportamentale sulla premessa del carattere interessato dell'azione amministrativa, volta alla cura di interessi pubblici concreti.

La neutralità, per converso, afferisce ad «un'attività che si svolge in posizione di estraneità ed indifferenza rispetto alla materia e agli interessi dei soggetti nei cui confronti opera» (Sandulli, 200): in altri termini, la neutralità indica l'indifferenza dell'amministrazione indipendente rispetto ai protagonisti degli interessi confliggenti, il suo essere terza, e quindi in qualche modo giudice, nelle situazioni da regolare. Di qui la veste di arbitro, o, in certi settori, magistrato economico, non condizionato politicamente ad un vincolo di preferenza nella regolazione degli interessi, tutti sullo stesso piano, ivi compresi quelli pubblici, rispetto all'esigenza cogente del rispetto della legge.

I principi di pubblicità e trasparenza.

Con il principio di pubblicità il legislatore sconfessa definitivamente il dogma della impenetrabilità ed incontrollabilità dell'agere amministrativo, consacrando il modello di un'amministrazione improntata a criteri di informazione e di pubblicità nei confronti degli utenti, con il conseguente, generale obbligo per tutte le p.a. di rendere conoscibile la propria attività da parte di qualunque interessato.

Fino all'emanazione della l. n. 241/1990, in realtà, la pubblicità dell'azione amministrativa era ritenuta principio di natura squisitamente settoriale, relativo solo ai procedimenti amministrativi, i quali, in ragione della loro particolare pervasività nei confronti dei cittadini, erano espressamente assoggettati ex lege all'obbligo di rendere conoscibile l'intero iter procedimentale. Con la l. n. 241/1990, invece, il principio in questione viene consacrato a livello generale, quale diretta conseguenza della natura pubblica del potere esercitato dalla p.a. Un approdo, quello italiano, assolutamente tardivo rispetto all'esperienza secolare dei paesi scandinavi e della decennale esperienza maturata negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia ed imposto già prima del varo della l. n. 241/1990 in molti settori dalla disciplina di derivazione comunitaria.

Le applicazioni più significative del principio in commento sono rinvenibili nella stessa l. n. 241/1990: si pensi, ad esempio, all'obbligo di rendere noto il termine entro il quale deve essere concluso il procedimento (art. 2), all'obbligo di rendere pubbliche le disposizioni adottate dalle amministrazioni in merito alle determinazioni dell'unità organizzativa responsabile dell'istruttoria e di ogni altro adempimento procedimentale, nonché dell'adozione del provvedimento finale (art. 4); all'obbligo di comunicare l'unità organizzativa competente ed il nominativo del responsabile del procedimento (art. 5); alla comunicazione di avvio del procedimento (art. 7), per assicurare visibilità all'azione amministrativa e garanzia del contraddittorio (T.A.R. Toscana, I, n. 62/2008), all'obbligo di consentire agli interessati l'accesso ai documenti amministrativi (art. 22). Un'ulteriore frontiera del principio di pubblicità è stata poi raggiunta con il varo del Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33, contenente la disciplina dell'accesso civico.

Latamente riconducibili al canone in parola sono anche il disposto di cui all'art. 21-bis, che sancisce il carattere recettizio dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica del destinatario, nonché l'art. 21-ter, che consente alla p.a. l'esecuzione coattiva dei provvedimenti amministrativi solo nei casi e con le modalità stabilite dalla stessa legge.

Strettamente connesso al principio di pubblicità è il principio di trasparenza, che, intesa quale conoscibilità esterna dell'azione amministrativa, assume un significato più ampio rispetto a quello di pubblicità, di tal ché anche in relazione alla loro rilevanza nell'ambito del procedimento i due principi appaiono solo parzialmente sovrapponibili. In quest'ottica, solo la trasparenza, considerata in tutta la sua portata generale, è idonea «ad esprimere con specificità e adeguatezza la ratio di importanti istituti di «garanzia» previsti e disciplinati dalla stessa legge, a cominciare dall'obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi stabilito dall'art. 3» (Albo, 41) (per la cui trattazione si rinvia al relativo commento).

La novella del 2005 ha definitivamente consacrato tale principio come fondamentale nell'azione amministrativa, affiancandolo a quello di pubblicità e sancendone, al contempo, la definitiva affrancazione. Esso costituisce la base per un corretto rapporto con il cittadino, in grado, peraltro, di determinare una diminuzione del tasso di contenzioso, pur nel rispetto del principio di semplificazione e celerità (Cons. St., Ad. plen., n. 5/1997, Corte giust., 6 aprile 2006, C-410/04).

I principi di pubblicità e trasparenza dell'azione amministrativa, inoltre, costituiscono principi cardine del diritto comunitario degli appalti (Cons. St. V, n. 3166/2005) – si pensi, in proposito, all'obbligo di pubblicità delle operazioni di gara; essi sono sanciti già nel Trattato dell'Unione Europea e, in quanto principi generali di tutti i contratti pubblici, sono applicabili direttamente, a prescindere dalla ricorrenza di specifiche norme comunitarie o interne ed in modo prevalente su eventuali disposizioni interne di segno contrario (Cons. St., Ad. plen., n. 1/2008; Cons. St. VI, n. 1856/2008; Cons. St. V, n. 6529/2006; T.A.R. Lazio, Roma I, n. 6346/2009).

I principi in parola, poi, sono stati evocati dalla giurisprudenza come principi ineludibili a presidio del corretto svolgimento delle procedure concorsuali, ove è imposto alle commissioni giudicatrici di rendere percepibile l'iter logico seguito nell'attribuzione dei punteggi.

Uno svolgimento particolarmente interessante e attuale del principio di pubblicità si trova sul confine del rapporto tra utilizzo di metodi decisionali fondati su algoritmi e tutela giurisdizionale. La pubblicità della metodica decisoria dell'amministrazione, infatti, deve essere sempre esternata, al fine di assicurare l'eventuale tutela giurisdizionale del soggetto giuridico la cui sfera sia intercettata dalla decisione amministrativa. La questione si pone in particolare nel caso in cui la decisione amministrativa sia fondata sull'uso di algoritmi. Particolarmente interessante sul punto è la sentenza del Consiglio di Stato dell'8 aprile 2019, n. 2270, secondo la quale: «L'utilizzo di procedure “robotizzate” di decisione della P.A., tramite algoritmi, per quanto legittimo, non può essere motivo di elusione dei princìpi che conformano il nostro ordinamento e che regolano lo svolgersi dell'attività amministrativa. La regola tecnica che governa ciascun algoritmo resta pur sempre una regola amministrativa generale, costruita dall'uomo e non dalla macchina, per essere poi (solo) applicata da quest'ultima, anche se ciò avviene in via esclusiva. L'algoritmo, ossia il software, deve essere considerato a tutti gli effetti come un “atto amministrativo informatico”. La regola algoritmica: – possiede una piena valenza giuridica e amministrativa, anche se viene declinata in forma matematica, e come tale deve soggiacere ai principi generali dell'attività amministrativa, quali quelli di pubblicità e trasparenza, di ragionevolezza, di proporzionalità, etc.; – non può lasciare spazi applicativi discrezionali (di cui l'elaboratore elettronico è privo), ma deve prevedere con ragionevolezza una soluzione definita per tutti i casi possibili, anche i più improbabili; la discrezionalità amministrativa è da rintracciarsi al momento dell'elaborazione dello strumento digitale; – vede sempre la necessità che sia l'amministrazione a compiere un ruolo ex ante di mediazione e composizione di interessi, anche per mezzo di costanti test, aggiornamenti e modalità di perfezionamento dell'algoritmo (soprattutto nel caso di apprendimento progressivo e di deep learning); – deve contemplare la possibilità che sia il giudice a dover svolgere, per la prima volta sul piano “umano”, valutazioni e accertamenti fatti direttamente in via automatica, con la conseguenza che la decisione robotizzata impone al giudice di valutare la correttezza del processo automatizzato in tutte le sue componenti».

I principi di derivazione comunitaria.

Una delle integrazioni maggiormente significative apportate al comma 1 dell'art. in esame dalle novelle del 2005 è costituita dal richiamo al rispetto dei principi comunitari, destinato a estendersi, per un naturale moto ascensionale, anche alle materie non interessate da disposizioni specifiche di derivazione europea.

Detti principi, trasfusi nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (Nizza, 2001), sono ora richiamati dal Trattato della Costituzione Europea presentato e sottoscritto a Roma il 30-31 ottobre 2004. Inoltre, deve evidenziarsi che nel novero dei diritti fondamentali del cittadino europeo (diritti fondamentali della persona), espressi già nella Dichiarazione Europea dei Diritti dell'Uomo, sono compresi quelli riferiti ai rapporti tra individui e p.a. comunitaria.

Deve osservarsi, peraltro, che l'espressione – scaturita dalle modifiche introdotte dalla l. n. 15/2005 e rimasta inalterata dalla novella del 2009 – del nuovo art. 1, comma 1, della l. n. 241/1990, secondo cui l'azione amministrativa è retta «dai principi dell'ordinamento comunitario», viene evocata senza distinguere se si tratti di procedimenti regolati dal diritto comunitario o meno. La scelta operata dal legislatore, anche per la trasversalità delle norme comunitarie, è, dunque, quella di assoggettare ai principi in questione l'intera gamma delle azioni della pubblica amministrazione indipendentemente dal fatto che nel singolo procedimento vi sia o meno applicazione del diritto comunitario (Sgueo).

Il rinvio ai principi di diritto comunitario, così come innanzi tratteggiato, è stato definito da alcuni Autori «mobile», posto che non vi è una predeterminazione tassativa degli stessi, quanto un rinvio «aperto» ai principi elaborati dalla Corte di Giustizia e poi consacrati in parte nella Carta dei Diritti dell'Unione Europea (Casetta, 387).

Proprio tale impostazione «elastica» del rinvio ai principi comunitari, tuttavia, se da un lato consente un continuo ed immediato adeguamento al diritto comunitario vivente, dall'altro comporta la difficoltà di individuare e selezionare, in sede applicativa, quali siano i principi effettivamente rilevanti.

In linea di massima, comunque, può ritenersi che i principi comunitari ai quali la norma fa riferimento siano il principio di buona amministrazione, di precauzione, di consequenzialità, dell'effetto utile, del legittimo affidamento e di sussidiarietà orizzontale. È interessante rilevare, in ogni caso, come molti di essi siano principi già individuati dalle elaborazioni dottrinarie e pretorie ante 1990, che non hanno poi trovato espressa consacrazione nel nuovo art. 1.

Il principio di buona amministrazione.

Il principio di buona amministrazione trova espressa previsione nell'art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, ove sono indicati una serie di diritti riconosciuti in capo all'individuo, destinatario dell'azione amministrativa (Caringella, 938). Nello specifico, la norma in questione prevede che ogni individuo abbia diritto ad un buona amministrazione e ad un trattamento imparziale, equo, ed esercitato entro un termine ragionevole da parte delle p.a. Esso comprende, come esplicitato dal secondo comma dell'art. 41 della Carta, il principio di partecipazione, del contraddittorio, dell'accesso, di motivazione obbligatoria, oltre che al risarcimento dei danni cagionati dalle istituzioni comunitarie nell'esercizio delle proprie funzioni.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha messo in evidenza la duplice valenza del principio in parola: da un lato, esso depone nel senso dell'uniforme rispetto, da parte dei privati coinvolti nei procedimenti amministrativi comunitari, delle regole imposte dall'autorità competente ad assumere la determinazione finale; dall'altro lato, esso comporta che la medesima autorità sia legittimata a consentire la deroga a quelle stesse regole ogni qualvolta ciò appaia conforme all'esigenza di realizzare pienamente l'interesse pubblico (Corte giust., 13 marzo 2007, causa C-29/05).

Il principio di precauzione.

Il principio di precauzione, di genesi piuttosto recente, è stato elaborato dapprima in specifici settori, caratterizzati dalla delicatezza – o dalla debolezza – delle posizioni e degli interessi coinvolti in determinati procedimenti. Le prime applicazioni del principio in parola, invero, hanno riguardato la materia ambientale, consumeristica e della salute pubblica, per poi assurgere solo successivamente a principio generale dell'intera azione amministrativa.

Il principio di precauzione impone, a fronte di situazioni di rischio, l'adozione di provvedimenti di tutela da parte delle p.a. competenti.

Esso implica che la P.A. debba adottare la soluzione idonea e adeguata, comportante il minor sacrificio possibile e il più adeguato equilibrio per i valori, gli interessi e le situazioni giuridiche coinvolte nel procedimento e variamente suscettibili di essere incise dall'azione amministrativa.

Esso si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, con atti sia normativi che amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino in misura superiore (rectius, sproporzionata) a quella strettamente necessaria, nel pubblico interesse, per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo (ovvero adeguato all'obiettivo da perseguire) e necessario (nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile) (T.A.R. Sicilia, Palermo I, n. 461/2015). Il rapporto tra precauzione e prevenzione secondo la miglior dottrina vede il primo al servizio del secondo all'interno di una relazione mezzo-fine. Attraverso il principio di precauzione si cercano di fronteggiare quei rischi derivanti dall'antropizzazione del territorio e dallo sviluppo delle attività tecnologiche. L'affermazione del principio in sé – che se compiuta a tutta oltranza porterebbe di fatto ad un rallentamento, ad una vera e propria sterilizzazione delle iniziative economiche – avviene, invece, sulla scorta di un delicato equilibrio di sintesi, sul piano esegetico e sul piano legislativo.

