Legge - 24/11/1981 - n. 689 art. 9 - Principio di specialità.Principio di specialità. Quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa, ovvero da una pluralità di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative, si applica la disposizione speciale. Tuttavia quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione regionale o delle province autonome di Trento e di Bolzano che preveda una sanzione amministrativa, si applica in ogni caso la disposizione penale, salvo che quest'ultima sia applicabile solo in mancanza di altre disposizioni penali. Ai fatti puniti dagli articoli 5, 6 e 12 della legge 30 aprile 1962, n. 283, e successive modificazioni ed integrazioni, si applicano soltanto le disposizioni penali, anche quando i fatti stessi sono puniti con sanzioni amministrative previste da disposizioni speciali in materia di produzione, commercio e igiene degli alimenti e delle bevande1. [1] Comma sostituito dall'articolo 95 del D.Lgs. 30 dicembre 1999, n. 507. InquadramentoL'articolo in commento riproduce un principio generale dell'ordinamento giuridico, in base al quale se una stessa condotta è disciplinata da più disposizioni trova applicazione quella di maggior dettaglio, al fine di evitare inutili sovrapposizioni. Questo principio, detto appunto di specialità, è espressione del divieto del de bis in idem sostanziale, previsto nel codice penale dall'art. 15. Invero, se la medesima condotta è regolata da più norme penali prevale quella speciale, pure laddove disponga l'applicazione di una sanzione meno grave. Si configura in questi casi un concorso apparente di norme, perché l'unica previsione applicabile è quella che introduce elementi specializzanti rispetto alla norma generale. La controprova del rapporto di specialità è data infatti dal fatto che in assenza della disposizione di dettaglio la condotta sarebbe comunque sanzionata, rientrando nella previsione generale. Secondo quanto affermato dalla Cassazione, sezione I, con sentenza n. 7112 del 25 maggio 2001, «presupposto per l'applicabilità della disposizione speciale è dunque la identità del fatto, sanzionato sia penalmente che quale illecito amministrativo, ovvero che la violazione amministrativa in astratto contestabile costituisca un elemento del fatto-reato, essendone parte integrante». Sulla base di tali presupposti, il rapporto di specialità si configurerebbe soltanto tra norme poste a tutela di un bene giuridico identico ed omogeneo. La scelta del legislatore penale a monte e, successivamente, di quello della Legge in commento è stata quella di evitare che il medesimo fatto potesse essere punito più volte: anche in presenza di un comportamento che integra gli estremi di più disposizioni, la violazione è unica e unica, pertanto, deve essere la punizione. L'estensione del principio anche al caso in cui la stessa condotta sia presa in considerazione da disposizioni di natura differente, penale e amministrativa, riporta, però, in luce la questione della funzione svolta dal potere sanzionatorio amministrativo. In particolare, la configurabilità di un rapporto di specialità anche tra illeciti penali e illeciti amministrativi sembra orientata a confermare l'unitarietà del sistema punitivo e l'identità tra le due misure sanzionatorie, almeno da un punto di vista sostanziale; solo ammettendo che le sanzioni penali e amministrative svolgano la medesima funzione deterrente e punitiva può giustificarsi l'individuazione e l'applicazione di un rapporto di specialità. L'art. 15 del Codice Penale, peraltro, nel regolare i conflitti tra differenti disposizioni penali a prima vista applicabili a una medesima fattispecie concreta, stabilisce che debba prevalere la norma speciale «salvo che sia altrimenti stabilito». L'assenza di una simile previsione nella legge sugli illeciti depenalizzati sembra, perciò, necessariamente confermare che il raffronto tra norma comportante una sanzione penale e norma comportante una sanzione amministrativa debba essere fatto solo in virtù della fattispecie dotata del maggior numero di elementi specializzanti e non invece in rapporto al disvalore dei rispettivi illeciti. Questa conclusione comporta un'importante considerazione di principio: risulta infatti evidente come il legislatore del 1981 abbia voluto in un certo senso mettere sullo stesso piano la sanzione penale e la sanzione amministrativa, nel senso di dare ad entrambe la stessa finalità. Se si ragiona a contrariis si può infatti dire che, se così non fosse, potrebbero trovare spazi applicativi entrambe le sanzioni, come avviene ad esempio nel caso di cumulo tra sanzioni penali e sanzioni amministrative in conseguenza di reati contro la pubblica amministrazione commessi da pubblici ufficiali o da incaricati di pubblico servizio. Questa disposizione normativa ha, com'è comprensibile, suscitato accesi dibattiti in dottrina e in giurisprudenza; a fugare buona parte dei dubbi è dovuta intervenire la Corte costituzionale che, con la storica sentenza n. 97 del 3 aprile 1987, ha fatto chiarezza nei rapporti tra illegittimità amministrativa e illiceità penale. In primo luogo la Corte ha confermato l'omogeneità dei fini sanzionatori penali e amministrativi, affermando che: «vero è che il primo comma dell'art. 9 della l. n. 689/1981, nel sancire l'applicabilità della disposizione speciale “quando uno stesso fatto è punito da una disposizione penale e da una disposizione che prevede una sanzione amministrativa”, si rifà ai ben noti principii che disciplinano la risoluzione del concorso apparente di norme. Quel che di particolare il predetto comma inserisce nel sistema è l'estensione dei sopraindicati principii (che, almeno di regola, erano riferiti al solo concorso apparente di norme e di leggi penali) anche al concorso apparente tra disposizioni penali e disposizioni prevedenti sanzioni amministrative o tra disposizioni amministrative. Si ritenga, pertanto, il concorso apparente di norme appartenere alla teoria dell'interpretazione o dell'applicazione delle norme, certo è che, una volta constatata la convergenza su di uno stesso fatto di più disposizioni, delle quali una sola è “effettivamente” applicabile, a causa delle relazioni intercorrenti tra le disposizioni