Legge - 7/08/1990 - n. 241 art. 15 - Accordi fra pubbliche amministrazioni 1

Maurizio Francola
aggiornato da Francesco Caringella

Accordi fra pubbliche amministrazioni 1

 

1. Anche al di fuori delle ipotesi previste dall'articolo 14, le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.

2. Per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall'articolo 11, commi 2 e 3  2.

2-bis. A fare data dal 30 giugno 2014 gli accordi di cui al comma 1 sono sottoscritti con firma digitale, ai sensi dell' articolo 24 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 , con firma elettronica avanzata, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, lettera q-bis), del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, ovvero con altra firma elettronica qualificata, pena la nullità degli stessi.». Dall’attuazione della presente disposizione non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato. All’attuazione della medesima si provvede nell’ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie previste dalla legislazione vigente 3.

[3] Comma inserito dall'articolo 6, comma 2, del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179 e successivamente modificato dall'articolo 6, comma 5, del D.L. 23 dicembre 2013, n. 145 convertito, con modificazioni dalla Legge 21 febbraio 2014, n. 9.

Inquadramento

Prima della legge del 1990 non esisteva una disciplina generale degli accordi tra P.A., posto che i c.d. «accordi di programma» trovavano un'applicazione assai frammentaria e limitata in diverse leggi di settore.

La scelta di generalizzare l'utilizzo dello strumento degli accordi tra diverse amministrazioni appare in linea con la più generale tendenza del legislatore a favorire l'esercizio consensuale della potestà amministrativa, al fine di coordinare i diversi pubblici interessi di cui le medesime sono portatrici (Cons. St. V I, n. 25/2001; T.A.R. Molise, Campobasso, I, n. 218/2008; T.A.R. Lombardia, Milano, III, n. 612/2005; Cons. St. V I, n. 1902/2002; T.A.R. Abruzzo, L'Aquila, n. 679/2001; C. Conti, sez. contr., n. 30/2000), in piena armonia con la tendenza alla progressiva affermazione di un'amministrazione partecipata che permea l'intera legge sul procedimento.

Gli accordi, invero, rappresentano lo strumento attraverso il quale le singole amministrazioni si autovincolano nel futuro esercizio dell'attività amministrativa, provvedimentale o consensuale, per svolgere in collaborazione attività di interesse comune. Infatti, il frammentarsi, nello stato moderno, delle funzioni e dei servizi pubblici e la loro conseguente attribuzione a soggetti pubblici distinti e, nel contempo, l'ineludibile esigenza di garantire alle collettività interessate tramite gli enti che le rappresentano una presenza effettiva nell'assunzione delle decisioni amministrative che le riguardano, hanno determinato la necessità di un sempre più accurato coordinamento, obiettivo che può sicuramente essere soddisfatto anche mediante accordi tra i soggetti pubblici di volta in volta coinvolti (Pericu, 1617).

L'art. 15, dunque, consente alle PP.AA., al di fuori dall'ambito di operatività dell'istituto della conferenza di servizi, di concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune.

Agli accordi si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni previste per gli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento, di cui all'art. 11 della l. n. 241/1990.

La precipua finalità della norma risiede nella necessità di coordinamento tra soggetti pubblici nell'esercizio delle loro funzioni determinate dalla legge, in un'ottica di semplificazione dell'azione amministrativa.

Il contenuto e la funzione elettiva degli accordi tra pubbliche amministrazioni è, pertanto, quella di regolare le rispettive attività funzionali, purché di nessuna di queste possa appropriarsi di quelle degli enti stipulanti (Cons. St. V, n. 3849/2013).

In altre parole, gli accordi di cui alla disposizione in esame – quali strumenti pubblicistici e pattizi di riduzione della complessità delle funzioni amministrative attribuite a diversi soggetti pubblici che consentono altresì la soddisfazione armonica e contestuale di una pluralità di diversi interessi pubblici – permettono di realizzare un'azione coordinata tra diverse pubbliche amministrazioni, al fine di rendere l'azione amministrativa efficace, efficiente, razionale e adeguata in ossequio al principio costituzionale del buon andamento di cui all'articolo 97 della Costituzione.

Peraltro, l'esercizio del potere con lo strumento organizzativo consensuale assicura la massima semplificazione dell'azione amministrativa, in quanto previene i possibili conflitti di competenze e realizza la sussidiarietà orizzontale di cui all'articolo 118, comma 4, della Costituzione (T.A.R. Piemonte, Torino, I, n. 600/2019).

Le convenzioni tra enti locali ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000 rappresentano con ogni evidenza una species dell’ampio genus degli accordi fra pubbliche amministrazioni di cui all’art. 15 l. n. 241 del 1990.Cons. Stato IV, n. 9842/2023. Sulla natura dell’accordo di programma quale species del più ampio genus degli accordi fra amministrazioni di cui all’art. 15 della l. n. 241 del 1990, (cfr.  anche T.a.r. Veneto  II, n. 1169/2023). Quanto al piano formale, poi il comma 2-bis dell’art. 15 l. n. 241 del 1990 indica con chiarezza, quale unica forma di validità di siffatti accordi, la stipulazione mediante una specifica tipologia di sottoscrizione, quella digitale: in caso contrario, gli accordi sono radicalmente “nulli”, ossia inidonei a produrre un qualunque effetto giuridico. Siffatta previsione di nullità in caso di mancanza della sottoscrizione digitale ha portata generale e riguarda, dunque, ogni forma di accordo fra pubbliche amministrazioni: esso, quindi, concerne anche le convenzioni ex art. 30 d.lgs. n. 267 del 2000. Cons. Stato, IV, n. 9842/2023. Sul tema, da ultimo, Cons. Stato,  V, n. 276/2024 ha puntualizzato che la nullità, per mancanza di sottoscrizione digitale ai sensi dell’art. 15, comma 2-bis, l. n. 241 del 1990, della delibera con cui un’unione di comuni prenda atto della volontà di un comune di sciogliersi dalla gestione associata dei servizi successivamente aggiunti, determina anche la nullità degli atti successivi, quali le delibere di approvazione della variazione di bilancio; e, qualora tali ultimi atti siano stati impugnati, il giudice può rilevare la nullità anche successivamente alla scadenza del termine di decadenza di cui all’art. 31, comma 4, c.p.a..

Natura giuridica.

L'art. 15 della l. n. 241/1990 è espressione del principio dell'esercizio consensuale della potestà amministrativa, dal che deriva che gli accordi tra enti pubblici stipulati ai sensi di tale norma, anche denominati contratti a oggetto pubblico, differiscono dal contratto privatistico di cui all'art. 1321 c.c., del quale condividono solo l'elemento strutturale dell'accordo, senza che a esso si accompagni l'ulteriore elemento del carattere patrimoniale del rapporto regolato.

L'accordo di cui all'art. 15, quindi, ha carattere meramente organizzativo e permette un'espansione rispetto allo strumento tipico di coordinamento tra uffici od organi, di livello orizzontale: sul piano applicativo, poi, si sostanzia negli accordi di programma, intese, ecc...

L'accordo tra pubbliche amministrazioni non determina la nascita di un nuovo soggetto giuridico rispetto agli enti partecipanti, trattandosi solo di una modalità di amministrazione della res publica di tipo cooperativo, mediante una sorta di autolimitazione della propria discrezionalità da parte delle amministrazioni partecipanti, al fine di ottenere che la propria competenza si sviluppi in armonia con quella delle altre (Damonte, 45).

Le Amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano all'accordo in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune (Cons. St. V, n. 3145/2014; Cons. St. VI, n. 3202/2012; Cons. St. V n. 4952/2008).

Ne deriva che le controversie insorte nelle fasi di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi, quand'anche in presenza dell'accertamento di un inadempimento contrattuale, sono devolute alla giurisdizione esclusiva della g.a. ex art. 133, comma 1, lett. a) n. 2), del d.lgs. n. 104/2010 (Cass. S.U., n. 5923/2011).

Capacità giuridica.