Al riguardo, la giurisprudenza rileva che siffatto principio «deve armonizzarsi, sul versante della concreta applicazione, con il principio di proporzionalità, non potendo prefigurarsi la prevalenza dell'uno sull'altro, ma dovendosi ricercare un loro equilibrato bilanciamento in relazione agli interessi pubblici e privati in gioco. Conseguentemente tutte le decisioni adottate dalle competenti autorità in materia ambientale devono essere assistite – in relazione, per l'appunto, alla pluralità ed alla rilevanza degli interessi in gioco – da un apparato motivazionale particolarmente rigoroso, che tenga conto di un'attività istruttoria parimenti ineccepibile» (T.A.R. Campania, Napoli V, n. 3727/2009).

Sempre in materia ambientale, il principio di precauzione trova oggi collocazione nell'art. 301 del d.lgs. del 3 aprile 2006, n. 152, secondo cui «in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l'ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione». In quest'ambito, «Il principio di precauzione ambientale comporta l'obbligo delle autorità amministrative competenti di stabilire una tutela anticipata rispetto alla fase di applicazione delle migliori tecniche proprie del principio di prevenzione. Tale anticipazione, è del pari legittima in relazione ad un'attività potenzialmente pericolosa, idonea a determinare rischi che non sono oggetto di conoscenza certa, compresa l'ipotesi di danni che siano poco conosciuti o solo potenziali; rispetto ad una situazione di tal genere, il principio di precauzione impone che l'autorità amministrativa interessata ponga in essere un'azione di prevenzione anticipata rispetto al consolidamento delle conoscenze scientifiche.» (Cons. St. V, n. 2495/2015).

Ulteriore applicazione del principio in esame è contenuta nella disciplina dell'accesso in materia ambientale, che deve essere consentito a chiunque ne faccia richiesta a prescindere dalla dichiarazione dell'interesse sotteso e può avere ad oggetto anche informazioni.

Il principio di proporzionalità

Il principio di proporzionalità, elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, rappresenta uno dei parametri più significativi lungo i quali deve orientarsi l'azione della P.A..

Esso richiede che il mezzo utilizzato dall'amministrazione sia allo stesso tempo idoneo allo scopo perseguito ed efficace in modo proporzionato.

Già nel lontano 1814, autorevole Dottrina affermava che «la seconda regola pratica direttrice dell'amministrazione pubblica è far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità. Ciò è sinonimo di far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della proprietà privata e libertà. Qui la prevalenza della cosa pubblica alla privata non colpisce il fine o l'effetto ma il semplice mezzo» (Romagnosi, 15).

Come recentemente osservato, poi, il vecchio detto tedesco «darf die Polizei mit Kanonen auf Spatzen schiessen?» (per cui, appunto, sparare ai passeri con un cannone significa compiere un'azione palesemente eccessiva rispetto ai fini perseguiti), ha costituito lo spunto per costruire una delle più incisive metafore per un principio, quello di proporzionalità dell'azione dei pubblici poteri, che si è sviluppato principalmente nell'ordinamento tedesco, ma che ha poi trovato una significativa elaborazione anche in ambito comunitario (Caringella, 950).

La proporzionalità è una misura del potere amministrativo ed attiene essenzialmente all'equo rapporto tra mezzo e fine, tra presupposto e conseguenza e, più in generale, tra interessi, pubblici e privati, compresenti.

Il principio in commento, dunque, richiede che la p.a. debba adottare la soluzione idonea ed adeguata, comportante il minor sacrificio possibile ed il più adeguato equilibrio per i valori, gli interessi e le situazioni giuridiche coinvolte nel procedimento e variamente suscettibili di essere incise dall'azione amministrativa. Esso si risolve, in sostanza, nell'affermazione secondo cui le autorità comunitarie e nazionali non possono imporre, con atti sia normativi che amministrativi, obblighi e restrizioni alle libertà del cittadino in misura superiore (rectius, sproporzionata) a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l'autorità è tenuta a realizzare, in modo che il provvedimento emanato sia idoneo (ovvero adeguato all'obiettivo da perseguire) e necessario (nel senso che nessun altro strumento ugualmente efficace, ma meno negativamente incidente, sia disponibile) (Cons. St. V, 14 aprile 2006, n. 2087; T.A.R. Lazio, Roma I, 2 luglio 2009, n. 6399; T.A.R. Lazio, Roma III, 31 luglio 2007, n. 7259; T.A.R. Lazio, Roma III, 25 gennaio 2007, n. 563; T.A.R. Lazio, Roma III, 18 ottobre 2006, n. 10485). In capo all'amministrazione, pertanto, «si configura a carico della parte pubblica procedente il dovere di scegliere modalità di svolgimento della propria azione che siano in rapporto di idoneità, oltre che di stretta necessità e proporzionalità con il fine da raggiungere» (T.A.R. Campania, Napoli VIII, n. 502/2009. Sul tema v. anche T.A.R. Puglia, Bari III, n. 2908/2008).

È stato osservato che il principio di proporzionalità era già presente nel nostro ordinamento nel principio di ragionevolezza, nel quale confluiscono, a loro volta, i principi di uguaglianza, di imparzialità e di buon andamento: tuttavia si è osservato che, nel diritto comunitario, il principio in questione è finalizzato precipuamente ad assicurare il rispetto delle posizioni soggettive dei privati, rispondendo all'esigenza di evitare limitazioni della sfera privata che non siano imposte dalla stretta necessità piuttosto che dall'esigenza della migliore soddisfazione dell'interesse pubblico (Garofoli, Ferrari, 551).

Nel diritto comunitario, il principio di proporzionalità trova collocazione nell'art. 5 del Trattato sull'Unione Europea quale principio generale dell'azione comunitaria, nel senso che quest'ultima non può spingersi oltre quanto necessario al perseguimento degli scopi fissati dal Trattato medesimo; detto principio, infatti, acquista una forte accentuazione in ordine al rispetto delle posizioni dei soggetti privati a fronte dell'intervento pubblico: esso guarda più all'esigenza di non limitazione – se non nei casi di stretta necessità – della libertà dei privati, piuttosto che all'esigenza della migliore soddisfazione dell'interesse pubblico. Ogni misura adottata dalla pubblica amministrazione che va ad incidere su posizioni private deve essere proporzionale rispetto a quanto richiesto dagli obiettivi perseguiti. Irragionevole sarebbe, e perciò sanzionabile sotto il profilo dell'eccesso di potere, una misura incidente sulla sfera privata, non giustificata da specifiche e motivate esigenze di interesse pubblico (sul punto vedi CGUE, IV, 19 maggio 2009, n. 538 ; CGUE, Grande Sez., 29 gennaio 2008, n. 275 e CGUE, III. 17 gennaio 2008, n. 37). Nello specifico settore della concorrenza, la Corte di Giustizia ha fatto ricorso al principio di proporzionalità per sindacare la possibile deroga a favore delle imprese pubbliche rispetto alle regole del libero mercato ex art. 106 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea. Per i giudici comunitari la deroga è legittima solo qualora «quel comportamento, nella sua specifica manifestazione in rapporto alla concreta fattispecie di volta in volta esaminata, risulti l'unico comprovato e possibile mezzo per conseguire le finalità istituzionali dell'ente» (CGCE, n. 202/1991; CGCE, 30 aprile 1974, n. 155).

Ancora più di recente la Corte con sentenza 14 dicembre 2016, ha precisato che: «Il diritto dell'Unione, in particolare l'art. 45, paragrafo 2, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 18, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e 7di servizi, non osta a che una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, obblighi un'Amministrazione aggiudicatrice a valutare, applicando il principio di proporzionalità, se debba essere effettivamente escluso un offerente in una gara d'appalto pubblico che ha commesso un grave errore nell'esercizio della propria attività professionale

Le disposizioni della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 31 marzo 2004 n. 18, in particolare quelle dell'art. 2 e dell'allegato VII A, punto 17, della medesima, interpretate alla luce del principio della parità di trattamento, nonché dell'obbligo di trasparenza che ne deriva, devono essere lette nel senso che ostano a che un'Amministrazione aggiudicatrice decida di attribuire un appalto pubblico ad un offerente che ha commesso un grave errore professionale, per il fatto che l'esclusione di tale offerente dalla procedura di gara sarebbe stata contraria al principio di proporzionalità, mentre, secondo le condizioni della gara d'appalto in questione, un offerente che avesse commesso un grave errore professionale avrebbe dovuto necessariamente essere escluso, senza tener conto del carattere proporzionato o meno di tale sanzione.»

A livello nazionale, invece, la «nostra» proporzionalità, quale declinazione del principio di ragionevolezza, guarda essenzialmente al provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione in sé e per sé, come misura intesa a curare l'interesse pubblico (Caringella, 950; Garofoli, Ferrari, 562). Non v'è dubbio, però, che il principio di proporzionalità è stato restituito al nostro ordinamento con caratteri nuovi, dovuti soprattutto alla rielaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia, sicché anche in Italia il canone in commento, da strumento del controllo giurisdizionale, è progressivamente assurto a principio dell'agire amministrativo teso alla limitazione degli effetti sulle posizioni private derivanti dalle misure adottate dalla pubblica amministrazione.

Ed invero, tale principio, anche nelle pronunce dei Giudici amministrativi nazionali, ha via via assunto una valenza generale, esigendo, conformemente alle statuizioni della Corte di Giustizia, che ogni provvedimento adottato sia al tempo stesso necessario ed adeguato rispetto agli scopi perseguiti. In linea con questa posizione è la giurisprudenza più recente, che invoca il principio di proporzionalità quale limite intrinseco dell'azione amministrativa e non più quale elemento estrinseco di valutazione della legittimità degli atti. In applicazione del generale principio di proporzionalità, implicante minimo possibile sacrificio degli interessi coinvolti, l'amministrazione pubblica deve responsabilmente scegliere, nell'esercizio delle proprie funzioni, il percorso – ove necessario coordinato con quello di altre amministrazioni – teso a non aggravare inutilmente la situazione dei destinatari dell'azione amministrativa, come prescritto anche dall'art. 1, comma 2, l. 7 agosto 1990 n. 241; mentre, costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta (Cons. St. IV, n. 2366/2018).

In sede applicativa, il principio in parola si articola in tre distinti profili: a) idoneità del mezzo impiegato rispetto all'obiettivo perseguito; b) necessarietà, ovvero assenza di qualsiasi altro mezzo idoneo che comporti il minor sacrificio al privato; c) adeguatezza dell'esercizio del potere rispetto agli interessi in gioco (T.A.R. Sicilia, Palermo II, n. 1032/2008; Cons. St. V, n. 2087/2006; T.A.R. Lazio, Roma III, n. 563/2007; Cons. St. VI, n. 1736/2007; CGUE, 15 novembre 2005, n. 320 ; T.A.R. Lombardia, Brescia, n. 1356/2005; T.A.R. Abruzzo, Pescara, n. 641/2004).

L'ambito applicativo del principio di proporzionalità è assai ampio: numerosa, ad esempio, è la casistica in materia di limitazione al diritto di proprietà (Cons. St. IV, n. 4381/2004), di attività di autotutela, di ordinanze di necessità ed urgenza, di irrogazione di sanzioni (Cons. St. IV, n. 1195/2005) e di tutela ambientale.

Con particolare riferimento alla materia degli appalti, poi, si è osservato che la determinazione da parte della stazione appaltante dei requisiti della partecipazione alla gara incontra il limite della loro ragionevolezza, che va valutata con specifico riferimento all'oggetto dell'appalto e alle sue caratteristiche particolari, nel rispetto dei principi di derivazione comunitaria ed immanenti nell'ordinamento nazionale, di ragionevolezza e proporzionalità, in relazione alle finalità di assicurare la libera concorrenza (sul punto, v. Cons. St. V, n. 1038/2017; Cons. St. IV, n. 1860/2008).

Analogamente, il principio di proporzionalità è stato invocato per la disapplicazione di norme interne contrastanti con il diritto comunitario: v., ad esempio, T.A.R. Lazio, Roma III, n. 9630/2007, che ha stabilito che «Gli artt. 186 comma 2 e 191 comma 9, d.lgs. n. 163 del 2006 (nella parte in cui non consentono l'associazione di imprese da sole aventi classifiche di qualificazione insufficienti per la partecipazione ad una determinata gara richiedente classifica superiore) contrastano con gli artt. 47 e 48 della Direttiva n. 18/2004/Ce; la quale normativa comunitaria stabilisce espressamente la possibilità per i soggetti riuniti in A.t.i. di concorrere ai fini della dimostrazione dei requisiti tecnico-economico-finanziari necessari per la partecipazione alla gara. La normativa comunitaria, invece, prevalente su quella interna stabilisce espressamente per i soggetti riuniti in associazione temporanea d'imprese ma non in possesso della classifica di cui sopra, la possibilità di concorrere potendo dimostrare di possedere i requisiti tecnico, economico – finanziari necessari per la partecipazione alla gara».

