Codice Penale art. 323 - Abuso d'ufficio 12.

Angelo Salerno

[Abuso d'ufficio 12.

[[I]. Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità3, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti 4, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da uno a quattro anni 5.

[II]. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità.]6

 

competenza: Trib. collegiale

arresto: facoltativo

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: non consentita

altre misure cautelari personali: consentite

procedibilità: d'ufficio

[1] Articolo così sostituito dall'art. 1 l. 16 luglio 1997, n. 234.

[2] Per la responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche, quando il fatto offende gli  interessi finanziari dell'Unione europea, v. art. 25, comma 1,  d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.

[3] L'art. 23, comma 1, d.l. 16 luglio 2020, n. 76, conv., con modif., in l. 11 settembre 2020, n. 120, in vigore dal 17 luglio 2020, ha sostituito le parole "di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità'" alle parole "di norme di legge o di regolamento". 

[4] Sull'obbligo di astensione degli amministratori degli enti locali, v. artt. 77 e 78 d.lg. 18 agosto 2000, n. 267.

[5] L'art. 1, comma 75, l. 6 novembre 2012, n. 190, ha sostituito alle parole: «da sei mesi a tre anni», le parole: «da uno a quattro anni».

Inquadramento

Fino al 16 luglio 2020, l'art. 323 c.p., che punisce il delitto di abuso d'ufficio, disponeva che «salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni.

La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno carattere di rilevante gravità».

Il bene giuridico tutelato dal delitto di abuso d'ufficio è pacificamente individuato nel buon andamento e nell'imparzialità dell'attività della Pubblica Amministrazione. Qualora tuttavia la condotta rechi a terzi un danno ingiusto e quindi sia causa di pregiudizio per il privato, si è sostenuto che la fattispecie assuma natura pluri-offensiva, sicché la persona offesa non sarebbe individuabile soltanto nella Pubblica Amministrazione ma anche nel privato (Cass. pen. VI, n. 40694/2006).

Per effetto del d.l. n. 76/2020, convertito con l. n. 120/2020, la disposizione in esame prevede oggi, al comma primo, che «salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto, è punito con la reclusione da uno a quattro anni».

Resta invariato il comma secondo della disposizione in ordine all'aggravante ad effetto comune per i casi di vantaggio o danno di rilevante gravità (l'aggravante si pone, secondo la giurisprudenza (Cass. pen. VI, n. 33933/2005) in rapporto di specialità rispetto all'aggravante comune di cui all'art. 61, n. 7, c.p., escludendone il concorso).

Si tratta della più recente tra le numerose modifiche che la disposizione in commento ha registrato nel corso degli atti, evolvendosi dalla controversa figura dell'abuso innominato di ufficio («il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, commette, per recare ad altri un danno o per procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto da una particolare disposizione di legge, è punito con la reclusione fino a due anni o con la multa da lire 100.000 a 2.000.000»), nell'odierna fattispecie, riscritta nel 1990, con l. n. 86, prevedendone la punibilità a titolo di dolo specifico, oggi superata, e facendovi confluire le condotte rientranti negli abrogati delitti di interesse privato e di peculato per distrazione.

Una seconda riforma è intervenuta tuttavia con l. n. 234/1997, al fine di arginare la tendenza della magistratura ad ingerirsi nella sfera del merito amministrativo, sindacando in sede penale l'utilizzo del potere discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione (Fiandaca, Musco, 240), specie con riferimento alle ipotesi di eccesso di potere ex art. 21- octiesdella legge n. 241 del 1990. La novella del 1997 ha così riformulato la condotta criminosa, con il chiaro intento di migliorarne la tassatività, consegnando il testo della norma vigente fino alla modifica del 2020; nel 2012, infatti, la legge n. 190 si è limitata a innalzare la cornice edittale, senza incidere sulla struttura del reato.

Il soggetto attivo e passivo

Il soggetto attivo del delitto viene individuato nei soggetti che rivestono la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di un pubblico servizio, rendendolo pertanto un reato proprio.