stesse (ad es. rapporto di “specialità” ex art. 15 C.P.) ed una volta risolto il conflitto con la “scelta” d'una sola delle disposizioni confliggenti, la disposizione o le disposizioni “escluse” dalla prevalenza della legge effettivamente applicabile non son più “valide”, per la disciplina del fatto concreto; sono “definitivamente” messe “fuori gioco”, in relazione a quest'ultimo, appunto dalla legge effettivamente “valida” nella specie». Evoluzione normativa del principio di specialitàLa scelta, da parte del legislatore, di introdurre il principio di specialità per la risoluzione del concorso apparente di norme, è il frutto di un percorso complesso e travagliato, nel corso del quale più volte è mutata la decisione in ordine alla soluzione da adottare. Il Testo Unificato, adottato dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati il 31 luglio 1980, prevedeva il cumulo materiale tra sanzione penale e sanzione ab origine amministrativa, mentre il concorso tra norma penale e norma amministrativa depenalizzata era regolato dal principio di specialità; nella formulazione della norma, la prima ipotesi riveste il ruolo di regola, mentre la seconda è configurata come ipotesi eccezionale. La soluzione prescelta dal legislatore, in quella sede, per risolvere il concorso tra norma penale e norma ab origine amministrativa (cumulo materiale) lasciava trasparire l'idea di una eterogeneità funzionale dei due tipi di sanzione (penale e amministrativa): la prima avente carattere afflittivo-preventivo, la seconda civilistico-risarcitorio (Pagliaro, 25). Attenta dottrina (Dolcini, Paliero, 1167) denunciò l'irrazionalità di una scelta diversificata in base alla genesi della sanzione amministrativa (se frutto di depenalizzazione o amministrativa ab origine), evidenziando come, nel caso del cumulo materiale, si andasse comunque incontro ad una violazione sistematica del principio del ne bis in idem, consentendo il cumulo sanzionatorio. D'altro canto, anche l'utilizzo del principio di specialità nel concorso norma penale-norma amministrativa depenalizzata avrebbe portato a risultati irragionevoli, nel senso dell'applicazione della sola sanzione amministrativa, normalmente prevista nelle disposizioni speciali rispetto alle norme penali. La soluzione proposta, in uno dei primi commenti al Progetto Unificato, fu quella di adottare una soluzione simile a quanto previsto nel § 21 delle Ordnungswidrigkeiten, il quale stabiliva la prevalenza in ogni caso della disposizione penale, con la possibilità di applicare la sanzione amministrativa nelle ipotesi di mancata irrogazione, per qualsiasi motivo, della sanzione penale. Tuttavia, nel testo definitivo della l. n. 689/1981, prevalse una soluzione in bonam partem e apparve più congruo, dunque, unificare il trattamento del concorso apparente di norme, prevedendo la risoluzione di tale concorso alla luce del solo criterio della specialità. Il concetto di «stesso fatto»Una volta introdotta la norma di cui all'art. 9, i problemi sono sorti in merito all'interpretazione della nozione di «stesso fatto» la quale – diversamente dalla disciplina contenuta nel codice penale, incentrata sulla nozione di «stessa materia» – complica notevolmente l'individuazione dei presupposti del concorso apparente di norme. In particolare ci si chiede se il richiamo dello «stesso fatto» implichi un confronto logico-strutturale tra fattispecie astratte (specialità in astratto), oppure se è necessario che lo stesso fatto concreto sia riconducibile a più disposizioni sanzionatorie, sussistendo il rapporto di specialità pur in assenza di un rapporto astratto di genus ad speciem (specialità in concreto). Le acquisizioni della dottrina penalistica in ordine alla risoluzione del concorso apparente di norme in ambito codicistico possono, per quel che riguarda il principio di specialità, essere trasfuse nel settore dell'illecito amministrativo, senza poter opporre la considerazione che nell'art. 15 c.p. si fa riferimento alla «stessa materia» e non allo «stesso fatto». Secondo il prevalente orientamento dottrinale (De Francesco, 40) il giudizio volto a stabilire se sussista un rapporto di specialità tra norme va condotto su criteri strutturali, confrontando fra loro le fattispecie astratte. L'espressione «stesso fatto» non implica, quindi, la necessità di prendere in considerazione il fatto concreto, in quanto la cd. specialità in concreto è già stata rifiutata dalla dottrina come un controsenso, perché non è logicamente sostenibile far dipendere da un fatto concreto l'insaturazione di un rapporto di genere a specie tra norme (Mantovani, 449). Seguendo tale impostazione, dunque, sarebbe preclusa la possibilità di considerare il fatto concreto ai fini della valutazione di un rapporto di specialità tra norme: ciò che conterebbe, in sostanza, non sarebbe la riconducibilità di un medesimo fatto concretamente verificatosi a più disposizioni, bensì l'identità tra elementi costitutivi delle fattispecie astratte previste da diverse disposizioni sanzionatorie. La circostanza che, nell'art. 9 l. cit., non ricorra l'inciso «salvo che sia altrimenti stabilito», presente invece nell'art. 15 c.p., impedisce il ricorso a canoni ulteriori e diversi da quello della specialità nella risoluzione dei conflitti tra norme. Si fa riferimento ai criteri – tutti elaborati dalla dottrina penalistica in ordine alla disciplina presente all'interno del Codice Rocco, la quale consente l'utilizzo di altri criteri oltre a quello della specialità – della sussidiarietà e della consunzione (o assorbimento): tutti inutilizzabili nel settore dell'illecito amministrativo punitivo, in virtù del dettato dell'art. 9, l. n. 689 del 1981. La giurisprudenza di legittimità pare porsi nella medesima prospettiva della dottrina penalistica, nel senso d'intendere il principio di specialità evocato dall'art. 9 l. n. 689 del 1981 in un'accezione logico-formale, che presuppone un rapporto di continenza strutturale tra norme: l'analisi è tutta incentrata sugli elementi costitutivi di queste ultime. Le Sezioni Unite penali hanno ribadito l'orientamento in base al quale il rapporto di specialità tra norme va verificato esclusivamente alla luce del raffronto tra