Del principio in questione, inoltre, è stata fatta applicazione anche in materia di sanzioni disciplinari: così Cons. St. VI, n. 536/2007, ha ritenuto illegittimo, per violazione del principio di proporzionalità, il provvedimento di destituzione nei confronti del ricorrente, ufficiale della Polizia di Stato, mentre nei confronti di un collega, di pari grado e per le medesime infrazioni disciplinari, era stata applicata la più mite sanzione di sospensione per tre mesi (in termini, T.A.R. Piemonte, I, n. 953/2009; Cons. St. IV, n. 5996/2008; CGA, n. 806/2006).

All'applicazione del principio di proporzionalità, infine, non sfuggono neppure gli strumenti di urgenza: la giurisprudenza ha a più riprese affermato, infatti, che «le ordinanze contingibili e urgenti, ancorché utilizzabili anche nei riguardi di diritti costituzionalmente garantiti e sempre che sussista una riserva relativa di legge, sono emanabili anche in materia di libera iniziativa economica e di diritto di proprietà, salvo il riscontro in concreto del rispetto dei limiti posti all'esercizio del relativo potere, fra i quali quello dell'adeguatezza del provvedimento ed i presupposti dell'urgenza e della grave necessità e dell'urgenza e che, requisito di validità delle ordinanze contingibili ed urgenti, è la fissazione di un termine di efficacia del provvedimento» (T.A.R. Lazio, Roma III, n. 8614/2006).

Vedi poi, in materia, T.A.R. Lazio, II, n. 7849/2020: «In virtù del richiamo esterno operato dall'art. 1 c.p.a., il tradizionale catalogo dei vizi di illegittimità è arricchito di una serie di principi di derivazione euro-unitaria direttamente applicabili nel nostro sistema di giustizia anche nelle materie non rientranti nelle competenze dell'Unione (artt. 3,4,5, TUE); i principi di proporzionalità e di adeguatezza costituiscono limiti interni all'esercizio del potere restrittivo dell'amministrazione che il giudice è chiamato a verificare (c.d. test) mediante l'indagine trifasica (di idoneità, di necessarietà, di adeguatezza).

Ha ricordato il tribunale capitolino che i vizi dell'atto amministrativo, secondo la tradizionale tripartizione, sono la «violazione di legge», l'«incompetenza», l'«eccesso di potere» (art. 29 c.p.a.). Con l'integrazione del nostro ordinamento con quello dell'Unione europea, il tradizionale catalogo dei vizi si è arricchito di una serie di principi di derivazione euro-unitaria direttamente applicabili nel nostro sistema di giustizia in virtù del richiamo esterno ad essi operato dall'art. 1 c.p.a. secondo cui la «giurisdizione amministrativa» è, per l'appunto, chiamata ad assicurare «una tutela piena ed effettiva» secondo i principi del «diritto europeo» i quali, pertanto, assumo rilevanza diretta anche nelle materie non rientranti nelle competenze dell'Unione (artt. 3,4,5, TUE).

Il principio di proporzionalità e quello di adeguatezza sono da tempo principi cardine dell'azione amministrativa che, benché non sempre siano annoverati dalle discipline di settore tra le regole formali a cui deve conformarsi l'esercizio del potere restrittivo della sfera giuridica del destinatario, costituiscono comunque norme immanenti dell'agire pubblico. Tendo presente la sapiente opera di interpretazione monofilattica della giurisprudenza nazionale ed europea, si può affermare che ogni potere restrittivo va esercitato in sede di amministrazione attiva – e, ove oggetto di contenzioso, in sede giurisdizionale o giudiziale – nel rispetto dei principi di proporzionalità e di adeguatezza che costituiscono, al contempo, limiti interni al corretto esercizio dell'azione pubblica.

Il giudice amministrativo è chiamato a verificare (c.d. test) il rispetto dei principi-limiti di proporzionalità e di adeguatezza mediante l'indagine che si definisce trifasica (di idoneità, di necessarietà, di adeguatezza, anche detta quest'ultima di proporzionalità in senso stretto) in quanto il positivo superamento di ogni fase costituisce il presupposto per la verifica di quella successiva, sicché soltanto il provvedimento che supera positivamente tutt'e tre le fasi di verifica può vedersi attribuito il predicato di legittimità definitiva. Mentre il principio di proporzionalità è volto a sindacare l'individuazione del mezzo giuridico per raggiungere il fine pubblico per il quale è attribuito il potere ed implica l'indagine nella fase di idoneità e di necessarietà, il principio di adeguatezza è volto sindacare la fase di proporzionalità in senso stretto incentrandosi sul bilanciamento degli interessi che vengono in emersione a seguito della scelta del mezzo idoneo e necessario.

Più in particolare, l'idoneità guarda al rapporto tra il mezzo che si intende scegliere e l'obiettivo che si intende raggiungere: la verifica si ritiene superata se il mezzo scelto si presenta di per sé idoneo a raggiungere l'obiettivo.

La necessarietà, invece, guarda al rapporto tra il mezzo ritenuto idoneo e il sacrificio che deriva alla sfera giuridica del destinatario: la verifica si ritiene superata se, contestualmente, il mezzo individuato (come idoneo) comporta il minore sacrificio possibile al singolo (o, in altri termini, se non vi sono altri mezzi idonei che consentono di raggiungere il medesimo risultato con minore sacrificio) e non impone un sacrificio ben superiore a quanto è necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito.

Individuato lo strumento giuridico idoneo e necessario, occorre valutare se il sacrificio che deriva dalla sua applicazione sia tollerabile dal singolo nel rapporto con gli interessi pubblici (primari e secondari) e privati che vengono in gioco nell'ambito del procedimento. L'adeguatezza (o proporzionalità in senso stretto) guarda, infatti, al rapporto tra il mezzo ritenuto idoneo e necessario e la restrizione subita in concreto dal destinatario: in tal caso, la verifica è superata se il mezzo così individuato impone alla sfera del singolo un sacrificio tollerabile nel bilanciamento con gli altri interessi coinvolti.

Il principio di consequenzialità

Il principio di consequenzialità, di elaborazione pretoria, concerne l'obbligo per la p.a. di adottare atti e decisioni coerenti con quanto contenuto sia negli altri atti del procedimento sia nelle direttive e nei principi generali che ispirano la p.a.

È quindi un principio strettamente ricollegabile a quello di ragionevolezza e buona fede, che si sostanzia nell'obbligo di agire in base a scelte determinate in precedenza.

La predeterminazione e la pubblicità delle scelte iniziali prima dell'adozione dell'atto finale è contenuta in diverse norme sul procedimento amministrativo: si pensi, ad esempio, all'art. 8, l. n. 241/1990, che indica il contenuto minimo dell'avviso di avvio del procedimento, all'art. 2, che stabilisce in modo inderogabile la necessità che sia previsto un termine di conclusione del procedimento, all'art. 12, in merito alla predeterminazione e pubblicità dei criteri e delle modalità di attribuzione delle sovvenzioni pubbliche. In omaggio al principio in questione l'amministrazione si autovincola nell'esercizio del potere discrezionale, servendosi di atti normativi secondari, atti amministrativi generali, atti di pianificazione o di programmazione. Qualora l'amministrazione si autovincoli mediante l'adozione di indicazioni generiche e non puntuali, ad esempio attraverso direttive o circolari, l'autovincolo sarà di portata meno stringente, tanto da consentire all'amministrazione che adotta il provvedimento di discostarsi dalle scelte prefissate attraverso una congrua motivazione.

Il principio dell'effetto utile.

Il principio dell'effetto utile, o di raggiungimento dello scopo, è stato spesso utilizzato quale chiave di lettura delle norme comunitarie, in modo da assicurare alle stesse un'applicazione ovvero un'interpretazione funzionale al raggiungimento delle loro finalità. Si pensi alle direttive c.d. self- executing, alle quali si riconosce efficacia verticale una volta scaduto il termine per la loro recezione, ovvero a quelle non self- executing alle quali si riconosce comunque valenza a livello esegetico rispetto alla disciplina nazionale di riferimento.

Il principio in questione, traguardato all'azione amministrativa, impone, in un'ottica sostanzialistica, la valutazione degli aspetti sostanziali dell'azione amministrativa, di guisa che, nella valutazione della legittimità di un atto, debba aversi riguardo al raggiungimento dello scopo perseguito dall'amministrazione nello svolgimento della propria attività, a sua volta conforme a quello normativamente stabilito dalla legge.

È evidente, quindi, che il principio in parola costituisce un corollario del principio di legalità in senso sostanziale (vedi supra), che impone la conformità dell'azione amministrativa alle prescrizioni normative espresse ed ai valori che promanano dall'intero corpus normativo: ne consegue, evidentemente, la necessità di privilegiare l'indagine sostanziale sull'idoneità dell'operato della p.a. a conseguire l'effetto richiesto. Ne scaturisce, altresì, una sorta di «gerarchia» delle forme patologiche che possono inficiare l'attività provvedimentale della p.a., alla stregua della quale l'esistenza di vizi formali procedimentali o provvedimentali soccombe ove la verifica della legalità sostanziale dell'atto o del procedimento viziato verifichi che il suo contenuto e i suoi effetti sostanziali non ne siano stati inficiati, consentendo in ogni caso alla p.a. di perseguire l'interesse al quale la sua attività è funzionale.

Deve sottolinearsi come il principio in esame ha da ultimo trovato espressa consacrazione nel nostro ordinamento: la l. n. 15/2005, invero, ha introdotto nella legge sul procedimento l'art. 21-octies, che riconosce espressamente il principio in questione, sancendo l'irrilevanza di vizi formali ove essi non abbiano influito sul contenuto dell'atto (per l'esame dei c.d. «vizi non invalidanti» vedi, funditus, subart. 21-octies l. n. 241/1990).

La giurisprudenza ha più volte fatto applicazione del principio della strumentalità delle forme e del raggiungimento dello scopo, affermandone la valenza generale; «in base a tale principio, l'invalidità di un atto per vizi procedurali può essere riconosciuta solo quando gli adempimenti formali omessi non ammettano equipollenti, per il raggiungimento dello scopo perseguito» (Cons. St. VI, n. 1670/2009; Cons. St. V, n. 187/2005, Cons. St. V, n. 3716/2005; Cons. St. V, n. 1542/2004; T.A.R. Lazio, Roma I, n. 15180/2005; in particolare, quanto all'applicazione del principio dell'effetto utile in tema di interpretazione dei requisiti per un legittimo affidamento in house, vedi Cons. St. V, n. 5082/2009).

Il principio del legittimo affidamento.

Il principio del legittimo affidamento svolge un ruolo di non poco momento nell'ambito dei principi di matrice comunitaria. Esso impone che una situazione di vantaggio, assicurata ad un privato da uno specifico e concreto atto dell'autorità amministrativa, non possa essere successivamente rimossa salvo che non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico e fermo in ogni caso l'indennizzo della posizione acquisita (CGCE, 3 maggio 1978, C-112/77, Topfer/Commissione). In tal senso i giudici comunitari hanno stabilito che il legittimo affidamento sussiste allorché l'individuo si trovi «in una situazione dalla quale risulti che l'amministrazione gli ha dato aspettative fondate» (CGCE, 19 maggio 1983, C 289/81). Il principio in questione è considerato un corollario di quello della certezza del diritto, nell'ambito del quale viene individuato il suo fondamento (in questi termini espressamente CGCE, 19 settembre 2000, C 177/99, 181/99, Ampafrance and Sanofi; CGCE, 18 gennaio 2001, C 83/99, Commission/Spain).

La tutela dell'affidamento, dunque, assurge a fattore di vera novità tra i principi dell'azione amministrativa e viene qualificato come principio che impone la tutela delle situazioni di vantaggio assicurate da un atto specifico e concreto della pubblica amministrazione; situazioni di vantaggio che, una volta ingenerate, non possono essere successivamente rimosse, se non là dove non sia strettamente necessario per l'interesse pubblico e, comunque, dietro corresponsione di un congruo indennizzo (Sul tema v. Garofoli, Ferrari, 564).

La tutela dell'affidamento legittimo è l'incarnazione di un principio non scritto. Se, infatti, si eccettua l'ordinamento tedesco, che si occupa ex professo (agli artt. 20 e 29 del Grundgesetz), del Vertrauensschutz (così assurgendo a principio dello Stato di diritto, ossia a Rechtsstaatsprinzip), le fonti comunitarie ed i sistemi europei coniano il legittimo affidamento, ovvero la legittimate ex pectation o ancora la confiance lègitime (figlia o parente della securitè juridique) alla stregua di categoria naturale del diritto non scritto.

Nonostante l'assordante silenzio della legislazione comunitaria, la Corte di Giustizia a tal punto non dubita dell'esistenza e della baricentricità dell'istituto, tanto da non avere remore nell'affermare (v., tra tutte CGCE, 3 maggio 1978, C 112/77, cit.) che «il principio di tutela dell'affidamento fa parte del diritto comunitario». A tale affermazione fa eco la nostra giurisprudenza nazionale, che afferma che «Il principio della tutela del legittimo affidamento è immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico ed assolve ad una funzione di «integrazione» della disciplina legislativa, o comunque costituisce un preciso vincolo ermeneutico per l'interprete» (C. conti reg. Puglia, giurisd., n. 942/2008; in termini non dissimili v. T.A.R. Abruzzo, Pescara, n. 642/2008).