L'art. 15 l. n. 241/1990 riconosce in via generale in capo alle amministrazioni la capacità negoziale di diritto pubblico d'individuare le attività (e non le funzioni) d'interesse comune da svolgere in collaborazione (Cons. St. V, n. 1690/2016).

Disciplina civilistica applicabile.

Secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza (Cons. St. III, n. 3194/2014), l'art. 15 comma 2 della l. n. 241/1990 prevede, in generale, che anche agli accordi fra amministrazioni si applichino, se compatibili con la natura degli stessi, le disposizioni dettate dall'articolo 11, commi 2 e 3 per gli accordi che, ai sensi dello stesso articolo 11, hanno il fine di determinare il contenuto discrezionale di un provvedimento ovvero di sostituirlo.

Pertanto, le convenzioni in parola devono essere stipulate in forma scritta, a pena di nullità, sono soggette ai principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti (ove non diversamente previsto dalla legge), ma sono al contempo soggette anche all'obbligo di motivazione, ai sensi dell'art. 3 l. n. 241/1990. Si tratta, pertanto, di atti assolutamente formali, a contenuto obbligato, in quanto finalizzati – non a regolare profili squisitamente patrimoniali tra le parti, come nel contratto di diritto privato, previsto dall'art. 1321 c.c., bensì – a disciplinare, come si evince in particolare dal richiamo all'obbligo di motivazione proprio dei provvedimenti amministrativi, e coordinare l'esercizio delle potestà amministrative da parte delle amministrazioni contraenti.

In tal senso si è, del resto, espressa la giurisprudenza amministrativa secondo la quale gli accordi tra enti pubblici stipulati ai sensi della l. n. 241/1990, art. 15, anche denominati contratti “a oggetto pubblico”, differiscono dal contratto privatistico di cui all'art. 1321 c.c., del quale condividono solo l'elemento strutturale dell'accordo, senza che ad esso si accompagni l'ulteriore elemento del carattere patrimoniale del rapporto regolato. Le amministrazioni pubbliche stipulanti partecipano, invero, all'accordo in posizione di equiordinazione, ma non già al fine di comporre un conflitto di interessi di carattere patrimoniale, bensì di coordinare i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune (Cons. St. n. 3849/2013; Cons. St. n. 3145/2014). Sempre che siano, ovviamente, rispettati i rigorosi obblighi formali previsti dall'art. 15 c.p.a., comma 2 e art. 11 c.p.a., comma 2.

Pertanto anche agli accordi fra amministrazioni, disciplinati dall'art. 15 della l. n. 241/1990 e da specifiche discipline di settore possono applicarsi i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili, ove non diversamente previsto (art. 11, comma 2 della l. n. 241).

Al riguardo, la giurisprudenza amministrativa ha affermato che, ai sensi del combinato disposto della l. n. 241/1990, art. 15, comma 2 e art. 11, comma 2, agli accordi fra Amministrazioni si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti, fra questi quello per cui, a pena di nullità, l'oggetto del contratto deve essere determinato o determinabile. La controprestazione economica in capo ad uno degli enti pubblici coinvolti è elemento essenziale del sinallagma negoziale. Sicché essa va correttamente individuata in convenzione, tanto più perché una P.A. non può assumere impegni economici non determinati. La mancanza di tale elemento determina conseguentemente la nullità della convenzione medesima (T.A.R. Friuli Venezia Giulia, n. 15/2016).

L'applicazione della disciplina civilistica delle obbligazioni dipende, comunque, dal contenuto degli accordi e delle singole clausole contenute negli stessi.

Gli accordi fra amministrazioni possono avere, infatti, contenuti molto diversi ed essere, prevalentemente, di natura politico istituzionale (come gli accordi quadro e i protocolli d'intesa fra Ministri o fra Ministri e Presidenti di Regione), che necessitano di successivi molteplici atti per il perseguimento in concreto degli obiettivi comuni indicati, o essere viceversa molto dettagliati nella definizione dei reciproci impegni, come quando sono sottoscritti al fine di risolvere singole problematiche comuni di carattere gestionale.

Accordi e protocolli d'intesa possono coinvolgere poi anche soggetti privati come nelle intese istituzionali di programma, gli accordi di programma quadro, i patti territoriali, i patti d'area in cui soggetti pubblici diversi (Stato, Regioni, amministrazioni locali) e anche soggetti privati concordano l'uso di risorse delle quali hanno la disponibilità per lo sviluppo di determinati ambiti settoriali o di determinate aree territoriali impegnandosi, anche con strumenti paracivilistici, al reciproco rispetto dei diritti e dei doveri contenuti negli accordi.

Se il protocollo d'intesa ha un contenuto prevalentemente politico istituzionale all'eventuale mancata attuazione di uno degli impegni assunti non potrà che provvedersi con modalità istituzionali. Infatti, tali protocolli d'intesa non contengono, normalmente, clausole idonee ad assumere rilievo anche sul piano civilistico.

Viceversa il mancato adempimento di un impegno assunto in un protocollo d'intesa riguardante la gestione comune di un servizio pubblico può comportare anche conseguenze di natura civilistica.

In uno stesso protocollo d'intesa possono poi individuarsi disposizioni più o meno cogenti e, normalmente, gli stessi protocolli d'intesa prevedono le conseguenze per il mancato rispetto di una o più delle clausole contenute nell'accordo sottoscritto.

È evidente, comunque, che, alla stregua dei principi civilistici applicabili, trattandosi di accordi ad oggetto pubblico tra enti in posizione di equiordinazione e, quindi, di parità, discende l'impegnatività delle pattuizioni negoziali, dalle quali non è possibile sottrarsi per determinazione unilaterale, secondo la regola codificata dal noto brocardo pacta sunt servanda.

Con riguardo alla gestione delle sopravvenienze, occorre precisare in tema di accordi che, in generale, il nostro ordinamento conosce alcune forme di recesso o di risoluzione, ma non conosce un obbligo generale di rinegoziazione o di adeguamento delle obbligazioni contrattuali, al di fuori dei casi specificamente previsti da norme espresse o in specifiche ipotesi di violazione dell'obbligo di buona fede riconosciute dalla giurisprudenza.

Ed essendo, dunque, il principio cardine costituito dal citato brocardo pacta sunt servanda, le eventuali sopravvenienze normative o di fatto, che non rientrino nel range applicativo dei rimedi civilistici canonizzati dalle leggi civili (ad es. ex art. 1467 c.c.), devono essere risolte dalle Amministrazioni sulla base del principio di leale collaborazione, assumendosi la responsabilità politica delle relative decisioni, senza che, tuttavia, possa pregiudicarsi, sotto il profilo giuridico, un accordo legittimamente concluso ed in via di esecuzione. Inoltre, non sono ammissibili pronunciamenti eterointegrativi da parte del Giudice ove non si riscontrino vizi di legittimità degli atti amministrativi sottesi, ovvero non emergano vizi di validità o difetti funzionali dell'Accordo secondo le norme civilistiche (Cons. St. V, n. 3145/2014).

Una parte della giurisprudenza non ritiene compatibile il rimedio contrattuale di cui all'art. 1453 c.c. con il modulo di esercizio del potere amministrativo dell'accordo ex art. 15 della l. n. 241 del 1990, che delinea un assetto di interessi perseguibile solo attraverso l'adempimento di obbligazioni poste dallo stesso a carico dell'una e dell'altra parte del rapporto. A questo scopo, si ritiene di valorizzare, dunque, il rinvio ai principi ricavabili ed alle azioni previste nel codice civile in materia di obbligazioni e contratti (T.A.R. Campania, Napoli I, n. 3241/2011).

La fattispecie più rilevante degli accordi fra pubbliche Amministrazioni è costituita dagli accordi di programma, previsti all'art. 34 del d.lgs. 267/2000. Attraverso tale strumento si mira a coordinare e comporre l'attività di amministrazioni titolari di funzioni diverse o interferenti su diversi livelli di governo nelle materie di competenza delle Regioni e degli enti locali minori.