fattispecie astratte (Cass. S.U., n. 37424/2013). Si registrano numerosi e significativi arresti della Corte di Cassazione in relazione a ipotesi di concorso apparente tra illeciti penali e illeciti amministrativi, tutti risolti facendo applicazione del principio di specialità in astratto, tra cui si segnalano i seguenti: – l'inottemperanza del conducente di un veicolo a fermarsi – in seguito all'ordine impartito da un ufficiale di Polizia Municipale – integra l'illecito amministrativo previsto dall'art. 192 C.d.S. e non la contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. («Inosservanza dei provvedimenti dell'Autorità») (cfr., Cass. I, n. 36736/2008); – in tema di diritto d'autore, integra l'illecito amministrativo di cui all'art. 171-ter l. 633/1941 (e non il reato di ricettazione previsto dall'art. 648 c.p.), la condotta di acquisto o noleggio di supporti audiovisivi abusivamente, atteso che tra le due norme sussiste un rapporto di continenza, in quanto nella norma codicistica sono compresi tutti gli elementi costitutivi della norma della legge sul diritto d'autore, la quale ultima descrive più specificamente condotte già comprese sul piano astratto nella prima (cfr. Cass. II, n. 19566/2006). – l'ipotesi del prelievo abusivo di acque sottratte al demanio regionale è stata ritenuta integrare esclusivamente l'illecito amministrativo di cui all'art. 23 del d.lgs. 152/1999, non anche il delitto di furto ex art. 624 c.p. Tra le norme in esame sussiste infatti, secondo la Cassazione, un'ipotesi di concorso apparente, a fronte dell'omogeneità del bene giuridico tutelato (patrimonio); l'art. 23, d.lgs. cit., si pone, inoltre in rapporto di specialità rispetto alla norma codicistica, in modo da consentire l'operatività dell'art. 9 l. n. 689 del 1981, con conseguente prevalenza della norma speciale su quella codicistica generale (Cass. II, n. 17580/2013). Risulta, invece, assolutamente minoritario l'orientamento che interpreta il principio di specialità come riconducibilità del medesimo fatto in concreto a una pluralità di norme sanzionatorie (c.d. specialità in concreto) (Cass. III, n. 3467/1995). Il concorso apparente di norme: art. 9, comma 1Come detto, affinché si verifichi il concorso apparente di norme, è necessario che due (o più) disposizioni sanzionatorie puniscano lo «stesso fatto»; si applica, in tale ipotesi, la disposizione speciale. L'interferenza tra norma penale e norma sanzionatoria amministrativa statale viene dunque risolta applicando il principio di specialità (che è un principio a soluzione aperta, in quanto di volta in volta bisognerà confrontare le due norme e stabilire quale contiene il maggior numero di elementi specializzanti). Le disposizioni puniscono lo «stesso fatto» quando sono tra loro in relazione di specialità che sussiste nel momento in cui una disposizione contiene tutti gli elementi di un'altra disposizione, con l'aggiunta di almeno un elemento ulteriore e diverso. Tale elemento può essere sia un elemento che si aggiunge a quelli già presenti nell'altra disposizione, sia un elemento che specifica uno già presente: nel primo caso si parla di specialità per aggiunta, nel secondo di specialità per specificazione. Dunque il rapporto di specialità è definibile come un rapporto «di continenza strutturale fra due norme, nel senso che le relative fattispecie possono inscriversi l'una nell'altra come due cerchi concentrici aventi un raggio diseguale, dei quali il più grande – che rappresenta la norma generale – comprende al suo interno il più piccolo, che rappresenta la norma speciale» (Cass. n. 4238/2007) In assenza della norma speciale tutti i comportamenti sarebbero regolati dalla norma generale, che già li comprende. In assenza di un rapporto di specialità tra norme non si versa nell'ipotesi di concorso apparente di norme, bensì in quella – diversa – del concorso d'illeciti (risolto alla luce del cumulo materiale, in caso di concorso tra illeciti penali e amministrativi; in base al cumulo giuridico, nelle ipotesi di concorso tra illeciti amministrativi: si v. art. 8, l. cit.) Nel sistema della l. n. 689, il principio di specialità opera sia come criterio d'identificazione della norma prevalente, sia sulla configurabilità stessa del concorso apparente di norme, nel senso che in tanto quest'ultimo potrà sussistere, in quanto le norme siano tra loro in rapporto di genus ad speciem. Un esempio riguarda il concorso tra l'art. 213 del Codice della strada e l'art. 334 del Codice Penale, limitatamente alla condotta di chi circola abusivamente con un veicolo sottoposto a sequestro amministrativo. Il citato art. 213 contiene tutti gli elementi specializzanti (specialità per specificazione) rispetto alla predetta norma penale, quali la circolazione abusiva e la natura amministrativa del sequestro, tenuto conto che, se la sottrazione del veicolo si realizza con la semplice amotio dello stesso, questa condotta è prevista anche dalla norma penale che fa riferimento al sequestro disposto dall'autorità amministrativa. Altresì, l'art. 213 prevede un ulteriore elemento specializzante “per aggiunta” rispetto alla fattispecie penale e consistente nella circostanza che l'illecito amministrativo può essere commesso da chiunque e non solo dal proprietario e custode, come previsto, invece, dalla norma penale. Ne deriva che, in conformità all'art. 9, comma 1, della l. n. 689/1981, tra le due norme in esame sussiste solo un concorso apparente, con la 4.1. conseguenza che nel caso in cui il custode del veicolo sottoposto a sequestro amministrativo circoli abusivamente con lo stesso, dovrà applicarsi solo la sanzione amministrativa (cfr. Cassazione penale, Sezioni Unite, sentenza n. 1963 del 21 Gennaio 2011). Art. 9, comma 2 Il secondo comma dell'art. 9 si occupa del concorso tra norme penali e norme amministrative emanate dalle Regioni (e dalle Province Autonome di Trento e Bolzano), stabilendo che quando uno stesso fatto è punito da tali norme prevale in ogni caso la disposizione penale; a meno che la disposizione penale sia applicabile solo in assenza di altre disposizioni penali. Il presupposto di operatività dell'ipotesi prevista dal secondo comma è il medesimo di quanto previsto al primo