Il principio in esame trova il suo omologo nei principi di correttezza e buona fede che presidiano i rapporti tra privati, e risponde all'idea di fondo, che ispira tutta la legge sul procedimento, di un'amministrazione sempre più democratica e «paritaria» nei rapporti con i privati, al punto da sacrificare il principio di legalità alle aspettative legittimamente ingenerate nel privato. Sulla base di tali presupposti, invero, «la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici tendono a prevalere sul principio di legalità, con la conseguenza che gli atti dell'autorità – seppur illegittimi – possono cioè aver prodotto nei destinatari un affidamento circa i vantaggi loro assicurati; affidamento che non può essere sacrificato in ragione di motivi di interesse pubblico» (T.A.R. Lazio, Roma III, n. 76/2007).

La centralità del principio in questione è stata ribadita anche dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, che ha ricordato come nei rapporti di diritto amministrativo, inerenti al pubblico potere, è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull'operato dell'amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest'ultima di responsabilità non solo per comportamenti contrari ai canoni di origine civilistica ora richiamati, ma anche per il caso di provvedimento favorevole annullato su ricorso di terzi (Cons. St., Ad. plen., n. 21/2021).

L'affidamento si atteggia quale limite generale ma non incondizionato alla retroattività (propria e impropria) dell'atto dei pubblici poteri, potendo recedere al cospetto di altre esigenze inderogabili. Lo scrutinio dei limiti oltre il quale la pubblica amministrazione non può incidere sull'affidamento ingenerato può essere ricercato attraverso la verifica congiunta: della sussistenza di un motivo imperativo di interesse generale; del grado di consolidamento dell'affidamento dei privati, avuto riguardo alla prevedibilità del mutamento, alla buona fede, al decorso del tempo; del quomodo dell'immutazione giuridica, in quanto il peso imposto ai destinatari della disposizione retroattiva, oltre che diretto a perseguire un interesse pubblico, deve essere anche ragionevolmente proporzionato al fine che si intende realizzare. Pertanto, l'operatore professionale prudente e accorto deve sapere che, quale che sia l'importo dell'agevolazione concesso in via anticipata e provvisoria, soltanto all'esito delle procedure di controllo, l'erogazione potrà ritenersi definitivamente acquisita al patrimonio del beneficiario (Cons. St. III, n. 412/2020).

Particolarmente discusso (F. Merusi) appare il suo legame con il principio di buona fede, anche se nell'ordinamento comunitario è prevalsa la tesi di derivazione tedesca che esclude la vigenza di un principio di buona fede verticale che integra tutte le fonti di diritto positivo esistenti. Tenendo ferma questa posizione, si avverte la differenza in modo chiaro tra il principio di affidamento e quello di buona fede; mentre quest'ultimo costituisce solo una regola comportamentale nei rapporti tra privati, il principio di legittimo affidamento costituisce una vera e propria regola pattizia, che riverbera i suoi effetti sulla stessa validità del provvedimento.

Sul piano definitorio, deve ritenersi che l'affidamento legittimo e ragionevole è espressione di un principio che impone al soggetto pubblico che voglia esercitare il suo potere nei confronti del soggetto privato, di tenere nel debito conto l'interesse alla conservazione di un vantaggio (ovvero un bene od un'utilità), conseguito in buona fede dal privato grazie ad un previo chiaro atto della pubblica amministrazione, all'uopo diretto; e tanto, specie se detto vantaggio si sia consolidato per effetto del decorso di un significativo lasso temporale.

Da tale definizione, dunque, emergono chiaramente i tre elementi costitutivi del principio in esame.

Sotto un profilo oggettivo, l'affidamento deve essere ragionevole: il vantaggio che il privato difende, cioè, deve essere chiaro ed univoco. È all'uopo necessario, pertanto, che esso trovi la sua scaturigine in un comportamento attivo, non bastandone uno omissivo; in un atto formale, non essendo sufficienti meri facta concludentia; in un atto efficace e vincolante, non essendo idoneo un atto endoprocedimentale ed impotente. In definitiva, l'elemento oggettivo si invera quante volte l'esercizio del potere incontri sulla sua strada un preesistente bene, attribuito in modo chiaro ed univoco da un provvedimento espresso ed efficace. Osservano al riguardo i giudici comunitari che «una situazione contrattuale per sua natura incerta non può essere all'origine di assicurazioni precise da parte dell'amministrazione, necessarie per creare il legittimo affidamento» (CGUE, I, 18 luglio 2007, n. 213; sul punto cfr. anche C. conti, reg. Lombardia, giurisd., 20 maggio 2008, n. 300, che, in tema di ripetizione di indebito pensionistico, osserva: «la legge non consente, dunque, una tutela delle situazioni giuridiche che non derivino da provvedimento definitivo, per le quali l'Amministrazione competente ha il diritto-dovere di ripetere quanto già indebitamente erogato; difatti per i trattamenti provvisori il pensionato non è titolare di legittimo e ragionevole affidamento nella stabilità e correttezza della liquidazione provvisoria della pensione, proprio perché soggetta a successivi conguagli e verifiche»).

Venendo all'elemento soggettivo, che rende l'affidamento legittimo, è necessario che il privato difenda un'utilità ottenuta nella plausibile convinzione di averne titolo. È allora tutelabile solo l'affidamento maturato in buona fede; non merita protezione, per converso, l'aspirazione all'intangibilità di un bene che il privato abbia ottenuto con dolo (ad esempio inducendo in errore con false informazioni: tra le altre cfr. T.A.R. Basilicata, Potenza I, n. 643/2008, ove si legge che «nel caso in cui un titolo edilizio è stato ottenuto sulla base di una non fedele rappresentazione della realtà dei luoghi negli elaborati progettuali prodotti a corredo dell'istanza di rilascio del titolo stesso, l'Amministrazione può procedere all'annullamento d'ufficio senza esternare alcuna particolare ragione d'interesse pubblico e senza tenere conto dell'affidamento ingeneratosi nel privato, non potendo quest'ultimo fondare alcun legittimo affidamento in ordine alla persistenza di un titolo ottenuto attraverso l'induzione in errore dell'ente pubblico») o, comunque, versando in una condizione di colpa apprezzabile (così, ex multis, T.A.R. Marche, I, n. 733/2008, il quale ha di recente affermato che «L'affidamento del titolare di una concessione edilizia in sanatoria non è paragonabile a quello del titolare di un'ordinaria concessione, perché solo in quest'ultimo caso è evidente la necessità di tutelare chi ha avviato una costosa attività edilizia, confidando sulla validità del titolo rilasciatogli dalla P.A., mentre nel caso di condono edilizio l'interessato ha già realizzato illecitamente la propria attività, prima e senza il controllo della P.A.).

Non è configurabile un ragionevole affidamento al mantenimento delle opere abusive edificate in una determinata zona, avuto riguardo al non considerevole lasso di tempo intercorso tra l'emanazione dei provvedimenti di concessione ed autorizzazione in sanatoria e la comunicazione dell'avvio del procedimento di riesame delle pratiche in via di autotutela, nonché alla sicura conoscenza da parte del privato dei vincoli ambientali e paesaggistici insistenti sull'area».). Va aggiunto che la colpevolezza dell'aspettativa è collegata al carattere palese (e quindi riconoscibile) del vizio che inficia l'atto (come in qualche modo ci ricorda l'accento che il nuovo comma 1-bis dell'art. 21-quinquies pone sulla decifrabilità dell'errore come fattore che influisce sulla misura dell'indennizzo da revoca), in relazione non alla natura ma alla misura del vizio; e quindi in base ad un profilo non propriamente qualitativo-ontologico, ma schiettamente quantitativo, per non dire ponderale.

Sul piano temporale, infine, l'affidamento deve essere stabile (sul punto v. Cons. St. VI, n. 2450/2008: «In presenza di una valutazione di affidabilità reiterata negli anni dalla medesima amministrazione, qualora non si siano modificati i fatti e le condizioni che hanno costituito i presupposti delle precedenti determinazioni dell'amministrazione, è quest'ultima, dunque, che deve fornire prova del mutato interesse pubblico e tale prova deve essere particolarmente incisiva, in modo da salvaguardare il principio di coerenza dell'agire dell'Amministrazione, nonché il principio di legittimo affidamento del privato cittadino nei confronti di esso»; nello stesso senso anche T.A.R. Calabria, Catanzaro II, n. 1558/2008; T.A.R. Puglia, Lecce III, n. 1680/2008).

L'affidamento, infatti, diventa pieno solo quando si sia al cospetto di un vantaggio conseguito in un arco di tempo tale da persuadere il beneficiary della sua stabilità, se non definitività. Proprio tale dato cronologico, che a ben vedere, più che essere elemento costitutivo in senso stretto. è fattore di potenziamento dell'affidamento, distingue l'affidamento dal principio di certezza del diritto, di cui «è un corollario condito dalla salsa del tempo» (F. Caringella, 953).

Il principale corollario applicativo del principio del legittimo affidamento risiede nella disciplina (e segnatamente nei limiti e nelle condizioni) per l'esercizio del potere di ritiro della P.A. di propri atti illegittimi.

Rinviando al commento subart. 21-nonies l. n. 241/1990 per l'esame esaustivo dell'istituto, in questa sede ci si limita a rammentare che, a mente della norma in parola, la P.A. non è libera di provvedere alla rimozione di un proprio atto, ancorché illegittimo: l'amministrazione procedente, invero, nello stabilire se vi siano i presupposti dell'annullamento, deve comparare l'interesse pubblico, il tempo decorso e gli interessi dei destinatari, al fine di stabilire se in concreto l'interesse pubblico è così rilevante tanto da giustificare il tradimento dell'affidamento del privato da parte della amministrazione (in questo senso, ex multis, Cons. St. V, n. 1615/2009). La disposizione in esame, dunque, segna il crollo del dogma dell'interesse pubblico in re ipsa in presenza di un'illegittimità, oramai superato dal principio comunitario dell'affidamento, in base al quale si ritiene che l'interesse pubblico non sia mai autosufficiente, ma debba sempre essere comparato con quello del privato, per cui se l'affidamento è ben radicato (ed assistito dai summenzionati presupposti), esso opera come preclusione del potere della amministrazione (CGCE, 12 luglio 1957, cause riunite n. 7/56 e nn. da 3 a 7/57, Algera).

Nella valutazione comparativa dei contrapposti interessi alla rimozione dell'atto illegittimo ed alla sua conservazione, poi, la giurisprudenza comunitaria ha attribuito rilevanza ad elementi ulteriori rispetto al dato temporale, quali un eventuale comportamento scorretto o colposo del destinatario dell'atto, che, fornendo indicazioni false o incomplete, idonee a trarre in inganno l'amministrazione, ha cagionato l'emissione dell'atto illegittimo, negando in tal caso la sussistenza di un legittimo affidamento (CGCE, 24 gennaio 2002, in C-500/99 P, Conserve Italia/Commission; CGCE, 22 marzo 1961, in C-42/59 e C-49/59, S.N.U.P.A.T. e 12 luglio 1962, in C-14/61, Hoogovens). In altre pronunce, per converso, riscontrando un comportamento negligente dell'amministrazione quale causa dell'emanazione dell'atto illegittimo, ha concesso ampio spazio alla tutela dell'affidamento colposamente ingenerato. In ogni caso, il principio in oggetto incontra il limite in negativo della non invocabilità da parte di uno Stato Comunitario per giustificare la mancata osservanza degli obblighi comunitari (CGCE, I, 4 maggio 2006, n. 508; CGUE, II, 18 luglio 2007, n. 503).

Il principio di affidamento, poi, incide notevolmente anche sulla diversa fattispecie di revoca di un atto per sopravvenuti motivi di pubblico interesse, ex art. 21-quinquies, sebbene in tale ipotesi l'opzione del legislatore, invece, è stata a favore di una tutela dell'affidamento in termini prettamente economici, patrimonializzando l'effetto negativo derivante dall'incisione dell'affidamento, piuttosto che limitando o precludendo l'esercizio del potere. Anche nell'ipotesi di revoca, tuttavia, la giurisprudenza comunitaria ha evidenziato come essa sia possibile solo se intervenga entro un termine ragionevole e se l'autorità emanante tiene in adeguato conto l'affidamento ingenerato nel beneficiario.

Sempre in relazione alla definizione dell'ambito di operatività del principio del legittimo affidamento, la Corte di Giustizia (CGCE, 15 dicembre 2005, C-148/04) indica gli elementi minimi che devono ricorrere perché il principio de quo possa essere invocato. Nella fattispecie il giudice comunitario si occupa di una vicenda avente ad oggetto la materia degli aiuti di Stato, precisando che il legittimo affidamento sulla regolarità dell'aiuto non può essere invocato dal beneficiario se l'aiuto stesso non è stato concesso nel rispetto della procedura prevista dall'art. 108 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea. Pertanto, se l'aiuto è stato versato senza la previa notifica alla Commissione, l'illegittimità derivante dal difetto di procedura impedisce il sorgere dell'affidamento, come impedisce la possibilità di invocare il principio di certezza del diritto, posto che è prevedibile sin dall'esecuzione dell'aiuto che lo stesso sarà oggetto di contenzioso.