Recesso ed autotutela.

L'art. 15 non richiama l'art. 11 comma 4 che riconosce alle Pubbliche Amministrazioni il potere di recedere unilateralmente dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione.

Donde, i dubbi interpretativi in ordine al riconoscimento del potere di recesso alle Amministrazioni stipulanti gli accordi in questione.

Anche se non espressamente richiamato dalla norma, una parte della dottrina ritiene, comunque, applicabile il comma 4 dell'art. 11, poiché il recesso sarebbe idoneo a garantire la costante funzionalità pubblica delle scelte amministrative: in quest'ottica, secondo la dottrina, il potere di recesso non richiederebbe di per sé un'espressa previsione legislativa, in quanto libera esplicazione del generale potere di revoca delle determinazioni amministrative (Caringella, 1098; Liberati, 870).

Secondo, invece, altro orientamento dottrinario (Falcon in Caringella, 1099), per la verità minoritario, il mancato richiamo al comma 4 implicherebbe la possibilità per le p.a. di operare il recesso senza soffrire i limiti della sopravvenienza di motivi di pubblico interesse e dell'obbligo di corrispondere un indennizzo.

Secondo, poi, un ulteriore orientamento dottrinario (Di Mario, in Caringella, 1099), in assenza di una disciplina espressa in materia di recesso dagli accordi tra p.a. dovrebbe applicarsi il dettato dell'art. 1373 c.c., con la conseguente ammissibilità del recesso soltanto nei casi in cui sia espressamente previsto nell'accordo.

Anche la giurisprudenza, almeno in un primo momento, non seguiva un indirizzo unanime.

In alcune pronunce, infatti, è stato condiviso l'orientamento dottrinario da ultimo richiamato e tendente ad ammettere il recesso nei casi di cui all'art. 1373 c.c. (T.A.R. Lombardia, Milano, I, n. 5620/2004).

In altre pronunce, invece, si sostiene che l'articolo 15 della l. n. 241/1990, non richiamando espressamente l'articolo 11, comma 4, – che nella diversa fattispecie degli accordi tra pubblica amministrazione e privati prevede un'ipotesi di recesso legale – escluderebbe la facoltà di recesso unilaterale da parte di un'amministrazione al fine di preservare la equiordinazione e la leale collaborazione tra amministrazioni perseguita con l'accordo (T.A.R. Lazio, Roma I II, n. 10295/2015).

Ed invero, facendo riferimento all'attuale previsione normativa che disciplina gli accordi c.d. orizzontali tra pubbliche amministrazioni contemplata dall'art. 15 della l. n. 241/1990, è stato sottolineato in giurisprudenza che essa, pur facendo rinvio ad alcune norme di disciplina codificate dal precedente art. 11 in tema di accordi c.d. verticali integrativi o sostitutivi di provvedimenti, non ne richiama espressamente e significativamente il comma 4, che regolamenta, appunto, la facoltà di recedere unilateralmente dall'accordo per sopravvenuti motivi di pubblico interesse.

Donde, la conclusione secondo cui, per privare di efficacia l'accordo in questione, l'esercizio del potere di autotutela debba svolgersi secondo i principi del contrarius actus, ossia seguendo le stesse forme e modalità procedimentali attraverso cui si è addivenuti all'emanazione dell'atto, e quindi, nella specie, tramite il previo coinvolgimento nel procedimento di autotutela, dell'autorità emanante.

In altri termini, quando più amministrazioni pubbliche utilizzano lo strumento convenzionale al fine di esercitare in collaborazione tra loro attività di interesse comune, l'efficacia perdurante dell'accordo non è nella libera disponibilità di una sola delle amministrazioni stipulanti, posto che le stesse sono in egual misura attributarie di un interesse pubblicistico qualificato a tenere in vita i patti.

Le Pubbliche Amministrazioni facenti parte di un'intesa potrebbero, quindi, in presenza di specifiche esigenze, chiedere alle altre Amministrazioni di ridiscutere alcuni punti dell'accordo precedentemente raggiunto al fine di eventualmente concordare una modifica dell'intesa.

Pertanto, dovrebbe escludersi che tale possibilità possa essere esercitata unilateralmente, attraverso l'esercizio del potere di autotutela, senza il rispetto di alcun onere procedimentale volto a garantire il contraddittorio degli altri enti parte dell'accordo, atteso che, se così si ragionasse, si finirebbe per privare di qualsiasi valore vincolante e quindi di utilità lo strumento dell'intesa, in palese violazione dei principi di certezza, tutela dell'affidamento e buona fede nei rapporti tra le pubbliche amministrazioni facenti parte dell'accordo.

Non dovrebbe, quindi, riconoscersi alla P.A., in caso di accordi ex art. 15 l. n. 241/1990, la possibilità di rivalutare in ogni momento l'originaria opportunità dell'accordo, anche in assenza di circostanze sopravvenute tali da rendere l'accordo stesso non più compatibile con il pubblico interesse, poiché, diversamente opinando, si finirebbe per svuotare di effettività il vincolo nascente dalla convenzione, privando di ogni garanzia di stabilità l'affidamento della controparte.

Peraltro, nella fattispecie assimilabile agli accordi di programma, la Corte Costituzionale (Corte cost. n. 121/2010), ha di recente evidenziato che, nel caso in cui il legislatore abbia previsto lo strumento consensuale, il recesso è incompatibile con il regime dell'intesa, caratterizzata dalla paritaria codeterminazione dell'atto attribuire ad una di esse un ruolo preminente, in quanto il superamento delle eventuali situazioni di stallo deve essere realizzato attraverso la previsione di idonee procedure perché possano aver luogo reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolino il raggiungimento di un accordo. Ciò non significa che l'amministrazione pubblica che intenda sciogliersi dall'accordo ex art. 15 l. n. 241/1990 sia priva di strumenti di tutela di fronte al rifiuto delle altre amministrazioni di modificare l'assetto degli interessi a seguito delle intervenute sopravvenienze negli interessi pubblici sottesi all'azione amministrativa.

La volontà delle altre amministrazioni non è, infatti, una volontà negoziale fondata sull'autonomia privata, ma una volontà discrezionale funzionalizzata alla tutela degli interessi pubblici, per cui lo scioglimento dell'accordo, come la rimozione di vizi di legittimità originari, deve avvenire comunque in conformità al principio di leale cooperazione tra gli enti pubblici che deve informare i rapporti tra le amministrazioni pubbliche.

Se è vero che l'accordo tra amministrazioni pubbliche non modifica l'ordine delle attribuzioni della funzione amministrativa, perché non è altro che un modulo organizzativo dell'azione amministrativa, l'inscindibilità degli interessi pubblici sottesi all'azione consensuale delle pubbliche amministrazioni, preclude, però, che una singola amministrazione possa decidere unilateralmente di tornare al modello della amministrazione per singoli provvedimenti, e finisce per imporre pertanto alle stesse un vincolo a continuare a regolare gli interessi pubblici disciplinati dall'accordo mediante l'utilizzo del modulo organizzativo consensuale (T.A.R. Abruzzo, Pescara I, n. 288/2018).