comma: una pluralità di disposizioni sanzionatorie (in questo caso, aventi diverso rango legislativo) che puniscano lo stesso fatto. Diverso, però, è il criterio di risoluzione del concorso di norme: nel primo comma ci si affida – esclusivamente – al principio di specialità; nel caso previsto dal secondo comma, invece, prevale in ogni caso la norma penale, pur se la norma amministrativa regionale dovesse essere speciale. Si tratta, evidentemente, di una deroga espressa al principio di specialità di cui al primo comma (Dolcini, 61). La ratio di tale deroga consiste nell'evitare la possibile prevalenza di disposizioni sanzionatorie amministrative regionali speciali rispetto a norme penali statali generali, con conseguente – inaccettabile – difformità di trattamento nel territorio dello Stato; ciò a tutto discapito sia del monopolio statale in tema di ordinamento penale – il quale è posto a garanzia dell'indispensabile uniformità di trattamento penale su tutto il territorio statale (Corte cost., sent. 7 luglio 1986, n. 179) – che della statuizione contenuta nell'art. 25, II comma, Cost., il quale ultimo non solo impedisce alle Regioni di emanare norme penali, ma preclude agli organi legislativi regionali di rendere inoperanti, all'interno del proprio territorio, le disposizioni penali emanate dallo Stato centrale (Piergallini, 470). Tuttavia, se applicata letteralmente, la disposizione di cui al secondo comma dell'art. 9 potrebbe rendere del tutto priva di applicazione la legislazione regionale in tema di sanzioni amministrative, in quanto sarebbe sufficiente – per il legislatore statale – emanare norme penali, le quali troveranno applicazione anche se generali, rispetto alle disposizioni sanzionatorie amministrative regionali speciali. Proprio per ovviare a tale inconveniente, la giurisprudenza della Cassazione è giunta ad ammettere la possibilità che sanzioni amministrative previste da norme regionali si applichino in aggiunta alle norme penali statali, mediante l'affermazione che «la regola stabilita dal secondo comma è derogabile per effetto di altra espressa disposizione di legge, ivi inclusa la legge regionale» (Cass. n. 21967/2004). Infatti, l'art. 9, II comma, «pur prevedendo la prevalenza della norma penale statale, non esclude la possibilità di diverse soluzioni del conflitto di norme» (Cass. n. 3080/1988); dunque, dovrà essere la disposizione regionale a prevedere espressamente la sua applicazione in aggiunta alla disposizione penale statale; se ciò non è previsto, troverà applicazione – in attuazione dell'art. 9, II comma – la sola norma penale. In tal modo, da un concorso apparente di norme si passa a un concorso materiale di sanzioni (Colucci, Dima, 375). Art. 9, comma 3 La disciplina contenuta nella l. n. 689/1981, in quanto disciplina di rango ordinario, ben può essere derogata da discipline di settore contenute in leggi successive, con l'unico limite del rispetto dei principi costituzionali che impongono il rispetto di determinate garanzie sostanziali e procedimentali. La deroga al principio di specialità presente nel terzo comma dell'art. 9 riguarda, in particolare, la disciplina dei reati in materia alimentare di cui agli artt. 5,6 e 12 della l. n. 283 del 1962. La scelta operata dal legislatore (nel senso dell'applicabilità, in caso di più norme disciplinanti lo stesso fatto, della sola sanzione penale) risponde in primis ad esigenze contingenti, volte a preservare – in un settore in cui le violazioni si caratterizzano per un elevato grado di offensività – una spiccata carica preventiva e repressiva al meccanismo di tutela della salute e della sicurezza alimentare, evitando che quest'ultimo venga meno a seguito dell'applicazione di una sanzione amministrativa. L'opzione normativa adottata risponde anche a un'esigenza di tipo pratico: quando, con d.lgs. n. 507 del 1999, venne attuata la depenalizzazione in materia di alimenti, il legislatore si trovò di fronte allo sconfortante scenario di una disciplina altamente frammentata, quasi pulviscolare. Nel temere di non riuscire a dominare l'intera materia, optò dunque per una depenalizzazione «a tappeto», ma fece salvi i presidi penali approntati dalla storica normativa del 1962. A ciò si aggiunge che l'art. 2 della l. n. 898/1986, in materia di aiuti comunitari al settore agricolo prevede l'illecito penale (sussidiario rispetto all'art. 640-bis c.p.) di chi «mediante l'esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale». L'art. 3 della medesima legge stabilisce, poi, che «indipendentemente dalla sanzione penale e qualunque sia l'importo indebitamente percepito, per il fatto indicato nei commi primo e secondo dell'art. 2 il percettore è tenuto, oltre alla restituzione dell'indebito, al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria pari all'importo indebitamente percepito». La terminologia usata dal legislatore («indipendentemente dalla sanzione penale») dimostra la consapevolezza di quest'ultimo di legiferare in deroga al principio di specialità contenuto nell'art. 9 della l. n. 689/1981, prevedendo espressamente il cumulo materiale di sanzioni di specie diversa (Cass. n. 18343/2006). Il dilemma del doppio binario sanzionatorio: quale rimedio in caso di violazione del principio?L'art. 9 lambisce il tema della violazione del ne bis in idem o eterogeneo, che viene in rilievo, secondo parametri europei, nel caso in cui la medesima condotta sia sottoposta a una sanzione penale e aa u a amministrativa sostanzialmente penale secondo i criteri convenzionali e unionali. È noto che la qualificazione, a fini convenzionali, della sanzione nazionale formalmente amministrativa in termini di sanzione sostanzialmente penale rileva ai fini dell'applicazione del principio del ne bis in idem di cui all'art. 4, paragrafo 1, del Protocollo addizionale n. 7 alla CEDU (alla cui stregua «Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato») nei casi di cd. doppio binario sanzionatorio. Con tale espressione ci si riferisce ai casi – per vero molteplici – in cui l'ordinamento nazionale prevede che il medesimo fatto integri sia un illecito penale sia un illecito amministrativo giustificando, pertanto, il cumulo tanto di una pena quanto di una