Il particolare rigore della giurisprudenza in tema di aiuti di Stato ben si spiega se solo si considera che in questi casi non viene in rilievo una relazione duale tra interesse del destinatario al mantenimento del vantaggio ed interesse della P.A. alla sua rimozione, ma una relazione nella quale viene in rilievo anche l'interesse delle imprese concorrenti ad evitare le ripercussioni negative derivanti, sul piano concorrenziale, dal permanere di un vantaggio dato ad un competitore. In questi casi ben si comprende, dunque, alla luce della rilevanza centrale del valore della concorrenza in ambito comunitario, la minore intensità della tutela dell'affidamento e, segnatamente, la possibilità di recuperare l'aiuto anche ad una distanza di tempo che sarebbe eccessiva per la normale autotutela amministrativa.

Va aggiunto che dalla nozione comunitaria di affidamento si differenzia la nozione nazionale, che non costituisce una regola pattizia, volta alla limitazione del potere amministrativo di disconoscere i vantaggi riconosciuti con pregressi atti, ma una regola comportamentale, iscrivibile nel generale canone di buona fede (Cons. St. IV, n. 3536/2008), volta a non ingenerare, con le proprie condotte, aspettative destinate ad essere frustrate. Detta regola comportamentale trova la sua sanzione, specie, ma non solo, nel campo precontrattuale, con l'affermazione della responsabilità della P.A. per i danni cagionati da una condotta non lineare e trasparente.

In sede applicativa, ci si è chiesti se, ai fini dell'affidamento del privato, siano rilevanti solo atti di diritto pubblico o anche atti di diritto privato, e dunque se il vantaggio, ai fini del consolidarsi di un legittimo affidamento, possa essere attribuito non solo con provvedimento pubblicistico ma anche mediante un atto di diritto privato.

Sul punto è agevole rilevare che il diritto comunitario è indifferente alla forma e che, per il principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, ai fini della tutela del principio del legittimo affidamento, non rileva il carattere pubblicistico o privatistico dell'atto: deve ritenersi, infatti, che ogni qualvolta la P.A. dà la stura ad una situazione che poi si consolida con il trascorrere del tempo, l'atto è definitivo e gli effetti dell'atto non possono essere rimossi. Ne consegue che, se la ratio è la tutela della certezza e l'affidamento del privato nei rapporti giuridici come valore, che è persino preponderante rispetto alla legittimità degli atti stessi, è evidente che è indifferente a tale scopo la natura formale dell'atto.

Un ulteriore problema interpretativo riguarda la fonte dalla quale promana il vantaggio difeso dal privato: ci si chiede, in particolare, se detta posizione di vantaggio debba derivare necessariamente da atti vincolanti, per cui è meritevole di tutela solo l'affidamento derivante da un provvedimento che definisca un procedimento, ovvero anche da atti aventi carattere non vincolante, con la conseguenza di attribuire tutela anche all'affidamento derivante da atti endoprocedimentali (quali pareri o raccomandazioni) che non definiscono il procedimento, ma possono comunque creare vantaggi e consolidare un affidamento in capo al privato.

La dottrina maggioritaria nega che l'atto infraprocedimentale sia idoneo ad ingenerare un affidamento meritevole di tutela, in quanto tali provvedimenti creano nei privati mere aspettative e non sono quindi in grado di incidere sul potere della P.A. di negare o meno il bene della vita: l'affidamento comunitario, infatti, tutela e presuppone la spettanza in capo al privato del bene della vita e non già la mera speranza di ottenerlo. L'affidamento, al più, rileva come semplice elemento di cui la P.A. deve tener conto nell'esercizio del potere (limitandosi ad enunciare le ragioni per le quali non ritiene di confermare quanto emerso nell'atto endoprocedimentale circa la futura (mancata) attribuzione della utilità al privato, ma non è di per sé preclusivo all'esercizio dello stesso.

Il principio di sussidiarietà orizzontale.

Il principio di sussidiarietà orizzontale, anch'esso di matrice comunitaria, è stato codificato dal Trattato di Maastricht del 1992 e poi mutuato nel nostro ordinamento nazionale prima con le leggi Bassanini del 1997 e poi con la l. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, di modifica del titolo V della Costituzione. In particolare, esso è stato recepito nella nostra Carta Costituzionale dall'art. 118, che stabilisce che «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l'esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. [...]. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».

Il principio in esame comporta l'allocazione delle funzioni amministrative al livello di governo inferiore e più vicino al cittadino, riservando l'intervento del livello superiore solo ove l'azione del primo livello non consenta la cura degli interessi affidatigli.

Questo principio è valorizzato e recepito dal comma 1-ter della norma in commento, ove si disciplina l'obbligo del rispetto dei principi di cui al comma 2 anche da parte dei soggetti privati: il legislatore, in tal modo, ha voluto estendere le garanzie procedimentali anche ove l'attività amministrativa sia svolta da privati, e quindi, al livello di amministrazione in assoluto più vicina ai cittadini.

La sussidiarietà, inoltre, è stata recepita dalla riforma costituzionale del 2001 anche in senso orizzontale, quale criterio di regolamentazione dei rapporti tra privati ed enti, che impone a questi ultimi di «ritirarsi» ogni qualvolta il loro intervento non sia necessario per la realizzazione di un determinato obiettivo (T.A.R. Lombardia, Brescia I, 10 dicembre 2008, n. 1739).

In riferimento a tale ultimo profilo, peraltro, il Consiglio di Stato ha di recente rimarcato che esulano dall'ambito di operatività del principio in questione le imprese e la disciplina relativa agli aiuti ad esse: le imprese, ad avviso del Cons. St. (parere n. 1440/2003), esulano dai membri della compagine sociale – cittadini singoli o associati, famiglie, formazioni sociali, associazioni e comunità – ai quali l'art. 118 si riferisce. La sussidiarietà, in altri termini, si ricollega alla società civile ed al «suo sviluppo volontario, senza commistioni con le attività che presuppongono uno statuto di situazioni correlate all'esercizio dei pubblici poteri»: ne deriva che nell'ambito della cd. «cittadinanza societaria» i pubblici poteri «non hanno sostanzialmente alcun titolo all'intromissione».

Recentemente, si è fatto cenno alla valenza negativa della sussidiarietà orizzontale, quale ordine di misura del potere in funzione dell'integrazione tra soggetti pubblici e soggetti privati, osservando che «il principio di sussidiarietà orizzontale (art. 118, ult. co., Cost.) è un principio – non solo politico ma giuridico di primario rilievo nell'ordinamento nazionale e sicuramente invocabile innanzi al giudice amministrativo come parametro di proporzionalità e ragionevolezza, ma solo ai fini – di determinazione dei confini fra sfera pubblica e sfera privata» (Cons. St. V, n. 6094/2009, ove è richiamato un noto significato della sussidiarietà: quando un bene, un servizio o un regime disciplinare è rimesso alla libertà dei privati, i soggetti pubblici possono assumerne l'affidamento solamente in casi eccezionali e motivati).

Quanto all'ambito di applicazione del principio in parola, si è sostenuto che «non contrasta con il principio di sussidiarietà orizzontale, inteso in senso positivo (che implica l'affermazione di un potere dei pubblici poteri a sostegno dell'attività di promozione dell'attività dei privati), fissato dall'art. 118, comma 4 della Costituzione, la previsione dell'art. 113, comma 5; lett. c) del T. U n. 267 del 2000 che consente l'affidamento diretto (in house) di un servizio pubblico locale ad una società di gestione (su cui l'ente locale esercita un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi» (T.A.R. Sardegna, Cagliari I, 21 dicembre 2007, n. 2407).

Il principio di leale collaborazione.

Il principio di leale collaborazione desunto dall'art. 10 CE a livello comunitario impone un obbligo per gli Stati membri di facilitare l'attuazione del diritto comunitario.

Nel tempo la Corte di Giustizia ha ampliato la portata del principio in questione ritenendo che lo stesso obblighi non solo gli Stati membri rispetto agli organi comunitari, ma anche gli Stati membri tra di loro ed infine gli organi comunitari nei confronti degli Stati membri.

Il principio in questione è stato recepito all'indomani della l. cost. n. 3/2001 anche a livello costituzionale nella nuova formulazione dell'art. 120 Cost., tanto da ispirare i rapporti tra Stato, regioni ed enti locali (Corte cost., n. 303/2003). La sua diffusione, anche a livello di attività amministrativa, è altresì testimoniata dall'esplicito riferimento operato dallo stesso legislatore nazionale: si pensi all'art. 22, comma 5, che nel disciplinare l'accesso ai documenti amministrativi tra pubbliche amministrazioni, dispone che: «L'acquisizione di documenti amministrativi da parte di soggetti pubblici... si informa al principio di leale cooperazione istituzionale».

Applicazione di tale principio è stata fatta con particolare riferimento ai procedimenti che hanno ad oggetto il rilascio di autorizzazioni paesistiche e valutazioni di impatto ambientale. Si è sostenuto, infatti, che «in sede di esame dell'istanza di autorizzazione paesistica, la Regione o, in suo luogo, l'amministrazione locale subdelegata, devono rispettare il principio-cardine della leale collaborazione con gli organi del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e gli altri consueti principi sulla legittimità dell'azione amministrativa, emettendo una motivazione dell'autorizzazione idonea a consentire il riscontro dell'idoneità dell'istruttoria, dell'apprezzamento di tutte le rilevanti circostanze di fatto e della non manifesta irragionevolezza della scelta effettuata, in ordine alla prevalenza di un valore in conflitto con quello tutelato in via primaria» (T.A.R. Calabria, Catanzaro I, n. 941/2009; vedi anche T.A.R. Sardegna, Cagliari II, n. 1489/2009).

Il principio in esame, inoltre, è stato invocato dalla stessa Corte Costituzionale, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 241 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, nella parte in cui non prevede che, prima dell'adozione del regolamento da esso disciplinato, sia sentita la Conferenza Unificata di cui all'art. 8 del d.lgs. 281 del 1997. Il giudice delle leggi, in particolare, ha affermato che, sebbene la materia della bonifica dei siti contaminati sia da collocarsi nella tematica relativa alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (materia di esclusiva competenza statale), non può disconoscersi che, con riferimento alla bonifica delle aree adibite alla produzione agricola o all'allevamento del bestiame, lo stesso legislatore nazionale abbia riconosciuto la peculiarità dei siti in questione, dando rilevanza alla specifica destinazione delle suddette aree. Pertanto, appare in contrasto col principio di leale collaborazione avere escluso, nelle fasi del citato procedimento, l'apporto partecipativo delle regioni, cioè di quei soggetti che, rientrando la relativa materia nella loro competenza legislativa residuale, sono dotati di specifiche attribuzioni, costituzionalmente tutelate, in tema di agricoltura e zootecnia (Corte cost., n. 247/2009).

Il principio del fair trial nel diritto amministrativo punitivo

Rinviando per approfondimenti agli articoli 1 e 12 della legge 68/1981, si osserva in questa sede che la qualificazione della sanzione nazionale formalmente amministrativa in termini di sanzione sostanzialmente penale implica, innanzitutto, la necessità che il procedimento volto alla sua irrogazione sia improntato alle garanzie dell'equo processo di cui all'art. 6, par. 1-3 CEDU.

Sul punto si impongono due considerazioni.

Per un verso, molte delle garanzie in questione – ci si riferisce, ad esempio, ai principi del contraddittorio, della completezza e della pubblicità dell'istruttoria, dell'obbligo di motivazione del provvedimento conclusivo, della ragionevole durata del procedimento – sono già previste a livello nazionale dalla l. n. 689/1981 e dalla legge generale sul procedimento amministrativo n. 241/1990.

Per altro verso, risulta evidente come, se intesa in senso radicale, la compiuta conformità del procedimento amministrativo ai canoni dell'equo processo avrebbe effetti dirompenti: a rigore, infatti, sarebbe pienamente conforme alle prescrizioni convenzionali solo un procedimento amministrativo paragiurisdizionale, nel quale le parti si trovino in condizione di totale parità di fronte a un'autorità decidente terza rispetto a esse e, al contempo, indipendente dall'esecutivo e da ogni influenza esterna (Allena).

Tale modello è, tuttavia, estraneo al nostro ordinamento amministrativo. Si pensi, emblematicamente, alla garanzia – tipica dell'equo processo ex art. 6 CEDU – che l'autorità decidente sia «indipendente [e imparziale]»: in disparte il modello delle Autorità amministrative indipendenti, si tratta di una prerogativa del tutto estranea al nostro sistema amministrativo nel quale le connessioni fra P.A. e potere esecutivo sono, non solo fisiologiche ma, invero, indispensabili ai fini dell'esercizio del potere di indirizzo politico-amministrativo che l'art. 95 Cost. attribuisce al Governo. Consapevole che il modello del procedimento amministrativo quasi judicial non è in linea di principio accolto nei tradizionali sistemi di diritto amministrativo continentale, la Corte di Strasburgo ha assunto un approccio elastico affermando che, ai fini convenzionali, le garanzie dell'equo e giusto procedimento non vanno tutte necessariamente soddisfatte nella fase amministrativa, potendo essere recuperate nella successiva fase giurisdizionale davanti a un giudice che sia investito del potere di riesaminare in fatto e in diritto la fattispecie con un sindacato pieno equivalente a quello dell'autorità amministrativa. In altri termini, la Corte EDU ha fatto propria una soluzione flessibile basata sulla concezione unitaria di procedimento e processo amministrativo: tutte le volte in cui non viene data concreta attuazione alle garanzie dell'art. 6 CEDU nel corso del procedimento amministrativo, assume rilevanza la successiva fase processuale come luogo di possibile correzione, sia pure ex post e in via eventuale, dei deficit di tutela che si siano verificati in sede procedimentale.