Ma l'orientamento prevalente è nel senso opposto. Infatti, la giurisprudenza dominante sostiene che l'assenza nell'art. 15 della l. n. 241/1990 di un richiamo al comma 4 del precedente art. 11 non esclude la possibilità per l'Amministrazione di recedere da un accordo tra enti pubblici, poiché è proprio della funzione di amministrazione attiva il generale potere di revoca del provvedimento amministrativo, del quale l'accordo ha il contenuto e al quale è sottesa la cura di un pubblico interesse. Per cui è affievolita la forza vincolante di una convenzione sottoscritta da soggetti pubblici ed è reso inapplicabile il principio civilistico per il quale il contratto ha forza di legge tra le parti. La previsione dell'art. 11, comma 4, è, del resto, confermativa e non derogatoria di detta regola generale, in quanto il potere di recedere (nel pubblico interesse) dagli accordi amministrativi, non rappresenta altro se non la particolare configurazione che la potestà di revoca assume quando il potere amministrativo è stato esercitato mediante un accordo iniziale anziché in forma unilaterale. Pertanto, nonostante l'art. 15, comma 2, della l. n. 241/1990 non menzioni in modo espresso il comma 4 dell'art. 11 – in tema di esercizio del potere di recesso da parte della P.A. dagli accordi – fra le disposizioni applicabili anche agli accordi fra amministrazioni pubbliche di cui all'art. 15, nondimeno è da ritenersi che l'effettiva sussistenza di tale potere di recesso emerga quale corollario del principio di inesauribilità del potere pubblico, che caratterizza l'esercizio delle pubbliche funzioni. Il provvedimento che sia espressione di un tale potere di recesso va adeguatamente motivato, tenendo conto delle circostanze avvenute e delle esigenze di spesa, e se del caso anche della illegittimità della originaria determinazione, ma comunque valutando gli interessi pubblici – e privati – sui quali si va ad incidere (Cons. St. IV, n. 2859/2014; Cons. St. IV, n. 2858/2014; Cons. St. IV, n. 2857/2014; Cons. St. IV, n. 2856/2014; Cons. St. IV, n. 1457/2014; Cons. St. VI, n. 6162/2011).

Donde, la considerazione secondo cui la lacuna sembrerebbe, piuttosto, derivare dalla consapevolezza del legislatore dell'inutilità di richiamare la facoltà di recesso unilaterale e le sue conseguenze patrimoniali in una fattispecie in cui il potere generale di revoca, immanente all'azione amministrativa, ancorché esercitata con lo strumento consensuale, non si scontra con il legittimo affidamento del privato e con l'esigenza di tutela derivante dalla sua lesione.

L'immanenza del potere di revoca rende, pertanto, incompatibile con la fattispecie degli accordi tra amministrazioni l'applicazione del principio civilistico della fissità degli effetti del contratto che è destinato a recedere a fronte dell'inesauribilità del potere finalizzata alla cura dell'interesse pubblico (T.A.R. Piemonte, Torino I, n. 600/2019).

Deve dunque ritenersi legittima la facoltà riconosciuta ad una pubblica amministrazione di recedere in via unilaterale dall'accordo sottoscritto con altre amministrazioni, sia che la predetta facoltà sia stata espressamente pattuita nell'accordo, sia che l'accordo nulla preveda a tal proposito.

Accordo tra P.A. ed appalto: differenze ed ammissibilità

Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 19 dicembre 2012 - causa n. C159/11), l'affidamento di un contratto senza gara da parte di un'amministrazione aggiudicatrice ad un'altra pubblica amministrazione contrasta con le norme ed i principi sull'evidenza pubblica comunitaria quando ha ad oggetto servizi i quali, pur riconducibili ad attività di ricerca scientifica, ricadono, secondo la loro natura effettiva, nell'ambito dei servizi di ricerca e sviluppo.

L'obbligo della gara può escludersi solo in caso di “contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi”; ipotesi questa configurabile quando dette forme di cooperazione siano rette unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico.

Rileva il Considerando 33 della direttiva 2014/24/UE, che, in applicazione del principio di libera amministrazione, stabilisce: “le amministrazioni aggiudicatrici dovrebbero poter decidere di fornire congiuntamente i rispettivi servizi pubblici mediante cooperazione senza essere obbligate ad avvalersi di alcuna forma giuridica in particolare. Tale cooperazione potrebbe riguardare tutti i tipi di attività connesse alla prestazione di servizi e alle responsabilità affidati alle amministrazioni partecipanti o da esse assunti, quali i compiti obbligatori o facoltativi di enti pubblici territoriali o i servizi affidati a organismi specifici dal diritto pubblico. I servizi forniti dalle diverse amministrazioni partecipanti non devono necessariamente essere identici; potrebbero anche essere complementari”.

Si tratta dell'istituto del cd. partenariato pubblico-pubblico a carattere orizzontale, realizzato tramite accordi tra diverse amministrazioni, elaborato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea (a partire dalla sentenza 9 giugno 2009, C-480/06; i confini degli accordi di cooperazione sono stati in seguito meglio precisati con la sentenza 19 dicembre 2012, C-159/11).

E infatti, le amministrazioni pubbliche possono in base al diritto europeo agire sul mercato e competere con altri operatori economici pubblici o privati, ma devono farlo su di un piano di parità senza cioè godere di alcun vantaggio competitivo, per questo motivo la deroga all'applicazione delle norme sull'evidenza pubblica, anche nei rapporti negoziali tra amministrazioni, soggiace alle predette restrittive condizioni.

Ciò è quanto si desume anche dal considerando 14 della direttiva 2014/24/UE secondo cui: «la nozione di ‘operatori economici' dovrebbe essere interpretata in senso ampio, in modo da comprendere qualunque persona e/o ente che offre sul mercato la realizzazione di lavori, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi, a prescindere dalla forma giuridica nel quadro della quale ha scelto di operare. Pertanto, imprese, succursali, filiali, partenariati, società a cooperative, società a responsabilità limitata, università pubbliche o private e altre forme di enti diverse dalle persone fisiche dovrebbero rientrare nella nozione di operatore economico, indipendentemente dal fatto che siano ‘persone giuridiche' o meno in ogni circostanza».

Tali principi sono stati trasfusi nel codice dei contratti che all'art. 5, comma 6, che ha confermato l'esclusione dall'applicazione della disciplina dei contratti pubblici, in presenza delle condizioni ivi indicate, e rappresenta una disposizione ricognitiva di un quadro normativo e giurisprudenziale già pienamente consolidato (Cons. St. I II, n. 4631/2017, che cita le sentenze della CGUE nelle cause C-159/11, C-564/11, C-386/11 e C-352/12).

Nell'ordinamento nazionale è riconosciuta alle amministrazioni pubbliche la possibilità di concludere fra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività di interesse comune che dunque deve essere letta alla luce del quadro normativo europeo (articolo 15 della l. n. 241/1990).

In particolare la norma appena citata prevede che agli accordi tra amministrazioni pubbliche non si applichino le previsioni del codice purché siano rispettate le seguenti condizioni:

a) l'accordo stabilisce o realizza una cooperazione tra le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti, finalizzata a garantire che i servizi pubblici che essi sono tenuti a svolgere siano prestati nell'ottica di conseguire gli obiettivi che essi hanno in comune;

b) l'attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico;

c) le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatori partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione.

Al di fuori di questi casi, ogni accordo avente contenuto patrimoniale ed astrattamente contendibile soggiace alle regole dell'evidenza pubblica, dovendosi anche le amministrazioni pubbliche includere nel novero degli operatori economici sottoposti alle regole della concorrenza ai sensi dell'art. 3 lett. p) del d.lgs. n. 50/2016 (T.A.R. Campania, Napoli I, n. 548/2019).

Gli accordi tra pubbliche amministrazioni nel T.U.E.L.

L'art. 34 T.U.E.L. (d.lgs. n. 267/2000) costituisce una species del più ampio genus degli accordi di cui all'art. 15 l. n. 241/1990 e si caratterizza per gli specifici interessi coinvolti (opere, interventi o programmi di intervento), per la tipologia delle amministrazioni contraenti (Regioni ed enti locali) e per la specificità e maggior dettaglio con cui è descritto l'iter procedimentale.

L'art. 34 è norma tipica, in quanto riguarda specifiche tipologie di interventi, al contrario dell'art. 15, contenutisticamente atipica: ne consegue che la disciplina generale di riferimento in materia di accordi è individuabile nell'art. 15, legata all'art. 34 T.U.E.L. da un rapporto di genus a species: ne consegue che l'art. 15 l. n. 241/1990 trova applicazione solo in assenza di diverse disposizioni contenute nell'art. 34 (Cons. St. V I, n. 5565/2006; Cass.S.U., n. 12725/2005; T.A.R. Lombardia, Milano I, n. 5620/2004).

L'art. 34 elenca le amministrazioni abilitate a stipulare gli accordi in questione e prevede una scansione definita delle fasi procedimentali.