sanzione amministrativa. L'astratta ammissibilità, per l'ordinamento interno, del concorso tra sanzione penale e sanzione amministrativa deve però fare i conti, sul piano convenzionale, con la reale natura della sanzione amministrativa. Invero, se quest'ultima, in applicazione dei criteri Engel, deve essere qualificata come «pena» a fini convenzionali, viene in rilievo il principio del ne bis in idem processuale sancito dall'art. 4, Protocollo 7 della CEDU per cui un medesimo fatto-reato non può essere giudicato o punito più di una volta. In proposito, la Corte di Strasburgo dopo aver dapprima ritenuto incompatibile con il principio del ne bis in idem di cui all'art. 4 Protocollo 7 CEDU, tutti i casi nazionali di cd. doppio binario sanzionatorio nei quali si assista al cumulo di una sanzione propriamente penale e di una sanzione formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale alla stregua dei cd. criteri Engel (Corte EDU., 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia), ha successivamente abbracciato un orientamento più flessibile. A partire dalla sentenza 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia, la Corte di Strasburgo (a Grande Camera), ha, infatti, chiarito che dall'art. 4 Protocollo 7 CEDU non è possibile dedurre un divieto assoluto per lo Stato di apprestare un sistema di risposte sanzionatorie a condotte socialmente offensive che si articoli attraverso separati procedimenti (amministrativo e penale) destinati a concludersi con l'irrogazione di due sanzioni distinte, sia pur entrambe sostanzialmente penali; affinché ciò sia compatibile con il principio convenzionale del ne bis in idem volto a tutelare l'individuo da arbitrarie duplicazioni del trattamento sanzionatorio, è, tuttavia, necessario che fra gli stessi sussista una «connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta» sufficiently close connection in substance and time») tale da potersi concludere che i due procedimenti, pur formalmente distinti, rappresentano aspetti di un'unica risposta integrata dell'ordinamento contro il medesimo fatto illecito»). Al fine di accertare l'effettiva sussistenza di siffatta connessione dovranno essere verificate le seguenti condizioni: a) che i due procedimenti previsti per la violazione perseguano scopi differenti e abbiano a oggetto profili differenti della medesima condotta antisociale; b) che la duplicità dei procedimenti sia circostanza prevedibile per il soggetto agente, il quale deve poter sapere sin dall'inizio che nei suoi confronti potrebbe essere esercitata l'azione penale e al contempo avviato un procedimento sanzionatorio sul piano amministrativo; c) che i due procedimenti, amministrativo e penale, si svolgano parallelamente e siano tra loro connessi; d) che la pena inflitta all'esito del processo penale venga tenuta in considerazione nel procedimento amministrativo e viceversa, al fine di garantire la proporzionalità fra il disvalore del fatto e il complessivo trattamento sanzionatorio inflitto. Ricorrendo siffatte circostanze (sostanzialmente analoghe a quelle enucleate dalla Corte di Giustizia ai fini della compatibilità dei casi di cd. doppio binario sanzionatorio con il principio del ne bis in idem di cui all'art. 50 della Carta di Nizza), i due procedimenti e le corrispondenti sanzioni vengono a comporre uno schema sanzionatorio unitario e omogeneo, senza che possa ritenersi sussistente, nemmeno sul piano convenzionale, alcuna violazione del principio del ne bis in idem ex art. 4, Protocollo 7 CEDU. Registriamo ora le posizioni affiorate in dottrina in merito ai rimedi attivabili in caso di violazione del ne bis in idem convenzionale/eterogeneo nel cosiddetto doppio binario sanzionatorio secondo i parametri Grande Stevens e Norvegia. Caso di preventiva adozione di una sanzione amministrativa definitiva Iniziamo a esaminare il caso in cui sia divenuta definitiva per prima la sanzione amministrativa. Occorre, in tale campo, distinguere il caso di violazione del « ne bis idem » c.d. convenzionale attraverso un secondo provvedimento non definitivo, dal caso di avvenuta formazione del giudicato anche in relazione al secondo provvedimento. Nel primo caso, il condannato potrà utilizzare quale rimedio gli ordinari mezzi di impugnazione delle sentenze, eccependo, per l'appunto la violazione dell'art. 649 cpp. Nell'ipotesi in cui la questione venga sollevata davanti alla Corte di Cassazione, vi potrà essere un annullamento con rinvio o senza rinvio; la Corte ha, infatti, ritenuto di poter valutare direttamente la proporzionalità del cumulo sanzionatorio nei casi di cui all'art. 620 comma 1 lett.l) c.p.p. Resta peraltro da chiedersi se il potere di riqualificazione in senso penalistico della sanzione amministrativa già irrogata possa transitare da un'interpretazione conforme dell'art. 649 cpp o, come affermato dalla Cassazione nel 2016, richieda la declaratoria di incostituzionalità di tale ultima disposizione. Il problema si pone, in modo più pregnante, per i provvedimenti irrevocabili, in quanto, l'individuazione di un rimedio alla violazione trova un ostacolo nell'intangibilità del giudicato interno, i cui rimedi revocatori e rescissori sono eccezionali e tassativi. Il rimedio previsto dal diritto interno per i casi di giudicato in contrasto con il principio del «ne bis in idem» è un rimedio «in executivis», disciplinato dall'art. 669 c.p.p.: tale norma prevede che, a fronte di un plurimo giudicato «in idem» fattuale (non necessariamente giuridico), il giudice dell'esecuzione ha il compito di selezionare un solo titolo esecutivo (con contestuale revoca degli altri), applicando un criterio non già cronologico, bensì, almeno di regola, di «favor rei». La questione che si pone è quella di valutare se tale norma, pensata per il « bis in idem » in materia penale, possa essere oggetto di un'interpretazione estensiva/conforme, al fine di estenderne l'ambito applicativo al bis in idem convenzionale (nel c.d. doppio binario sanzionatorio). Questa soluzione va esclusa per diversi motivi: a) tale disposizione si riferisce a un doppio procedimento, o giudicato, «penale», ed estenderne l'applicazione a quelli «sostanzialmente penali», secondo gli indici