Tanto premesso, occorre rilevare che,per avere tale capacità correttiva, il processo dovrebbe costituire luogo di compiuto riesame della scelta amministrativa: la giurisdizione amministrativa, per poter effettivamente compensare le garanzie mancate in sede procedimentale, dovrebbe, cioè, necessariamente avere carattere pieno e sostitutivo (così Cons. St. VI, n. 4990/2019, che rivendica un sindacato sostitutivo del giudice amministrativo sulle sanzioni antitrust, in ragione della necessità di un accesso pieno e diretto del giudice al fatto ai fini dell'autonoma verifica dei presupposti dell'illecito sanzionato; la sentenza del Consiglio di Stato è stata confermata da Cass. S.U., 26920/2021, in Foro it. 1/2021, con commento di A. Caringella).

Al riguardo, dette caratteristiche sono rinvenibili nel giudizio di opposizione alle sanzioni amministrative ai sensi della l. n. 689/1981, posto che tale giudizio si configura come rivolto all'accertamento del fondamento della pretesa sanzionatoria, investendo la legittimità formale e sostanziale di detto provvedimento attraverso i mezzi istruttori propri del processo civile. Con riferimento, invece, alle sanzioni pecuniarie la cui contestazione è devoluta alla giurisdizione del G.A., ivi comprese quelle irrogate dalle Autorità amministrative indipendenti, l'art. 134 c.p.a. riconduce tali fattispecie alla giurisdizione di merito, sì che in tali casi – dando piena attuazione al parametro convenzionale della full jurisdiction – il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità tecnica di cui tali sanzioni sono espressione dovrebbe ritenersi forte, pieno e interamente sostituivo, attribuendosi al giudice non solo il potere di rideterminare il quantum della sanzione irrogata, ma anche, più a monte, il potere di sostituirsi all'amministrazione nelle valutazioni compiute in ordine all'accertamento del fatto illecito sanzionato.

Sul punto, deve, tuttavia, rilevarsi che, con peculiare riferimento alle sanzioni pecuniarie irrogate dalle Autorità amministrative indipendenti (sulle quali si è maggiormente incentrato il dibattito giurisprudenziale interno in tema di sindacato giurisdizionale sulla discrezionalità tecnica), parte della giurisprudenza amministrativa, nonostante, come detto, disponga di una giurisdizione estesa al merito ex art. 134 c.p.a., sembra (inspiegabilmente) opporre una certa resistenza a esercitare pienamente tutti i poteri decisori e sindacatori che il legislatore gli ha messo a disposizione (Cimini), limitando, anche in tali casi, il proprio sindacato – sia pur intrinseco – a un sindacato di tipo «debole». Da un filone della giurisprudenza amministrativa emerge cioè che l'intensità dello scrutinio sulle valutazioni tecniche sottostanti i provvedimenti sanzionatori adottati dalle A.A.I. non potrebbe in ogni caso superare il limite delle valutazioni tecniche «opinabili»: «il sindacato del giudice amministrativo sulla discrezionalità dell'Autorità si svolge non soltanto riguardo ai vizi dell'eccesso di potere (logicità, congruità, ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza del provvedimento sanzionatorio e del relativo impianto motivazionale), ma anche attraverso la verifica dell'attendibilità delle operazioni tecniche compiute, quanto a correttezza dei criteri utilizzati e applicati, con la precisazione che resta comunque fermo il limite della relatività delle valutazioni scientifiche, sicché al giudice amministrativo è consentito censurare la sola violazione che si ponga al di fuori dell'ambito di opinabilità, di modo che il relativo giudizio non divenga sostitutivo con l'introduzione di una valutazione parimenti opinabile (Cons. St. VI, 6 maggio 2014, n. 2302 e n. 13211/2019). Ne consegue, pertanto, che, secondo questo orientamento, nonostante la previsione legislativa di una giurisdizione di merito, il giudice amministrativo potrebbe esercitare un sindacato pieno solamente per il profilo della quantificazione della sanzione pecuniaria, senza possibilità di sostituire la propria valutazione tecnica a quella della P.A. per quanto attiene all'an della sanzione e, dunque, all'accertamento, di fatto e di diritto, dell'illecito.

L'impostazione giurisprudenziale descritta è stata oggetto di plurime critiche in dottrina. Per un verso si sostiene che il giudice amministrativo, nei confronti di provvedimenti amministrativi di sua spettanza, non potrebbe non avere gli stessi poteri riconosciuti al giudice ordinario; per altro verso, sul piano logico, ci si domanda come il sindacato pieno e sostitutivo sul quantum sanzionatorio possa andare disgiunto da un sindacato altrettanto pieno e sostitutivo sull'an dell'illecito, che della sanzione e del suo ammontare è il presupposto logico (Cimini). Pare, insomma, che almeno là dove la legge espressamente lo consente prevedendo una giurisdizione estesa al merito, non ci siano ragioni per escludere un sindacato integralmente sostitutivo esteso non solo alla quantificazione della sanzione, ma anche ai presupposti dell'illecito e, dunque, a ogni valutazione di fatto e di diritto rilevante per il suo accertamento.

In materia vedi sulle sanzioni inflitte dalle Autorità indipendenti, ove si approfondisce la ricostruzione delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. S.U., n. 11929/2019) dei principi espressi dalla giurisprudenza in ordine ai limiti sul controllo giurisdizionale relativo ai provvedimenti resi dalle Autorità indipendenti.

Vedi poi Cons. St. IV n. 3809/2021: «In tema di sindacato del giudice amministrativo sull'attività di regolazione, è ammessa una piena conoscenza del fatto e del percorso intellettivo e volitivo seguito del regolatore; l'unico limite in cui si sostanzia l'intangibilità della valutazione amministrativa complessa è quella per cui, quando ad un certo problema tecnico ed opinabile (in particolare, la fase di c.d. “contestualizzazione” dei parametri giuridici indeterminati ed il loro raffronto con i fatti accertati) l'Autorità ha dato una determinata risposta, il giudice (sia pure all'esito di un controllo “intrinseco”, che si avvale cioè delle medesime conoscenze tecniche appartenenti alla scienza specialistica applicata dall'Amministrazione) non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell'Autorità, dovendosi piuttosto limitare a verificare se siffatta risposta rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili, ragionevoli e proporzionate (sul piano tecnico), che possono essere date a quel problema alla luce della tecnica, delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto».

Ha affermato la Sezione che nel caso della regolazione economica, il controllo giurisdizionale «non sostitutivo» trova giustificazione in ragione di una specifica scelta di diritto sostanziale; quella per cui il legislatore, non essendo in grado di governare tutte le possibili reciproche interazioni tra i soggetti interessati e di graduare il valore reciproco dei vari interessi in conflitto, si limita a predisporre soltanto i congegni per il loro confronto dialettico, senza prefigurare un esito giuridicamente predeterminato. In tali casi, l'attività integrativa del precetto corrisponde ad una tecnica di governo attraverso la quale viene rimesso ai pubblici poteri di delineare in itinere l'interesse pubblico concreto che l'atto mira a soddisfare.»

Il principio di legalità algoritmica

Tar. Napoli, sez. VII, 14 novembre 2022, n. 7003 ­ – avvalora, invece, l'orientamento già emerso in seno al Consiglio di Stato circa l'utilizzabilità dell'algoritmo all'interno del procedimento amministrativo, al fine di agevolare e accelerare la decisione amministrativa, garantendo al contempo l'imparzialità dell'amministrazione

Le esigenze algoritmiche dell'amministrazione e, più in generale, le esigenze tecnologiche dell'amministrazione ben possono (e devono) essere soddisfatte per assicurare il principio del buon andamento, sancito dall'art. 97 Cost., ovvero per salvaguardare il diritto ad una buona amministrazione, nella versione offerta dell'art. 41 CDFUE.

Il ricorso al procedimento algoritmo e, finanche, alla decisione automatizzata non può tradursi, tuttavia, in un depotenziamento della tutela del privato nei confronti della pubblica amministrazione. La tecnica non può ridondare, allora, in danno né della trasparenza amministrativa né della motivazione della decisione amministrativa. Non può significare, quindi, un ritorno all'oscurità, bensì deve coniugarsi con la rivendicazione di un'amministrazione che si renda manifesta al privato, garantendo l'accessibilità all'algoritmo, ossia la conoscibilità e la comprensibilità di quest'ultimo sì da sorreggere, dal punto di vista motivazionale, ex art. 3, l. 241/90, la scelta amministrativa. La matematica deve rivelare la motivazione; i numeri devono tradursi, quindi, nella regola giuridica sottesa all'algoritmo; in definitiva, l'algoritmo deve farsi intellegibile ai suoi destinatari. Ciò al fine di consentire, da un lato, il pieno esercizio del diritto di difesa da parte del soggetto inciso dal provvedimento, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost., dall'altro, il pieno sindacato di legittimità da parte del giudice amministrativo.

Problemi attuali

Al di là dell'individuazione dei principi che regolano l'azione amministrativa, l'art. 1 in esame offre una serie di problemi ricostruttivi che riguardano in particolare l'ambito oggettivo di individuazione dell'attività dell'amministrazione che soggiace ai detti principi, ma anche l'ambito soggettivo di coloro la cui attività è orientata dai detti principi. Ancora va valutato in che modo il concreto esplicarsi dei principi interessi lo svolgersi dell'attività amministrativa da suo sorgere al suo culmine. Infine, resta da verificare in che modo l'innesto dei principi della collaborazione e della buona fede conformi l'attività amministrativa stessa.

La privatizzazione della azione amministrativa (commi 1-bis e 1-ter)

Una delle novità maggiormente dibattute introdotte dalla novella del 2005 riguarda il comma 1-bis, inserito nell'articolo in esame dalla l. n. 15/2005. Esso prevede espressamente che «La pubblica amministrazione, nell'adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente».

La norma testimonia il superamento definitivo del modulo autoritativo quale esclusiva forma di raggiungimento dell'interesse pubblico.

Si assiste ad un'equiparazione dello strumento unilaterale-autoritativo a quello consensuale-paritetico nella cura dell'interesse pubblico. Gli unici limiti che incontra l'amministrazione al ricorso della disciplina privatistica sono dati dall'adozione di un atto autoritativo e dall'assenza di disposizioni legislative che precludano l'utilizzo di strumenti negoziali.

È stato così consacrato espressamente ilprincipio della privatizzazione dell'attività amministrativa, che aveva già trovato ingresso nel nostro ordinamento nell'ultimo decennio, tanto che una parte della giurisprudenza aveva coniato la nuova categoria concettuale degli interessi legittimi di diritto privato (Cass. S.U., n. 41/2000).

Da sempre, invero, la giurisprudenza ha sottolineato come l'attività della p.a. sia da considerarsi tout court amministrativa non solo ove l'amministrazione eserciti pubblici poteri autoritativi e pubbliche funzioni, ma anche ove essa, nei limiti consentiti dall'ordinamento, persegua le proprie finalità istituzionali mediante una attività sottoposta, in tutto od in parte, alla disciplina prevista per i rapporti tra privati. Anche l'attività di diritto privato costituisce pertanto cura concreta di interessi della collettività al pari dell'attività di diritto amministrativo in senso stretto, non potendosi discriminare l'attuazione della trasparenza e dell'imparzialità in base al criterio formale del regime giuridico dell'attività delle p.a.

Sul tema v. Cass. S.U., n. 19502/2008, che ha sottolineato che «Nel caso in cui la pubblica amministrazione, per la realizzazione delle sue finalità, ricorra a strumenti giuridici che sono ordinariamente propri dei soggetti privati, solo l'attività negoziale, per tutto quel che riguarda la disciplina dei rapporti che dalla stessa scaturiscono, rimane assoggettata ai principi e alle regole del diritto comune; mentre restano operanti le regole della disciplina amministrativa attinenti all'organizzazione della pubblica amministrazione ed alla formazione ed estrinsecazione delle sue determinazioni. Pertanto la fase preliminare, caratterizzata dalla formazione della volontà della P.A., resta sul piano del diritto amministrativo, ed è disciplinata dalle regole c.d. dell'evidenza pubblica, poste dalla legge, dai regolamenti nonché da atti generali della stessa amministrazione, e regolanti tra l'altro la tipologia del procedimento rivolto alla scelta del contraente privato; di conseguenza, l'interesse alla legittimità sia dei singoli atti del procedimento interno con cui l'amministrazione manifesta l'intendimento di stipulare il negozio, sia delle scelte di avvalersi dell'uno piuttosto che dell'altro degli strumenti giuridici stabiliti dal legislatore per la ricerca del contraente privato con cui concluderlo, esula dall'ambito dell'interesse semplice, assumendo natura e consistenza di interesse legittimo, come tale tutelabile dinanzi al giudice amministrativo nei confronti di quei soggetti che si trovino in una posizione particolarmente qualificante rispetto all'esito di detto procedimento». Vedi anche Cons. St. V, n. 5845/2008; T.A.R. Lazio, Roma III, n. 5479/2008).