Nello specifico, la norma stabilisce che la formazione dell'accordo debba essere assistita dall'adozione di un atto deliberativo da parte dell'ente partecipante (T.A.R. Puglia, Lecce II, n. 8909/2003), non risultando al contrario sufficiente un mero apporto consultivo, che di per sé non è idoneo ad impegnare l'ente verso l'esterno.

Gli accordi, inoltre, devono stabilire i fini, la durata, le forme di consultazione degli enti contraenti, i loro rapporti finanziari ed i reciproci obblighi e garanzie. Ai fini dell'attuazione delle convenzioni in questione è possibile creare uffici comuni, con personale distaccato dagli enti contraenti, ai quali affidare l'esercizio delle funzioni pubbliche in luogo degli enti partecipanti all'accordo; in alternativa, le pubbliche amministrazioni contraenti possono delegare le proprie funzioni a favore di una sola amministrazione partecipante, che opera in luogo e per conto degli enti deleganti.

Accordo di programma, conferenza di servizi e ratifica da parte del Comune.

L'istituto in questione costituisce un'ipotesi di urbanistica negoziata, particolarmente utile per la ponderazione di interessi pubblici concorrenti, e può comportare variazioni agli strumenti urbanistici vigenti anche per la realizzazione di un'opera di un soggetto privato, su aree di proprietà privata e per finalità private; tuttavia, ai sensi dell'art. 15 della l. n. 241/1990, i destinatari degli accordi di programma sono le amministrazioni pubbliche, sicché i privati non possono essere portatori di diritti soggettivi nascenti dall'accordo ma, se incisi dallo stesso, sono portatori di un interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo, suscettibile di tutela con gli ordinari rimedi consentiti dall'ordinamento (Cons. St., n. 361/2015).

Più specificatamente, esso rappresenta una speciale tipologia di accordo tra pubbliche amministrazioni finalizzato alla definizione ed attuazione, con eventuale incidenza sugli strumenti urbanistici, di opere, interventi o programmi che richiedono per la loro completa realizzazione l'azione integrata e coordinata di comuni, province e regioni, di amministrazioni statali o di altri soggetti pubblici (Cons. St. IV, n. 6467/2005).

L'art. 34 comma 5 d.lgs. n. 267/2000 prevede che ove l'accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l'adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza.

La disposizione è chiara nel prevedere la competenza del consiglio comunale a fare proprio un atto che, altrimenti, fino al momento della ratifica, non spiega alcuna efficacia (Cons. St. IV, n. 1097/2013).

Nel caso della ratifica prevista dall'art. 34, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000 si ha, nella sostanza, un meccanismo di ratifica ex lege, quindi non frutto di un procedimento amministrativo di secondo grado, in cui l'incompetenza del Sindaco firmatario dell'accordo è presupposta ab origine e necessita del placet dell'organo consiliare per consentire all'atto di spiegare i suoi effetti.

Ci si chiede, quindi, se in sede di ratifica ex art. 34, il consiglio comunale possa entrare nel merito dei contenuti dell'accordo di programma già firmato e negare la ratifica per ragioni sostanziali.

Secondo una parte della giurisprudenza (T.A.R. Lazio, Roma II-quater, n. 8818/2017) la risposta è negativa per ragioni di ordine letterale e sistematico.

In primo luogo, la disposizione del comma 5 parla espressamente di “ratifica” e quindi non desterebbe dubbi in ordine al fatto che si riferisca a quella forma di atto amministrativo che mira a preservare gli effetti di un atto adottato da organo incompetente, con l'unica precisazione che trattasi di incompetenza sancita direttamente dalla legge, tenuto conto che è la stessa legge a preoccuparsi di fare in modo che lo strumento negoziato (accordo) acquisti il crisma di provvedimento amministrativo vero e proprio laddove esso impinga in ambiti di stretta competenza dell'ente pubblico, quali le modifiche agli strumenti urbanistici.

La disposizione costituirebbe, quindi, massima espressione dell'interesse del legislatore alla salvaguardia dell'interesse pubblico all'organico controllo delle modifiche al territorio, che sarebbero a rischio laddove si consentisse al sistema dato dal binomio “conferenza di servizi” – “accordo di programma”, di apportare modifiche al sistema di regolamentazione urbanistica senza passare per il consiglio comunale.

Che si tratti di un provvedimento di mera assunzione di competenza non vi sarebbero dubbi, perché, diversamente opinando, il legislatore avrebbe utilizzato un termine diverso e presumibilmente avrebbe fatto riferimento non alla ratifica, bensì alla “convalida”, che è il provvedimento con il quale l'amministrazione elimina un vizio di legittimità dall'atto che ne era affetto.

Al riguardo, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che l'accordo di programma è sottoscritto dal sindaco, legittimamente ma a titolo provvisorio, secondo i principi che governano l'istituto della ratifica, e non acquista efficacia se non è approvato dal competente Consiglio comunale nel termine di decadenza di trenta giorni (Cons. St. IV, n. 6467/2005; Cons. St. IV, n. 5365/2002).

In secondo luogo, la funzione di formale presa d'atto della ratifica di cui al comma 5, risiederebbe nell'essenza stessa del sistema di attività amministrativa negoziata secondo il binomio conferenza di servizi – accordo, secondo quanto stabilito dallo stesso art. 34 d.lgs. n. 267/2000.

Pertanto, quando il soggetto avente la competenza primaria o prevalente sull'opera o sugli interventi o sui programmi di intervento da realizzare promuove la conclusione di un accordo di programma, “per assicurare il coordinamento delle azioni e per determinarne i tempi, le modalità, il finanziamento ed ogni altro connesso adempimento”, è obbligatoria la convocazione di una conferenza tra i rappresentanti di tutte le amministrazioni interessate, “per verificare la possibilità di concordare l'accordo di programma”.

Il binomio conferenza di servizi (chiaramente istruttoria) – accordo di programma attribuisce un valore di programmazione e decisione piena all'incontro della volontà delle parti interessate, anche quando, in caso di variante dei piani urbanistici, sia necessaria la ratifica da parte dell'organo consiliare normalmente competente, che in giurisprudenza è stata considerata alla stregua di atto interno che si inserisce nella sequenza procedimentale tesa al perfezionamento dell'accordo di programma (Cons. St. IV, n. 2909/2002).

Ne discende che non può esservi spazio per un intervento, da parte del consiglio comunale, che entri nel merito dell'accordo già negoziato.

Il consiglio, infatti, se decide – nel pieno delle sue prerogative – di non avallare la decisione del Sindaco aderente, semplicemente non ratifica entro trenta giorni, facendo così decadere in automatico l'accordo (T.A.R. Lazio, Roma, sez. II-quater, n. 8818/2017).

Accordo di programma e giurisdizione.

L'Accordo di programma si sostanzia in un provvedimento amministrativo adottato dalle amministrazioni pubbliche e dai soggetti pubblici che vi partecipano – con esclusione quindi dei privati eventualmente coinvolti nella sua attuazione – al fine di assicurare l'azione integrata e coordinata di più amministrazioni per la realizzazione di un programma comune e determina nei soggetti destinatari e comunque interessati all'attuazione dell'accordo l'insorgere di un interesse legittimo per la tutela delle loro posizioni soggettive eventualmente lese dal cattivo uso del potere pubblicistico nei loro confronti.

Le Sezioni Unite hanno aggiunto che il rapporto tra tale fattispecie e quella delineata dall'art. 15 l. n. 241/1990 si delinea come un rapporto dì genere a specie, configurando quest'ultima disposizione, contenuta in un testo normativo che ha carattere dì legge generale sul procedimento amministrativo, un modulo convenzionale di valenza generale attraverso il quale le amministrazioni che partecipano all'accordo rendono possibile e disciplinano il coordinato esercizio di funzioni proprie, nella prospettiva di un risultato di comune interesse, individuato attraverso uno specifico procedimento amministrativo.