convenzionali, significherebbe violare il principio di stretta legalità in materia penale; b) non si può ipotizzare l'applicazione dell'analogia iuris (così come è stato fatto dalle Sez. Unite della Cassazione nell'estendere la portata del 649, comma 2, c.p.p. anche ai casi ai casi di litispendenza) perché si tratterebbe di ampliarne l'ambito applicativo al di fuori della materia penale, intesa nella sua accezione formale e si porrebbero problemi pratici di adattamento della disciplina di cui all'art. 669 c.p.p. al «ne bis in idem convenzionale» (è arduo individuare la sanzione più tenue a fronte di misure eterogenee); per non dire dell'altro insormontabile ostacolo rappresentato dall'individuazione del giudice dell'esecuzione competente (i criteri di determinazione della competenza in executivis ex art. 665, comma 4, c.p.p. presuppongono che tutti i giudici potenzialmente interessati esercitino la giurisdizione in materia penale, mentre nel caso di specie, in cui sussistono sia illeciti penali che illeciti amministrativo-penali, «concorrerebbero» con il giudice penale un'autorità amministrativa come il Garante della Concorrenza o la Consob (che non è un giudice) o il giudice amministrativo (o civile come la Corte d'appello civile, ex art. 187-septies TUF.). In definitiva, constatato che il rimedio ex art. 669 c.p.p. non risulta applicabile a tali casi (o almeno finché non sia introdotto un apposito adattamento ex lege) e salvo paventare una questione di legittimità costituzionale di tale precetto (per violazione degli artt. 4, allegato 7, CEDU, 50 Carta Nizza e 25-27 Cost), le uniche possibilità di rimedio alla violazione del ne bis in idem convenzionale sembrerebbero due. In primo luogo, il condannato può fare ricorso alla Corte Edu, la quale valuterà la corretta applicazione, da parte dei giudici, dei criteri elaborati dalla stessa Corte nella sentenza A e B c. Norvegia; in caso di esito favorevole al condannato, quest'ultimo potrà, poi, utilizzare il rimedio della «revisione europea», introdotto dalla sentenza costituzionale n. 113/2011 sulla base di un'interpretazione estensiva dell'art. 630 c.p.p., al fine di ottenere la rimozione del giudicato penale per sopravvenuto contrasto con una sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo. Un'altra possibilità per il condannato- probabilmente preferibile perché occorre solo rinnovare in tutto o in parte il momento decisorio e in ragione dell'estensione ai fratelli minori- è quella di ottenere, a valle della condanna da parte della Corte Edu per violazione della legalità sostanziale (cd «diritto alla pena legale»), la rimozione della sentenza di condanna penale ai sensi degli artt. 673 cpp e 30, comma 4, della l. n. 87/1953. A seconda dei casi la rimozione potrà essere totale (revocazione piena) in caso di integrale duplicazione, o parziale (rimodulazione della pena) in caso di violazione del test di proporzionalità. Per i fratelli minori è possibile ottenere l'estensione della pronuncia di Strasburgo nel caso di sopravvenuta dichiarazione di incostituzionalità delle ostative norme sull'esecuzione penale o della stessa norma penale, per contrasto con l'art. 117 primo comma Cost. in relazione all'art. 4, Protocollo 7, CEDU, qualora essa venga ritenuta, anche in astratto, incompatibile con i criteri elaborati dalla Corte Edu relativi alla legittimità del doppio binario sanzionatorio. A tale stregua, il condannato potrebbe avvalersi del rimedio previsto dall'art. 673 c.p.p. per ottenere la revoca del giudicato che ha applicato una norma dichiarata incostituzionale. Laddove le disposizioni in esame fossero considerate direttamente violative dei parametri di legittimità costituzionale ex artt. 25, comma 2 (riserva di legge) e 27, comma 3 (funzione della pena), Cost, la rimozione della sentenza non richiederebbe il preventivo passaggio della condanna europea. Caso di preventiva adozione di una sanzione penale definitiva Nel caso, invece, di previa condanna penale, si dovrebbe concludere nel senso dell'archiviazione della procedura amministrativa in corso in forza dell'avventura raggiungimento dello scopo. Nel diverso caso di provvedimento definitivo, la P.A. dovrebbe prendere atto della sanzione penale assorbente e annullare il provvedimento in via di autotutela doverosa. Il carattere non direttamente efficace delle nome convenzionali pone però il problema della necessità (ove non operino gli articoli 50 e seguenti di Nizza) di passare dal medio della declaratoria di incostituzionalità dell'art. 21-nonies della l. 241 nella parte in cui prevede un'autotutela discrezionale, sottoposta a limiti motivazionali, procedimentali e cronologici. In caso, invece, di sanzione comminata in via definitiva dal giudice civile o da quello amministrativo in sede di giurisdizione di merito ex art. 134 cpa, è indispensabile estendere il raggio del rimedio della revocazione (civile e amministrativa) attraverso una sentenza manipolativa della Consulta. Un ottimo spunto si ritrova sentenza della Corte Cost 68/2021, che ha permesso al giudice penale di sindacare anche la sanzione amministrativa da lui irrogata in sede di esecuzione. Sarebbe auspicabile un intervento legislativo per chiarire la procedura, l'autorità competente e i criteri finalizzati alla scelta della sanzione prevalente (quella speciale ex art. 9 l. n. 689/1981 o la prima applicata?). Fino ad allora sarà un tema consegnato al dibattito. Un dibattito acceso e incendiario. L'esito finale deve essere, comunque, la disapplicazione totale o parziale, da parte del secondo giudice, della sanzione eccedente. Le condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette. Cons. St. VI, ord. 7 gennaio 2022, n. 68 ha rimesso alla Corte di Giustizia le seguenti questioni: a) se le sanzioni irrogate in tema di pratiche commerciali scorrette, ai sensi della normativa interna attuativa della direttiva 2005/29/Ce, siano qualificabili alla stregua di sanzioni amministrative di natura penale; b) se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea vada interpretato nel senso che esso osta a una normativa nazionale che consente di confermare in sede processuale e rendere definitiva una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona giuridica per condotte illecite che integrano pratiche commerciali scorrette, per le quali nel frattempo è stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico in uno stato membro diverso, laddove la seconda condanna sia divenuta definitiva anteriormente al passaggio in giudicato dell'impugnativa giurisdizionale della prima sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale; c) se la disciplina di cui alla Direttiva 2005/29, con particolare riferimento agli artt. 3 paragrafo 4 e 13 paragrafo 2 lett. e), possa giustificare una deroga al divieto di «ne bis in idem» stabilito dall'art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea (successivamente incorporata nel Trattato sull'Unione Europea dall'art. 6 TUE) e dell'art. 54 della convenzione di Schengen». Ha chiarito il giudice rimettente che, sul versante della disciplina europea rilevante, in linea generale assumono rilievo le seguenti norme di principio: l'art. 50 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, a mente del quale «nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell'Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge»; l'art. 54 della convenzione di Schengen, a mente del quale «una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita». In linea particolare, a fronte della natura della sanzione irrogata con il provvedimento impugnato in prime cure, assume rilievo la normativa di cui alla direttiva 2005/29: sia ex art. 3 paragrafo 4 secondo cui «In caso di contrasto tra le disposizioni della presente direttiva e altre norme comunitarie che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, prevalgono queste ultime e si applicano a tali aspetti specifici»; sia ex art. 13 paragrafo 2, laddove statuisce che «Stati membri assicurano che, ai fini dell'irrogazione delle sanzioni, si tenga conto dei seguenti criteri, non esaustivi e indicativi, ove appropriati: ...e) sanzioni inflitte al professionista per la stessa violazione in altri Stati membri in casi transfrontalieri in cui informazioni relative a tali sanzioni sono disponibili attraverso il meccanismo istituito dal regolamento (UE) 2017/2394 del Parlamento europeo e del Consiglio». Per ciò che concerne il contenuto delle disposizioni nazionali rilevanti nel caso di specie, la disciplina applicata dall'Autorità, fa riferimento alle cc.dd. “pratiche commerciali scorrette”, che designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 del d.lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/Ce. La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire, a termini del suo considerando 23, un elevato livello comune di tutela dei consumatori procedendo ad un'armonizzazione completa delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese, ivi compresa la pubblicità sleale, nei confronti dei consumatori. Per “pratiche commerciali” – assoggettate al titolo III della parte II del Codice del consumo – si intendono tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente “correlati” alla “- promozione, vendita o fornitura –” di beni o servizi a consumatori, e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali. La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni. Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno “scorretta”, il comma 2 dell'art. 20 del Codice del consumo stabilisce in termini generali che una pratica commerciale è scorretta se “è contraria alla diligenza professionale” ed “è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori”. Nella trama normativa, la definizione generale si scompone tuttavia in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli artt. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli artt. 24 e 25). Il legislatore ha inoltre analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. “liste nere”) da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni “speciali” di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), senza che si renda necessario accertare la sua contrarietà alla “diligenza professionale” nonché dalla sua concreta attitudine “a falsare il comportamento economico del consumatore”. Il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non sia veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, inganni o possa ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio e che, in tal modo, sia idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di tale pratica. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, deve essere vietata. La condotta omissiva – per essere considerata ingannevole – deve avere ad oggetto “informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno” per prendere una decisione consapevole (art. 22). Al riguardo, va rimarcato che, in tutte le ipotesi in cui la pratica commerciale integri gli estremi di un “invito all'acquisto” – locuzione che comprende le comunicazioni commerciali – debbono considerarsi sempre e comunque “rilevanti” le informazioni relative alle “caratteristiche principali del prodotto” (art. 22, comma 4, lettera a); cfr. anche l'art. 7, paragrafo 4, della direttiva europea). In assenza di tali informazioni, un invito all'acquisto si considera quindi ingannevole (CGUE, 12 maggio 2011, Ving Sverige, C-122/10, EU:C:2011:299, punto 24). Quanto ai principi vigenti espressi in ordine al principio del ne bis in idem di cui alla normativa di principio sopra riportata, secondo la giurisprudenza europea (CGUE, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 537), l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea dev'essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. Nel caso di specie, se la sanzione penale tedesca risulta integrare gli estremi della seconda tipologia di pronuncia, quella oggetto della presente controversia parrebbe qualificabile in termini di sanzione amministrativa pecuniaria di natura «penale» nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato. A quest'ultimo riguardo, infatti, secondo la giurisprudenza europea la sanzione amministrativa ha natura penale laddove, come nel caso di specie, sia proporzionata non al solo danno da risarcire, avendo non soltanto lo scopo di risarcire il danno causato dall'illecito, ma perseguendo anche una finalità repressiva e