A seguito della novella attuata con la c.d. Riforma Cartabia, d.lgs. n. 150/2022, il delitto di abuso d'ufficio può essere realizzato anche dai soggetti indicati all'art. 322 bis c.p., come oggi integrato dalla riforma, che prende in considerazione i funzionari delle Istituzioni europee e che prestino comunque servizio presso l'Unione Europea, oltre che presso organizzazioni pubbliche internazionali.

La giurisprudenza ha affrontato la questione del concorso del privato nel delitto, in veste di extraneus, ritenuto ammissibile nella misura in cui questi abbia rivestito un ruolo causalmente rilevante nella realizzazione del reato, nel senso di un'effettiva attività di determinazione, istigazione o agevolazione alla commissione dell'abuso d'ufficio, nelle forme del concorso morale ovvero materiale, ma fuori dei casi di accordo criminoso tra il pubblico ufficiale e il privato, caratterizzato da uno scambio di utilità, che configurerebbe la diversa fattispecie di corruzione.

Non sono invece ritenute penalmente rilevanti dalla giurisprudenza le mere raccomandazioni o segnalazioni da parte del privato, in assenza di ulteriori comportamenti positivi o coattivi, atteso che non presentano di per sé rilevanza causale in relazione al comportamento del soggetto attivo (Cass. pen. VI, n.8121/2000).

Il soggetto passivo va individuato nella Pubblica Amministrazione, cui si aggiunge, aderendo al predetto orientamento che sostiene la natura pluri-offensiva del delitto, il privato leso dalla condotta criminosa nei propri interessi legittimi o diritti soggettivi.

La condotta criminosa

La condotta criminosa consiste nel procurare per sé o per altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero nell'arrecare a terzi un danno ingiusto, purché il reo agisca «intenzionalmente» e «nello svolgimento delle funzioni o del servizio».

È altresì necessario che la condotta che genera l'ingiusto profitto o l'altrui danno ingiusto si estrinsechi attraverso le modalità tipizzate dal legislatore con la riforma del 1997 e oggi modificate dal succitato decreto legge del 2020.

Originariamente, come osservato, il legislatore puniva la violazione di leggi o regolamenti, riferendosi, nel primo caso, a tutti gli atti aventi forza di legge, ivi comprese le leggi regionali e delle Province autonome o le leggi costituzionali, laddove i regolamenti ricomprendono le fonti normative di secondo grado, caratterizzate cioè dai requisiti di generalità, astrattezza e innovatività.

Il riferimento alle leggi evocherebbe, secondo parte della dottrina (Fiandaca, Musco, 240) la limitazione della tipicità del reato ai soli casi in cui il soggetto agente sia incorso nel vizio di «violazione di legge» o al più di «incompetenza», posto che la ripartizione delle competenze deve avvenire per legge o regolamento e costituisce pertanto una species della violazione di legge.

Non sarebbe pertanto possibile (proprio secondo la ratio della riforma del 1997) assegnare rilevanza penale alle condotte di abuso d'ufficio riferibili ad ipotesi di eccesso di potere, stante lo stretto legame che tale vizio del provvedimento amministrativo adottato presenta con la discrezionalità amministrativa e quindi con il merito amministrativo.

La giurisprudenza, pur aderendo a tale interpretazione restrittiva, ha tuttavia talvolta ravvisato gli estremi dell'abuso di ufficio a fronte di ipotesi di sviamento di potere, in cui il soggetto agente si fosse discostato indebitamente dalle finalità di interesse pubblico sottese al potere esercitato, pur rispettandone la forma.

Tale orientamento è stato condiviso dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 155/2011, in cui si afferma che la violazione di legge sussiste non solo quando la condotta del pubblico ufficiale si sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere ma anche se la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l'attribuzione.

Si è fatta strada così, nella giurisprudenza successiva, un'accezione sostanziale di violazione di legge, tale per cui «tra i vizi di legittimità dell'atto amministrativo l'eccesso di potere può rilevare per il giudice penale solo in quanto esso si traduca in illegittimità sostanziale: ciò avviene quando il provvedimento si presenta manifestamente aberrante per assoluto difetto di nesso tra i presupposti in fatto e le conclusioni, così da evidenziare l'abuso del potere discrezionale» (Cass. pen. II, n. 39874/2004).