Sulla scorta di tali considerazioni, ad esempio, il Consiglio di Stato ha ritenuto che «il diritto di accesso non è escluso per gli atti di diritto privato dei soggetti nei cui confronti esso è in generale esercitabile, in quanto l'accesso configurato dalla l. n. 241/1990 è correlato non agli atti di diritto amministrativo ma alla attività di diritto amministrativo, che comprende nel suo ambito sia attività di diritto amministrativo sia attività di diritto privato, che costituisce cura concretata di interessi della collettività non meno della prima» (Cons. St. IV, n. 649/1997).

Il comma 1-bis, quindi, ha l'indiscusso merito di aver consacrato definitivamente il principio in questione, fugando gli ultimi dubbi in ordine alla configurabilità dell'attività amministrativa mediante atti di diritto privato. Esso, tuttavia, consta di una formulazione assai sintetica, che solleva molte perplessità interpretative in ordine al suo esatto contenuto e numerosi dubbi applicativi.

Nello specifico, dubbia è la portata della norma.

Secondo alcuni (Caringella, 924), essa ribalta quel principio secolare per il quale le pubbliche amministrazioni agiscono di regola secondo il diritto pubblico e, solo in via eccezionale, nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo il diritto privato.

Tuttavia, va osservato che la norma esterna un principio presente nell'ordinamento giuridico da circa un ventennio, ossia quello della generale capacità negoziale della pubblica amministrazione e della soggezione dell'attività paritetica alle normali regole del diritto comune.

La norma esprime più propriamente una sorta di preferenza per il diritto privato ove lo strumento paritetico, in omaggio al principio di proporzionalità possa, in modo altrettanto efficiente ma meno invasivo soddisfare l'interesse pubblico (ad esempio la preferenza per la compravendita rispetto all'esproprio, per la locazione invece che per la concessione di bene pubblico ecc.).

Al riguardo, si è ancora affermato che anche per gli atti non autoritativi l'amministrazione deve assicurare il rispetto dei principi posti dalla legge, una volta che non si ritiene ammissibile interpretare la norma nel senso di svincolare l'attività amministrativa non autoritativa dal rispetto dei principi costituzionali e da quelli espressi dal comma 1, dell'art. 1, della l. n. 241/1990.

Tale previsione, come già evidenziato, deve essere intesa nel senso che essa segna l'apertura all'impiego di strumenti privati per il conseguimento di finalità pubbliche senza necessità di previsione legislativa (Atelli, 49). Ciò, si è rilevato, non costituisce alcuna novità, nel senso che, ferma la capacità generale di diritto privato delle amministrazioni, non occorre nessuna autorizzazione legislativa per attivarla, mentre la legge può intervenire per limitarla (v. Casetta).

In via di principio, quindi, il ricorso al diritto pubblico deve ritenersi equivalente rispetto al ricorso al diritto privato, anche se il novellato art. 1 della l. n. 241/1990 potrebbe persino essere interpretato come teso a qualificare l'atto di natura autoritativa quale opzione in un certo senso residuale, cui fare ricorso, cioè, nei soli casi in cui risultasse davvero necessario assicurare supremazia all'interesse pubblico. Tale equivalenza trova ad ogni modo espressione in più direzioni: si va dai casi in cui l'ente pubblico prende forma privatistica esso stesso, adottando atti che tendono di riflesso a mutuare dal diritto privato anche gli effetti, a quelli in cui l'ente rimane a tutti gli effetti tale, sul piano soggettivo e ciò nondimeno sul piano dell'attività fa uso del diritto privato (Atelli, 51).

La disciplina relativa all'attività di diritto privato della p.a. è compendiata, da ultimo, dal dettato di cui al comma 1-ter, della norma in commento, come modificato in sede di riforma del 2009, in base al quale «I soggetti privati preposti all'esercizio di attività amministrative assicurano il rispetto dei criteri e dei principi di cui al comma 1». In tali casi il concessionario privato viene a svolgere l'esercizio di pubbliche funzioni con lo svolgimento di un'azione amministrativa anche autoritativa, che come tale soggiace ai canoni di cui al citato comma 1 (sul tema v., ex multis, Cons. St. VI, n. 269/2009; Cons. St. VI, n. 5569/2007, che, in materia di accesso ai documenti amministrativi, ha stabilito che «Gli art. 22 comma 1 lett. c) e 23, l. n. 241/1990 tolgono ogni dubbio sulla legittimazione passiva all'accesso, oltre che dei soggetti pubblici, anche dei soggetti privati che abbiano in gestione l'attività di erogazione di servizi pubblici ed in generale di tutti i soggetti di diritto privato che svolgano attività di pubblico interesse». Conf. Cons. St. VI, n. 5987/2009; Cons. St. VI, n. 5625/2009; T.A.R. Lombardia, Milano IV, n. 4061/2009; Cons. St. IV, 5 settembre 2007, n. 4645/2007; Cons. St. VI, 9 marzo 2007, n. 1119; T.A.R. Lombardia, Milano I, 19 aprile 2007, n. 1875).

I principi di non aggravamento (comma 2) e di adeguatezza istruttoria.

Al secondo comma, rimasto inalterato dalla novella, è sancito il principio di non aggravamento, consacrato per la prima volta nella l. n. 241/1990. Esso stabilisce che «La pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento se non per straordinarie e motivate esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria».

Il principio in questione ispira l'intera norma, inteso a ridurre le fasi del procedimento e ad accelerarne la definizione. In quest'ottica assurge a ruolo fondamentale la c.d. «semplificazione procedimentale» di cui rappresentano elementi apicali la conferenza dei servizi (artt. 14 e ss.), le norme sul silenzio (artt. 20 e ss.) o gli accordi procedimentali (art. 11), tutti finalizzati alla celere ed efficiente definizione del procedimento amministrativo.

Esso, pertanto, comporta una particolare attenzione da parte della p.a. nello svolgere nel modo più sintetico e funzionale possibile l'esercizio della propria attività.

Al principio in commento funge da contraltare l'opposto principio di adeguatezza istruttoria, che, al fine di rispettare i principi di efficienza, efficacia e buon andamento dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost., garantisce la attenta e ponderata valutazione dell'iter procedimentale.

Il secondo comma della norma in esame, quindi, impone una corretto bilanciamento tra i due principi di cui sopra, imponendo che la p.a. non possa aggravare il procedimento tranne che in ipotesi di straordinarie esigenze imposte dallo svolgimento dell'istruttoria, le quali, peraltro, devono essere adeguatamente motivate.

Ne consegue che «le amministrazioni che bandiscono una gara pubblica devono acquisire d'ufficio i documenti, necessari all'istruttoria, già in loro possesso, in coerenza con le esigenze di semplificazione amministrativa ed in ossequio al divieto di aggravamento del procedimento» (Cons. St. IV, n. 4011/2007).

La sufficienza qualitativa e quantitativa dei mezzi istruttori, pertanto, vale a fugare l'eccesso di potere o anche il vizio di violazione di legge per contrarietà ai principi di efficienza, divieto di non aggravamento, economicità dei mezzi di cui al comma 1 dell'art. 1 (Cons. St. IV, n. 2847/2007).

Precipitato di tale principio consiste nella non necessità di rinnovare l'intero procedimento in caso di illegittima esclusione da una gara d'appalto di una ditta, potendo l'amministrazione legittimamente mantenere fermo il sub-procedimento di presentazione delle offerte e disporre la rinnovazione solo della fase dell'esame comparativo delle offerte già pervenute. Depongono in tal senso «sia il canone fondamentale della conservazione degli atti giuridici, rafforzato dalle specifiche regole di economicità dell'azione amministrativa e del divieto di aggravamento del procedimento, sia il principio in forza del quale l'esercizio del potere di annullamento va circoscritto ai soli atti effettivamente affetti da illegittimità, mantenendosi validi ed efficaci gli atti anteriori» (Cons. St. IV, n. 43/2005).

Con riferimento alla materia concorsuale, i giudici amministrativi hanno ritenuto non contrastante con il principio di non aggravamento del procedimento la prescrizione, contenuta in un bando di concorso, di allegazione, con esaustiva precisione, di tutti i titoli valutabili, compresi quelli già in possesso dell'amministrazione interessata al concorso, in quanto siffatta pretesa si manifesta pienamente conforme a detto principio, così come bilanciato con quello di efficienza, efficacia, celerità ed economicità, «consentendo all'amministrazione stessa di procedere agevolmente e rapidamente alla ricerca dei titoli in suo possesso, soprattutto quando si tratti, come nel caso di specie, di amministrazione strutturalmente complessa ed articolata in una molteplicità di uffici distinti territorialmente e funzionalmente e quando la procedura concorsuale comporti l'attribuzione di un elevato numero di posti dirigenziali ed una elevata partecipazione di candidati, con conseguente mole documentale da acquisire e valutare» (Cons. St. IV, n. 6948/2009).

Il principio di collaborazione e buona fede tra privato e pubblica amministrazione.

Il nuovo comma 2-bis dell'art. 1, prevede espressamente che i rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione siano improntati al rispetto del principio della collaborazione e della buona fede. La lettera della legge è tale da far ritenete che il principio di collaborazione e buona fede abbraccia ogni tipo di rapporto esistente tra l'amministrazione e il privato (Ad. plen. 19-20 e 21 del 2021).

Già la giurisprudenza amministrativa ai suoi massimi livelli da tempo (Cons. St., Ad. plen., n. 12/2018) aveva consacrato il principio di buona fede, quale misura dell'operato dell'amministrazione. La l. 120/2020 inserisce espressamente il principio in questione tra quelli che devono orientare l'attività dell'amministrazione, la norma dunque estende il principio di collaborazione e buona fede ai rapporti tra privato e amministrazione, ritenendo che l'agere amministrativo, anche quello procedimentalizzato, debba osservare il detto principio non solo quando si tratta di assumere decisioni pluristrutturate, ossia quando l'amministrazione si confronta con un'altra amministrazione, ma anche quando il potere pubblico interloquisce con la sfera del privato. Sotto questo profilo è interessante notare che a differenze delle altre disposizioni normative il comma 2-bis si rivolge non solo al titolare del potere pubblico, ma anche al privato, dovendo anche quest'ultimo improntare il proprio agire al rispetto del principio in questione.

L'utilizzo di una clausola generale di così ampia latitudine consente di adattare in modo duttile gli obblighi dell'amministrazione e del privato nascenti dal rapporto amministrativo. È chiaro che il sorgere di obblighi accessori derivanti dall'applicazione del principio in esame dovrà essere orientato sulla stretta tipicità degli obblighi principali nascenti dal rapporto amministrativo e dovrà porsi in termini di strumentalità rispetto agli stessi. Ciò onde evitare di uscire al di fuori dell'ombrello della legalità. Le prime applicazioni del principio in questione sono in questo senso. Ad esempio, Cons. St. V, n. 6132/2021, evidenzia che l'art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016 non stabilisce la comunicazione via pec solamente per gli atti lesivi, quanto piuttosto, a bene intendere il fondamento di razionalità della norma, con riguardo a provvedimenti importanti in relazione agli effetti (favorevoli o sfavorevoli) che producono. La disposizione si pone cioè nella prospettiva dell'idoneità del provvedimento (da comunicare via pec) ad esplicare effetti costitutivi od estintivi (in senso lato) nella dinamica del procedimento di gara ed in tale direzione appare difficilmente contestabile che, ove non diversamente disposto in modo esplicito ed accompagnato da cautele dalla lex specialis, lo strumento di comunicazione proporzionato e coerente con gli immanenti principi della collaborazione e della buona fede (art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990), per la richiesta di soccorso istruttorio sia proprio la pec.

Il principio del legittimo affidamento è applicabile anche agli atti endoprocedimentali?

Assai complessa è la questione relativa all'invocabilità del legittimo affidamento rispetto ad atti endoprocedimentali: ci si chiede, in particolare, se detta posizione di vantaggio debba derivare necessariamente da atti vincolanti, per cui è meritevole di tutela solo l'affidamento derivante da un provvedimento che definisca un procedimento, ovvero anche da atti aventi carattere non vincolante, con la conseguenza di attribuire tutela anche all'affidamento derivante da atti endoprocedimentali (quali pareri o raccomandazioni) che non definiscono il procedimento, ma creano vantaggi e consolidano un affidamento in capo al privato.

All'orientamento che ne riconosce l'applicabilità del principio agli atti in questione, rimarcando la possibilità che anch'essi sono idonei ad ingenerare nel destinatario un affidamento meritevole di tutela, in quanto attributivi di posizioni concrete di vantaggio, si contrappone l'orientamento, per il vero prevalente (Garofoli, Ferrari, 564; F. Caringella, 953), che esclude tale possibilità.