Per effetto dell'espresso richiamo contenuto nell'art. 15, comma 2 all'accordo ivi disciplinato è applicabile l'art. 11 della stessa legge (ora modificato dalla l. n. 15/2005, art. 7), che al quinto comma disponeva (prima dell'entrata in vigore del codice del processo amministrativo) che le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, così delineando un'ipotesi di giurisdizione esclusiva di detto giudice correlata non ad una determinata materia, ma ad una specifica tipologia di atto, qualunque sia la materia che ne costituisce oggetto.

Ed invero, le Sezioni Unite hanno più volte osservato che attraverso l'accordo l'amministrazione esercita una funzione pubblica, individuando, così, il criterio di attrazione della controversia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo nel fatto che essa attenga alla formazione, conclusione ed esecuzione dell'accordo, così attribuendo alla cognizione di detto giudice una serie di rapporti individuati non già con riferimento alla materia, ma per il fatto che essi trovano la propria regolamentazione nell'ambito dell'accordo (tra le altre, Cass. S.U., n. 732/2005; n. 15608/2001; n. 105/2001; n. 1174/2000; n. 87/2001; n. 8/1999; n. 8593/1998; n. 7452/1997).

Alla luce di tali principi, anche la domanda di risarcimento danni conseguenti all'inadempimento degli obblighi assunti dal soggetto attuatore con l'accordo di programma in questione rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in quanto concernente la fase dell'esecuzione di un accordo di programma tra enti pubblici volto alla realizzazione di un interesse pubblico.

In tali termini si sono espresse (con riferimento alla disciplina sopravvenuta dettata dal d.lgs. n. 104/2010, art. 133, comma 1, lett. a, n. 2 che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, fra l'altro, “le controversie in materia di ... formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi o sostitutivi di provvedimento amministrativo”) le Sezioni Unite, affermando che è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia avente ad oggetto il risarcimento dei danni derivanti dall'inosservanza da parte di una società privata agli obblighi di un accordo di programma stipulato tra enti pubblici, cui la prima aveva successivamente aderito, finalizzato alla bonifica ed al recupero di un'intera zona industriale, trattandosi di causa inerente all'esecuzione di un accordo da qualificarsi come integrativo o sostitutivo di provvedimenti amministrativi di tali enti, ai sensi del d.lgs. n. 104/2010, art. 133, comma 1, lett. a), n. 2, che ricomprende tali controversie tra quelle riservate al giudice amministrativo (Cass. civ., S.U., n. 64/2016; Cass. 29-7-2013 n. 18192).

Finanziamenti pubblici, patto territoriale e giurisdizione.

Le controversie attinenti all'erogazione di pubblici finanziamenti, secondo quanto stabilito dalla giurisprudenza consolidata (Cass. S.U., n. 12641/2008 e Cons. St. Ad. plen. n. 6/2014), non rientrano nell'ambito della giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo ai sensi dell'art. 133 comma 1 lett. b) c.p.a., distinguendosi la concessione di contributi dalla quella di beni pubblici strictu sensu intesa in ragione della fungibilità caratterizzante l'oggetto del rapporto concessorio di diritto pubblico in questione, ossia il denaro.

La questione di giurisdizione, quindi, va risolta secondo il criterio del petitum sostanziale concepito e seguito dalla giurisprudenza sin dal c.d. «concordato del 1930» tra Corte di Cassazione (Sez. Un. n. 2680/1930) e Consiglio di Stato (Ad. plen. n. 1/1930 e n. 2/1930). Ed, invero, tanto il Consiglio di Stato (Cons. St., Ad. plen., n. 6/2014; Cons. St., Ad. plen. n. 13/2013), quanto la Corte Suprema di Cassazione (Cass. S.U., n. 1776/2013; Cass.S.U., n. 1710/2013; Cass.S.U., n. 150/2013; Cass.S.U., n. 15867/2011; Cass.S.U., n. 19806/2008; Cass.S.U., n. 16896/2006; Cass.S.U., n. 5617/2003), hanno affermato che il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere deciso ricorrendo al criterio della situazione soggettiva per la tutela della quale si agisce in giudizio, con la conseguenza, pertanto, che: a) sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, senza che alla Pubblica Amministrazione sia demandato compito diverso dalla mera verifica dell'effettiva esistenza dei relativi presupposti, non potendo l'Autorità amministrativa all'uopo deputata, dunque, esercitare alcuna discrezionalità in ordine all'an, al quid o al quomodo dell'erogazione (Cass. S.U., n. 150/2013; Cass.S.U., n. 21062/2011; Cass.S.U., n. 16896/2006; Cass.S.U., n. 10689/2002; Cass.S.U., n. 21000/2005); b) sussiste ancora la giurisdizione del giudice ordinario allorché la controversia riguardi l'erogazione o la ripetizione del contributo e si discuta dell'inadempimento ad opera del beneficiario degli obblighi da costui assunti per la concessione della chiesta ed/od ottenuta sovvenzione pubblica, trattandosi di questioni attinenti alla fase di svolgimento ed esecuzione del rapporto pubblico di finanziamento, senza che all'uopo rilevi in modo alcuno la denominazione dell'atto controverso, ben potendo, infatti, in questi casi il Giudice Civile sindacare la legittimità dell'operato dell'Autorità amministrativa allorché si traduca in provvedimenti formalmente qualificati di revoca, di decadenza o di risoluzione, fondati sull'asserito inadempimento delle obbligazioni assunte in sede di concessione del contributo da parte del beneficiario (Cass. S.U., n. 1776/2013); c) sussiste, invece, la giurisdizione del Giudice Amministrativo qualora la controversia attenga esclusivamente alla fase procedimentale antecedente al provvedimento discrezionale di erogazione del contributo, ovvero quando quest'ultimo atto sia stato annullato per vizi di legittimità o revocato per contrasto con l'interesse pubblico in autotutela, senza che rilevino eventuali inadempimenti del beneficiario (Cass. S.U., n. 1710/2013; Cons. St., Ad. plen. n. 17/2013).

In tal senso, si è espresso anche il Consiglio di Stato in una recente pronuncia, secondo cui, infatti, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche deve essere attuato sulla base del generale criterio fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che sussiste sempre la giurisdizione del giudice ordinario: (a) qualora il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla Pubblica amministrazione è demandato solo il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid, il quomodo dell'erogazione; (b) qualora la controversia attenga alla fase di erogazione o di ripetizione del contributo sul presupposto di un addotto inadempimento del beneficiario alle condizioni statuite in sede di erogazione o dall'acclarato sviamento dei fondi acquisiti rispetto al programma finanziato, anche se si faccia questione di atti formalmente intitolati come revoca, decadenza o risoluzione, purché essi si fondino sull'inadempimento alle obbligazioni assunte di fronte alla concessione del contributo; in tal caso, infatti, il privato è titolare di un diritto soggettivo perfetto, come tale tutelabile dinanzi al giudice ordinario, attenendo la controversia alla fase esecutiva del rapporto di sovvenzione e all'inadempimento degli obblighi cui è subordinato il concreto provvedimento di attribuzione; (c) è invece configurabile una situazione soggettiva d'interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, solo qualora la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio; (d) a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse, ma non per inadempienze del beneficiario; pertanto, ciò che assume valore dirimente ai fini del riparto di giurisdizione, non è tanto la collocazione del vizio riscontrato rispetto alla fase del procedimento, quanto invece la natura della situazione soggettiva su cui interviene il potere amministrativo, della quale, la collocazione nella sequenza delle fasi è soltanto indice rivelatore (Cons. St. III, n. 395/2019).

Tuttavia, qualora il finanziamento rientri tra gli investimenti produttivi disposti in sede di approvazione di un « patto territoriale », la controversia rientra nella giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133 comma 1 lett.a) n. 2) c.p.a. e di cui all'art. 11 ultimo comma della l. n. 241/1990.