presenta, pertanto, natura «penale». La stessa Corte edu, al fine di evitare quella che è stata definita la «truffa delle etichette», impone di guardare al di là dell'inquadramento formale e di cercare la realtà della procedura in questione (CEDU 27 febbraio 1980, caso Deweer); assume dunque rilievo la circostanza che la previsione sanzionatoria si rivolga ad una generalità di soggetti, non sia quindi una sanzione disciplinare, e che abbia contenuto afflittivo ed una funzione deterrente.In linea generale, infatti, la giurisprudenza europea ha già evidenziato che il principio del ne bis in idem, quale sancito all'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, si applica a violazioni del diritto della concorrenza e vieta che un'impresa sia condannata o perseguita nuovamente a causa di un comportamento anticoncorrenziale per il quale è stata sanzionata o per il quale è stata dichiarata non responsabile da una precedente decisione non più impugnabile. Per contro, tale principio non trova applicazione quando un'impresa è perseguita e sanzionata separatamente e in modo indipendente da un'autorità garante della concorrenza di uno Stato membro e dalla Commissione europea per violazioni dell'art. 102 TFUE relative a mercati di prodotto o mercati geografici distinti o quando un'autorità garante della concorrenza di uno Stato membro è privata della sua competenza in applicazione dell'art. 11, par. 6, prima frase, del regolamento (CE) n. 1/2003 (CGUE, sez. VIII, 25 febbraio 2021, n. 857 e sez. IV, 4 marzo 2020, n. 10). Lo stesso principio mira quindi ad evitare che un'impresa sia nuovamente condannata o perseguita, il che presuppone che tale impresa sia stata condannata o dichiarata non responsabile da una precedente decisione non più impugnabile. Ancora in linea generale, la giurisprudenza europea (CGUE, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 537) ha statuito che il principio del ne bis in idem, garantito dall'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, conferisce ai soggetti dell'ordinamento un diritto direttamente applicabile nell'ambito di una controversia come quella oggetto del procedimento principale. Tale principio non è infatti accompagnato da alcuna condizione ed è perciò immediatamente applicabile. È stato quindi evidenziato come l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea osti a una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. L'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea dovrebbe essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa pecuniaria di natura penale nei confronti di una persona per condotte illecite che integrano una manipolazione del mercato, per le quali è già stata pronunciata una condanna penale definitiva a suo carico, nei limiti in cui tale condanna, tenuto conto del danno causato alla società dal reato commesso, sia idonea a reprimere tale reato in maniera efficace, proporzionata e dissuasiva. Nel caso di specie peraltro, se per un verso la sanzione amministrativa italiana risulta irrogata (ben) prima di quella penale tedesca, per un altro verso la seconda è divenuta definitiva anteriormente alla prima. Peraltro, per ciò che concerne il dato temporale appena richiamato, peculiare della presente controversia, se per un verso la sanzione penale tedesca è divenuta definitiva anteriormente a quella qui controversa, stante la pendenza della presente impugnativa, per un altro verso la giurisprudenza della CEDU ha statuito che «l'art. 4 del Protocollo n. 7 non precludeva lo svolgimento di più procedimenti concorrenti prima della pronuncia della decisione definitiva. Vi sarebbe stata tuttavia violazione se un procedimento fosse proseguito successivamente alla data in cui l'altro procedimento si era concluso con decisione definitiva» (Corte Edu sentenza 27 novembre 2014, Lucky dev vs Svezia cit.). Inoltre, emergono dubbi sull'idoneità, quantomeno in parte qua, della sanzione penale irrogata in Germania ad essere efficace, proporzionata e dissuasiva anche in relazione alle condotte sanzionate in Italia. In proposito, la giurisprudenza europea adita dal Giudice italiano (CGUE, grande sezione, 20 marzo 2018, n. 524) ha già avuto modo di statuire che l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, letto alla luce dell'art. 4 del protocollo n. 7 CEDU, che afferma il principio del ne bis in idem, non è di ostacolo a una normativa nazionale, come quella italiana, in virtù della quale è possibile avviare procedimenti penali a carico di una persona per omesso versamento Iva, qualora a tale persona sia già stata inflitta, per i medesimi fatti, una sanzione amministrativa definitiva, qualificata come penale alla luce del medesimo art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea. Ciò vale però a condizione che tale normativa sia volta ad un obiettivo di interesse generale tale da giustificare un simile cumulo di procedimenti e di sanzioni, nonché preveda norme che consentano di garantire che la severità del complesso delle sanzioni imposte sia limitata a quanto strettamente necessario rispetto alla gravità del reato di cui si tratti. Questo è quanto affermato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea che ipotizza, dunque, in ambito tributario la possibilità del cumulo delle sanzioni amministrative e penali nel caso di omesso versamento di imposte, ma condiziona tale cumulo alla verifica che gli effetti che si determinano non risultino eccessivi rispetto alla gravità del reato commesso e che, perseguendo un interesse generale, non violi il principio di proporzionalità. La giurisprudenza europea ha altresì dichiarato che una limitazione del principio del ne bis in idem garantito dall'art. 50 della Carta può essere giustificata sulla base dell'art. 52, paragrafo 1, della medesima. Ai sensi dell'art. 52, paragrafo 1, primo periodo, della Carta, eventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla stessa Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. A termini del secondo periodo del suddetto paragrafo, nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni a tali diritti e libertà solo qualora siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. 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