Tali provvedimenti, invero, ingenerano nei privati mere aspettative, e non sono quindi in grado di incidere sul potere della P.A. di negare o meno il bene della vita: l'affidamento comunitario, infatti, tutela e presuppone la spettanza in capo al privato del bene della vita e non già la mera speranza di ottenerlo. Si pensi al caso in cui il privato non ha il bene ma nutre una aspettativa, spera nell'attribuzione del bene futuro: in questo caso l'affidamento rileva come semplice elemento di cui la P.A. deve tener conto nell'esercizio del potere, ma non è di per sé preclusivo all'esercizio dello stesso. L'amministrazione, quindi, potrà semplicemente limitarsi a dar conto, a fini meramente motivazionali, delle ragioni per le quali non ritiene di confermare quanto emerso nell'atto endo-procedimentale circa la futura (mancata) attribuzione della utilità al privato.

Il principio del legittimo affidamento è applicabile anche agli atti di diritto privato?

Sul piano strettamente applicativo si è posta la questione se, ai fini dell'affidamento del privato, siano rilevanti solo atti di diritto pubblico o anche atti di diritto privato, e dunque se il vantaggio, ai fini del consolidarsi di un legittimo affidamento del privato, possa essere attribuito non solo con provvedimento pubblicistico ma anche mediante un atto di diritto privato.

Sul punto è agevole rilevare che, anche in questo caso, vale l'applicabilità dei principi generali che presiedono l'attività amministrativa in toto, per cui la qualificazione giuridica dell'atto è assolutamente indifferente: ciò che rileva, invece, è esclusivamente l'azione della pubblica amministrazione (Caringella (10), 924; Garofoli, Ferrari (13), 564).

In proposito, peraltro, giova rammentare come il diritto comunitario sia indifferente alla forma e che, per il principio di certezza e stabilità dei rapporti giuridici, ai fini della tutela del principio del legittimo affidamento, non rileva il carattere pubblicistico o privatistico dell'atto: deve ritenersi, infatti, che ogni qualvolta la P.A. dà la stura ad una situazione che poi si consolida con il trascorrere del tempo, l'atto è definitivo e gli effetti dell'atto non possono essere rimossi. Ne consegue che, se la ratio è la tutela della certezza e l'affidamento del privato nei rapporti giuridici come valore che è persino preponderante rispetto alla legittimità degli atti stessi, è evidente che è indifferente a tale scopo la natura formale dell'atto.

Rinviando per approfondimenti al commento all'articolo 2 del TU 165/0221, si osserva in questa sede che, secondo la tradizionale giurisprudenza di legittimità, la richiesta di ripetizione di quanto corrisposto al dipendente pubblico quale retribuzione sine titulo non trova ostacolo nella buona fede e nell'affidamento dell' accipiens , con esclusione, quindi, di qualsivoglia legittimo affidamento. Ciò appare però contrastare, secondo Cass. sez. lav., ord. interlocutoria, 14 dicembre 2021, n. 40004 di rimessione alla Consulta, con l'art. 1 Protocollo 1 Cedu, nell'interpretazione allo stesso fornita dalle più recenti sentenze della Corte di Strasburgo.

Nell'ordinanza in commento la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha quindi sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c. per violazione degli art. 11 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo 1 Cedu, come interpretato dalla Corte Edu, nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del percipiente alla definitività dell'attribuzione, consente un'ingerenza non proporzionata nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni.

In proposito, la Cassazione ha rammentato la sentenza 11 febbraio 2021 – ricorso nr. 4893/2013 Casarin c. Italia , nella quale la Corte di Strasburgo, pur ravvisando la legalità del recupero (essendo una misura prevista dalla Legge) e la legittimità del suo scopo (l'interesse pubblico a che i beni ricevuto in assenza di titolo vengano restituiti allo Stato), ha, tuttavia, riscontrato la carenza del requisito della proporzionalità.

In buona sostanza, quindi, per la Corte Edu occorre sempre effettuare un bilanciamento tra interesse generale ed interesse dell'individuo al rispetto dei propri beni, essendo elementi decisivi ai fini dell'esito del bilanciamento stesso le seguenti circostanze: spontaneità delle corresponsioni, presunzione di legittimità di quanto versato da un ente pubblico sulla base di un procedimento amministrativo, eventuale fondamento delle corresponsioni su contrattazione decentrata, non manifesta evidenza dell'assenza di titolo, durata delle corresponsioni e arco temporale decorso prima della richiesta restitutoria, assenza di una espressa riserva di ripetizione.

La Cassazione, inoltre, ha evidenziato come la «buona fede» menzionata dall'art. 2033 c.c. sia concetto differente dal «legittimo affidamento» del dipendente alla definitività dell'attribuzione di cui all'art. 1 Protocollo 1 alla Cedu, interpretato dalla stessa Corte Edu, in quanto quest'ultimo è fondato sul concorso di plurime circostanze (tra le quali rientra anche la stessa buona fede).

La ricezione nell'ordinamento nazionale dei principi sottesi all'art. 1 Protocollo 1 Cedu sarebbe l'esito, a ben vedere, non di una diversa applicazione dell'art. 2033 c.c., ma di una vera e propria disapplicazione della norma codicistica in favore di una disposizione convenzionale.

Rilevata, però, l'impossibilità di procedere alla disapplicazione della norma interna contrastante con una norma della Convenzione Edu ed all'applicazione diretta di quest'ultima – per la sua posizione nel sistema delle fonti – la Corte di Cassazione ha reputato quale unica via percorribile quella di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c., nel senso di sua contrarietà agli artt. 11 e 117 Cost., in rapporto all'art. 1 del Protocollo 1 alla Cedu, nella parte in cui, a fronte di un indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di un legittimo affidamento alla definitività dell'attribuzione in capo al dipendente, consente un'ingerenza sproporzionata nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni.

In materia vedi anche Cons. St. III, 5014/2021, secondo cui non può ipotizzarsi la ripetizione di indebito trattamento economico al pubblico dipendente, nel caso di imputabilità dell'errore interpretativo posto a base della erogazione in via esclusiva all'Amministrazione procedente. Ferma restando, dunque, l'eventuale responsabilità erariale dell'autore dell'errore, viola il principio di proporzionalità previsto dall'art. 1 del Protocollo alla Convenzione la richiesta restitutoria sopraggiunta a considerevole distanza di tempo dalla erogazione delle somme, purché le stesse siano riconducibili all'attività professionale ordinaria del dipendente e non ad una prestazione effettuata una tantum e «isolata», non vi sia stato un mero errore di calcolo ovvero l'esplicita indicazione della riserva di ripetizione.

La risposta della Corte  Costituzionale: la buona fede esecutiva tutela dell'affidamento  legittimo del destinatario degli emolumenti indebiti

la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 8, pubblicata il 27 gennaio 2023. La Corte costituzionale esclude l'incostituzionalità dell'art. 2033 c.c. e indica nella buona fede oggettiva il limite alla esigibilità della restituzione.

In materia di tutela del legittimo affidamento in relazione a indebiti retributivi o previdenziali erogati da soggetti pubblici, l'interesse protetto dalla CEDU e ricostruito dalla Corte EDU può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva.

La pronuncia in commento trae origine da plurime questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2033 cod. civ., nella parte in cui non prevede l'irripetibilità degli indebiti previdenziali non pensionistici (indennità di disoccupazione, nella fattispecie) e retributivi erogati da soggetti pubblici laddove le somme siano state percepite in buona fede e la condotta dell'ente erogatore abbia ingenerato un legittimo affidamento del percettore circa la spettanza della somma percepita.

La premessa è che l'identificazione di una situazione di legittimo affidamento non comporta, per ciò solo, l'intangibilità della prestazione percepita dal privato. La Corte di Strasburgo, infatti, riconosce l'interesse generale sotteso all'azione di ripetizione dell'indebito, prevedendo la necessità di un equo bilanciamento fra le esigenze sottese al recupero delle prestazioni indebitamente erogate e la tutela dell'affidamento incolpevole.

In particolare, la Corte EDU riconosce agli Stati contraenti un margine di apprezzamento ristretto, onde evitare che gravi sulla persona fisica un onere eccessivo e individuale, avuto riguardo al particolare contesto in cui si inquadra la vicenda (così Corte EDU, Grande camera, 5 settembre 2017, Fábián contro Ungheria). In definitiva, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo offre una ricostruzione dell'art. 1 Prot. addiz. CEDU volta a stigmatizzare interferenze sproporzionate rispetto all'affidamento legittimo ingenerato dall'erogazione indebita da parte di soggetti pubblici di prestazioni di natura previdenziale, pensionistica e non, nonché retributiva.

L'ordinamento italiano appronta un complesso apparato di rimedi, che opera a differenti livelli. Rispetto a specifiche tipologie di prestazioni indebite, differenti rispetto a quelle oggetto dei giudizi a quibus, il sistema normativo interno esclude tout court la ripetizione dell'indebito, offrendo una tutela particolarmente incisiva. Si tratta, innanzitutto, di prestazioni previdenziali, pensionistiche e assicurative, per le quali il legislatore italiano dispone l'irripetibilità, con la sola eccezione dell'ipotesi in cui l'accipiens fosse consapevole di percepire un indebito e, dunque, fosse in uno stato soggettivo di dolo (art. 52, co. 2, e art. 55, co. 5, della legge n. 88/1989).

Analoga disciplina si desume, poi, da un complesso di previsioni concernenti prestazioni economiche di natura assistenziale, rispetto alle quali la giurisprudenza di legittimità, richiamando l'ordinanza della Corte Costituzionale n. 264/ del 2004, ha riconosciuto la sussistenza di un principio di settore, in virtù del quale la regolamentazione della ripetizione dell'indebito è tendenzialmente sottratta a quella generale del codice civile (cfr. Cass. Civ., n. 13223/2020). In questi casi, non è richiesta alcuna prova dell'affidamento, sicché quest'ultimo, più che rilevare quale interesse protetto, si configura – unitamente al rilievo costituzionale riconosciuto, ai sensi dell'art. 38 Cost., al tipo di prestazioni erogate – quale ratio ispiratrice di fondo della disciplina, che si connota in termini di previsione eccezionale, frutto di una valutazione che la Consulta ha più volte ritenuto rimessa alla discrezionalità del legislatore (Corte Cost., n. 148/2017 e Corte Cost. n. 431/1993).

Parimenti, si annovera tra le tutele specifiche e particolarmente incisive, che escludono la ripetizione dell'indebito, la previsione di cui all'art. 2126 cod. civ., riferita a una prestazione di natura retributiva. Tale disposizione costituisce, infatti, un presidio contro pretese restitutorie avanzate dal datore di lavoro, compresa la pubblica amministrazione (Cass. Civ., n. 32263/20121 e Cass. Civ. n. 21523/2018), ma a condizione che l'indebito retributivo corrisponda a una specifica prestazione, effettivamente eseguita.

Al di fuori del raggio di disposizioni speciali che, nel campo delle prestazioni retributive, previdenziali e assistenziali, prevedono, nell'ordinamento italiano, l'irripetibilità dell'attribuzione erogata, opera, viceversa, la disciplina generale dell'indebito oggettivo ex art. 2033 cod. civ., a norma del quale chi ha eseguito un pagamento non dovuto ha diritto di ripetere ciò che ha pagato ed ha diritto ai frutti e agli interessi dal giorno del pagamento, se chi lo ha ricevuto era in mala fede, oppure, se questi era in buona fede, dal giorno della domanda.

La disciplina dell'art. 2033 cod. civ. tiene conto, da un lato, della buona fede soggettiva dell'accipiens (stabilendo che, in presenza di tale presupposto, i frutti e gli interessi vanno corrisposti solo a partire dalla domanda di restituzione). Dall'altro lato, e soprattutto, si rinviene nell'ordinamento italiano la clausola generale di buona fede oggettiva o correttezza, suscettibile di valorizzare la specificità degli elementi posti in risalto dalla giurisprudenza della Corte EDU a fondamento del legittimo affidamento, così superando ogni dubbio di possibile contrasto con l'art. 117, co. 1, Cost.

Tale clausola generale, per un verso, plasma, attraverso l'art. 1175 cod. civ., l'attuazione del rapporto obbligatorio e, dunque, condiziona – dando rilievo agli interessi in gioco e alle circostanze concrete – l'esecuzione dell'obbligazione restitutoria, che ha fonte nell'art. 2033 cod. civ.

Per un altro verso, la buona fede oggettiva dà fondamento, tramite l'art. 1337 cod. civ., alla stessa possibilità di identificare un affidamento legittimo, suscettibile di rinvenire una tutela, sia quale interesse che, ex fide bona, in base al citato art. 1175 cod. civ., condiziona l'attuazione del rapporto obbligatorio, sia quale situazione soggettiva potenzialmente meritevole di protezione risarcitoria, proprio attraverso la disciplina dell'illecito precontrattuale. Pertanto, l'interesse protetto dalla CEDU e ricostruito dalla Corte EDU può trovare riconoscimento, nel nostro ordinamento, dentro la cornice generale della buona fede oggettiva.

Le conseguenze possono essere varie: si va dalla possibilità di rateizzare il debito fino all'inesigibilità temporanea o parziale della prestazione restitutoria, tenuto conto delle condizioni economiche del debitore e dell'eventuale coinvolgimento di diritti inviolabili.

Tali rimedi inducono, quindi, a ritenere che il quadro normativo vigente superi il vaglio della non sproporzione elaborato dalla Corte di Strasburgo, con conseguente in fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Bibliografia

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