Secondo quanto, infatti, stabilito dalla Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 22747/2014), la cognizione della controversia relativa all'impugnazione di un provvedimento di revoca del beneficio finanziario accordato ad una società per la realizzazione di un investimento produttivo in sede di approvazione di un “patto territoriale” appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in relazione al disposto di cui alla l. n. 241/1990, art. 11, comma ultimo, che demanda, in generale, a tale giurisdizione le questioni relative alla formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi e sostitutivi del provvedimento pubblico di erogazione di una sovvenzione economica (anche Cass. S.U. , n. 18630/2008 e n. 1132/2014; Cons. St. V, n. 6277/2013 che in tema di provvedimenti di revoca di finanziamenti concessi nell'ambito dell'attuazione dei Patti territoriali di cui alla l. n. 662/1996, poi disciplinati in via di dettaglio dal d.m. n. 320/2000, ha statuito che la cognizione della controversia relativa all'impugnazione di un provvedimento di revoca del beneficio finanziario, accordato per la realizzazione di un investimento produttivo in sede di approvazione di un “patto territoriale”, costituente una delle possibili forme di programmazione negoziata tra parti pubbliche e parti private – in cui è, tra l'altro, necessario definire gli accordi programmatici ai sensi dell'art. 27 l. n. 142 del 1990 e individuare le convenzioni necessarie per l'attuazione di detti accordi – appartiene alla giurisdizione esclusiva del g.a. alla stregua dell'art. 11, ultimo comma, l. n. 241/1990, che demanda, in generale, a tale giurisdizione le questioni relative alla formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi integrativi e sostitutivi del provvedimento pubblico di erogazione di una sovvenzione economica).

Questioni applicative.

1) A che condizioni gli accordi amministrativi sono compatibili con le regole in tema di evidenza pubblica nei contratti pubblici?

Il comma 6 dell'articolo 5 del codice dei contratti pubblici disciplina l'istituto dell'accordo tra più o due amministrazioni. Anche tale ipotesi, dunque, può rientrate tra le ipotesi di esclusione dell'applicabilità del Codice, ed ancora una volta a fronte del realizzarsi di tre condizioni:

a) l'accordo sia volto a stabilire (o realizzare) una forma di cooperazione con la finalità di garantire il conseguimento di obiettivi in comune mediante la prestazione dei servizi oggetto dell'accordo;

b) l'attuazione di tale cooperazione è retta esclusivamente da considerazioni inerenti all'interesse pubblico;

c) le amministrazioni aggiudicatrici o gli enti aggiudicatari partecipanti svolgono sul mercato aperto meno del 20 per cento delle attività interessate dalla cooperazione.

La problematica degli accordi tra amministrazioni pubbliche e della loro non assoggettabilità alle disposizioni del codice appalti non costituisce, invero, affatto una novità.

I moduli consensuali e gli accordi costituiscono, dopo tutto, una delle modalità con cui può esplicarsi l'azione amministrativa per espressa disposizione dell'art. 15 della l. n. 241/1990; inoltre già nel 2010 l'ANAC (con determina n. 7) aveva approfondito detta tematica, delineando «un modello convenzionale attraverso il quale le pubbliche amministrazioni coordinano l'esercizio di funzioni proprie in vista del conseguimento di un risultato comune in modo complementare e sinergico ossia in forma di «reciproca collaborazione» e nell'obiettivo comune di fornire servizi «indistintamente a favore della collettività e gratuitamente» ed esplicitando poi condizioni e criteri che devono essere rispettate affinché il ricorso a tali fattispecie negoziali non si traduca in una violazione della normativa in materia di appalti pubblici.

Ben prima delle citate direttive del 2014, inoltre, la giurisprudenza comunitaria aveva iniziato a occuparsi del tema. Definendo anzitutto, a partire dalla nota sentenza 9 giugno 2009 C-480/06, i limiti entro cui gli accordi di cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici sono sottratti alla direttiva appalti.

La Corte di Giustizia (CGUE, IV, 28/5/2020 n. C-796/18) ha precisato che, per legittimare l'esclusione dall'applicabilità delle normative in materia di appalti (e quindi di numerosi principi, tra cui quelli di pubblicità, trasparenza, concorrenza, ecc.), deve trattarsi di forme di cooperazione finalizzate all'esecuzione di compiti comuni di interesse pubblico al cui espletamento devono partecipare entrambe le parti, anche se non necessariamente in ugual misura, restando esclusa la previsione di trasferimenti finanziari tra le parti cooperanti fatti salvi i rimborsi dei costi sostenuti per l'esecuzione dell'attività oggetto dell'accordo di cooperazione. Escludendo così ogni accordo di natura commerciale.

Da qui, la giurisprudenza nazionale ha evidenziato l'elemento centrale di questa prospettazione: ossia l'estraneità alla logica dello scambio tra prestazione e controprestazione suggellata dalla previsione di un corrispettivo, propria del contratto, e l'adesione alla logica del coordinamento di convergenti attività di interesse pubblico di più enti pubblici (cfr. Cons. St. V, n. 4832/2013).

Criterio cardine (in positivo) è stato ritenuto invece quello del coordinamento tra i rispettivi ambiti di intervento su oggetti di interesse comune, da intendersi quale «sinergica convergenza» su attività di interesse comune, pur potendosi ammettere la diversità del fine pubblico perseguito da ciascuna amministrazione (si veda sul punto, Cons. St. V, n. 3849/2013 che esclude la necessità di una «identità ontologica» per individuare l'interesse comune, in quanto questo avrebbe indebitamente limitato le forme e modalità di cooperazione tra enti pubblici, circoscrivendole necessariamente ed apoditticamente a quelle concluse tra soggetti appartenenti alla medesima branca amministrativa).

Un esempio di esclusione dall'applicabilità del codice dei contratti pubblici è rinvenibile negli accordi di gestione del patrimonio immobiliare pubblico, come riconosciuto dal Consiglio di Stato già nelle more di recepimento delle nuove direttive appalti: «[...] Deve concludersi per l'esclusione dal codice dei contratti e dalle direttive UE, e per la piena legittimità, senza riserva alcuna, di accordi, convenzioni e contratti di servizi tra l'Agenzia del demanio ed ogni altro soggetto pubblico, tra i quali le amministrazioni statali centrali e periferiche e gli enti territoriali, nonché ogni ente pubblico o società per azioni (sempreché totalmente in mano pubblica), finalizzati alla gestione e valorizzazione dei rispettivi patrimoni immobiliari. Il fine comune di tali amministrazioni nel perseguire questi obbiettivi, a ben vedere, prescinde totalmente dalla natura demaniale o patrimoniale dei beni oggetto delle convenzioni, ed è piuttosto ravvisabile nell'esigenza pubblicistica di valorizzare economicamente e socialmente il territorio attraverso il miglior utilizzo degli immobili [...]» (così Cons. St. II, parere n. 11787/2015).

In linea di principio, quindi, sono stati ritenuti non soggetti alle direttive appalti e dunque legittimi, gli accordi tra pubbliche amministrazioni, anche se appartenenti a ordinamenti autonomi e/o in rapporto di reciproca indipendenza, finalizzati alla cooperazione c.d. non istituzionalizzata/orizzontale, come quelli che l'Agenzia del demanio ha stipulato ovvero si ripromette di concludere con vari enti ed organi, riconducibili indifferentemente all'amministrazione statale centrale o periferica o ad altri enti territoriali minori.

Corte di Giustizia UE, IX, Ord. 30 giugno 2020, C-618/19 ha poi affermato che l'articolo 12, paragrafo 4, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, dev'essere interpretato nel senso che esso osta a una disposizione nazionale che consente l'affidamento diretto, senza gara, dell'appalto dei servizi relativi alla gestione della tassa automobilistica a un ente pubblico non economico che ha il compito di gestire il pubblico registro automobilistico. Tal principi sono stati poi applicati da T.A.R. Campania, Napoli III, 30 giugno 2021, n. 4520.

Sempre Corte di Giustizia UE, con sentenza in C-796/18 del 28 maggio 2020, ha affermato i seguenti principi:

a) l'articolo 12, paragrafo 4, della direttiva 2014/24 deve essere interpretato nel senso che una cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici può essere esclusa dall'ambito di applicazione delle norme di aggiudicazione degli appalti pubblici previste da tale direttiva, qualora detta cooperazione verta su attività accessorie ai servizi pubblici che devono essere forniti, anche individualmente, da ciascun membro di tale cooperazione, purché tali attività accessorie contribuiscano all'effettiva realizzazione dei suddetti servizi pubblici.

b) L'articolo 12, paragrafo 4, della direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, deve essere interpretato nel senso che una cessione di software stipulata in forma scritta tra amministrazioni aggiudicatrici e connessa ad un accordo di cooperazione tra le stesse costituisce un «contratto» ai sensi della menzionata disposizione.

c) Il carattere oneroso di siffatto rapporto contrattuale sussiste anche nel caso in cui il cessionario non sia tenuto a versare alcun prezzo né rimborso delle spese per il software acquisito, se ciascun partner della cooperazione (e pertanto anche il cessionario) si impegna a mettere a disposizione dell'altro di volta in volta i futuri adattamenti e sviluppi del software medesimo, e questi ultimi sono indispensabili per la prestazione di un servizio pubblico che deve essere svolto da entrambe le amministrazioni aggiudicatrici, risultando quindi inevitabili.

d) Nel caso di specie, al fine di garantire il rispetto dei principi dell'aggiudicazione degli appalti pubblici, come enunciati all'articolo 18 della direttiva 2014/24, spetta al giudice del rinvio verificare, in primo luogo, che sia il Land di Berlino sia la città di Colonia dispongano del codice sorgente del software «IGNIS Plus», in secondo luogo, che, nel caso in cui essi organizzino una procedura di aggiudicazione di appalti pubblici destinata a garantire la manutenzione, l'adattamento o lo sviluppo di tale software, dette amministrazioni aggiudicatrici comunichino tale codice sorgente ai candidati e agli offerenti potenziali e, in terzo luogo, che l'accesso a questo solo codice sorgente sia sufficiente a garantire che gli operatori economici interessati dall'aggiudicazione dell'appalto in questione siano trattati in modo trasparente, paritario e non discriminatorio.

Alla luce delle suesposte argomentazioni, pertanto, la Corte di Lussemburgo ha dichiarato che l'articolo 12, paragrafo 4, della direttiva 2014/24, in combinato disposto con il considerando 33, secondo comma, e con l'articolo 18, paragrafo 1, di tale direttiva, deve essere interpretato nel senso che una cooperazione tra amministrazioni aggiudicatrici non deve avere, conformemente al principio di parità di trattamento, l'effetto di porre un'impresa privata in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.

Tornando un po' indietro nel tempo, la Corte di Giustizia, Grande Sezione, con la sentenza del 19 dicembre 2012 (causa C-159/11), ha affermato che: «Il diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti».

La Corte europea era stata chiamata a scrutinare, nell'ambito di una controversia tra l'Azienda Sanitaria Locale di Lecce e l'Università del Salento in merito ad un contratto di consulenza stipulato tra l'ASL e l'Università avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce.

Si trattava di verificare se la conclusione di un accordo tra pubbliche amministrazioni non fosse contrario al principio della libera concorrenza qualora una delle amministrazioni interessate possa essere considerata un operatore economico, qualità riconosciuta ad ogni ente pubblico che offra servizi sul mercato, indipendentemente dal perseguimento di uno scopo di lucro, dalla dotazione di una organizzazione di impresa o dalla presenza continua sul mercato. Il giudice del rinvio si riferisce, al riguardo, alla sentenza della Corte del 23 dicembre 2009, CoNISMa (C305/08, Racc. I12129). In tale ottica, dal momento che l'Università può partecipare a una gara d'appalto, i contratti con essa stipulati da amministrazioni aggiudicatrici rientrerebbero nell'ambito di applicazione della normativa dell'Unione in materia di appalti pubblici quando abbiano ad oggetto, come nel procedimento principale, prestazioni di ricerca che non appaiono incompatibili con i servizi menzionati nelle categorie 8 e 12 dell'allegato II A della direttiva2004/18.

Nella specie la Corte ha reputato che un contratto non può esulare dalla nozione di appalto pubblico per il solo fatto che la remunerazione in esso prevista sia limitata al rimborso delle spese sostenute per fornire il servizio convenuto.

Emerge tuttavia dalla giurisprudenza della Corte che due tipi di appalti conclusi da enti pubblici non rientrano nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici. Si tratta, in primo luogo, dei contratti di appalto stipulati da un ente pubblico con un soggetto giuridicamente distinto da esso, quando detto ente eserciti su tale soggetto un controllo analogo a quello che esso esercita sui propri servizi e, al contempo, il soggetto in questione realizzi la parte più importante della propria attività con l'ente o con gli enti che lo controllano (v., in tal senso, sentenza Teckal, cit., punto 50). È comunque assodato che tale eccezione non è applicabile in un contesto come quello di cui al procedimento principale, dal momento che dalla decisione di rinvio risulta che l'ASL non esercita alcun controllo sull'Università.

In secondo luogo, si tratta dei contratti che istituiscono una cooperazione tra enti pubblici finalizzata a garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune a questi ultimi (v., in tal senso, sentenza del 9 giugno 2009, Commissione/Germania, C 480/06, Racc. I 4747, punto 37 ).

In tale ipotesi, le norme del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici non sono applicabili, a condizione che – inoltre – tali contratti siano stipulati esclusivamente tra enti pubblici, senza la partecipazione di una parte privata, che nessun prestatore privato sia posto in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti, e che la cooperazione da essi istituita sia retta unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico (v., in tal senso, sentenza Commissione/Germania, cit., punti 44 e 47).

Se è pur vero che, come rilevato dal giudice del rinvio, un contratto come quello controverso nel procedimento principale sembra soddisfare taluni dei criteri menzionati nei due precedenti punti della presente sentenza, un contratto siffatto può tuttavia esulare dall'ambito di applicazione del diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici soltanto qualora soddisfi tutti i suddetti criteri.

Al riguardo, dalle indicazioni contenute nella decisione di rinvio sembra risultare, in primo luogo, che tale contratto presenti un insieme di aspetti materiali corrispondenti in misura estesa, se non preponderante, ad attività che vengono generalmente svolte da ingegneri o architetti e che, se pur basate su un fondamento scientifico, non assomigliano ad attività di ricerca scientifica. Di conseguenza, contrariamente a quanto la Corte ha potuto constatare al punto 37 della citata sentenza Commissione/Germania, la funzione di servizio pubblico costituente l'oggetto della cooperazione tra enti pubblici istituita da detto contratto non sembra garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune all'ASL e all'Università.

In secondo luogo, il contratto controverso nel procedimento principale potrebbe condurre a favorire imprese private qualora tra i collaboratori esterni altamente qualificati cui, in base a detto contratto, l'Università è autorizzata a ricorrere per la realizzazione di talune prestazioni, fossero inclusi dei prestatori privati.

Spetta tuttavia al giudice del rinvio provvedere a tutti gli accertamenti necessari a questo proposito.

Alla questione sollevata occorre quindi rispondere dichiarando che il diritto dell'Unione in materia di appalti pubblici osta ad una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto mediante il quale taluni enti pubblici istituiscono tra loro una cooperazione, nel caso in cui – ciò che spetta al giudice del rinvio verificare – tale contratto non abbia il fine di garantire l'adempimento di una funzione di servizio pubblico comune agli enti medesimi, non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi d'interesse pubblico, oppure sia tale da porre un prestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti.

Bibliografia

Caringella, Corso di diritto amministrativo, Milano 2008; Damonte, L'accordo di programma in generale e i suoi effetti sui procedimenti urbanistici, in Riv. giur. dell'edilizia, 1/2002; Liberati, Il procedimento amministrativo, I, Padova, 2008; Pericu, L'attività consensuale della amministrazione pubblica, in Aa.Vv., Manuale di diritto amministrativo, t. II, 2001.

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