Più di recente, tuttavia, è prevalsa una impostazione più rigida, secondo cui in tema di abuso di ufficio è riscontrabile la violazione di legge in tutte le ipotesi di contrasto tra il provvedimento e le disposizioni normative contenute in fonti di rango primario o secondario che definiscono i profili vincolati, formali o sostanziali, del potere e non, invece, l'eccesso di potere, sotto forma dello sviamento, che ricorre quando nei provvedimenti discrezionali il potere viene esercitato per un fine diverso da quello per cui è attribuito (da ultimo, in tal senso Cass. pen. V, n. 49485/2019).

Anticipando gli effetti della riforma del 2020, è stato quindi sostenuto che non sono del pari rilevanti ai fini dell'integrazione del delitto di abuso d'ufficio le violazioni di principi generali, come ad esempio il buon andamento o l'imparzialità dell'attività amministrativa, che non si traducano in specifiche disposizioni di legge (o regolamento, ante 2020): la violazione dei predetti principi potrebbe infatti al più tradursi in un vizio di eccesso di potere.

Esulano altresì dall'area penalmente rilevante inoltre le norme meramente procedimentali, ossia destinate ad esaurire la loro funzione all'interno del procedimento, senza incidere in modo diretto e immediato sulla decisione amministrativa, nonché di quelle di principio o programmatiche (Cass. pen. VI, n. 35108/2003).

Per vero, la giurisprudenza successiva ha operato una distinzione norme meramente procedimentali, cioè di rilevanza esclusivamente endo-procedimentale, e norme che disciplinano la forma, il contenuto e la funzione dell'atto amministrativo, le quali presentano indubbia rilevanza esterna, chiarendo che ai fini della configurabilità del delitto occorre avere riguardo all'idoneità della violazione commessa a determinare un ingiusto profitto o un danno ingiusto altrui (Cass. pen. VI, n. 37531/2007). Più di recente, è stato precisato che possono assumere rilievo anche i comportamenti e le attività preparatorie rispetto all'atto tipico che integra il reato (Cass. pen. VI, n. 10067/2021).

Come anticipato, le esposte incertezze interpretative (Fiore, 275) e la ratio di semplificazione esplicitata nella rubrica del d.l. n. 76/2020, «Misure urgenti per la semplificazione e l'innovazione digitale», hanno indotto il legislatore a sostituire l'inciso «norme di legge o di regolamento» con l'espressione violazione «di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Viene così meno ogni dubbio in merito alla rilevanza della violazione di principi generali, dell'eccesso di potere e nel contempo l'area penalmente rilevante subisce un forte ridimensionamento per effetto dell'espunzione del riferimento ai regolamenti.

La novella del 2020 ha richiesto l'intervento della giurisprudenza di legittimità per chiarire gli effetti intertemporali della modifica dell'art. 323 c.p. e per delimitare l'ambito applicativo della nuova formulazione della fattispecie.

La Corte di Cassazione, nelle prime applicazioni di legittimità della nuova disciplina, prendendo in considerazione diffusamente il fenomeno successorio, ha fin da subito evidenziato che «la modifica introdotta con l'art. 23 del d.l. n. 76/2020 ha ristretto l'ambito applicativo dell'art. 323 cod. pen., determinando una parziale “abolitio criminis” in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma, realizzate mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che lascino residuare margini di discrezionalità» (Cass. pen. VI, n. 442/2021, con commento di Romano).

In occasione delle successive pronunce, il tema è stato approfondito dai giudici di legittimità, i quali hanno precisato che «A seguito della entrata in vigore dell'art. 23 del d.l. n. 76 del 2020, il delitto è ora configurabile solamente nei casi in cui la violazione da parte dell'agente pubblico abbia avuto ad oggetto “specifiche regole di condotta” e non anche regole di carattere generale; solo se tali specifiche regole sono dettate “da norme di legge o da atti aventi forza di legge”, dunque non anche quelle fissate da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte sub-primaria; e, in ogni caso, a condizione che quelle regole siano formulate in termini da non lasciare alcun margine di discrezionalità all'agente, restando perciò oggi escluse dalla applicabilità della norma incriminatrice quelle regole di condotta che rispondano, anche in misura marginale, all'esercizio di un potere discrezionale» (Cass. pen. VI, n. 8057/2021).

Tuttavia, secondo la Corte, che ha operato un'interpretazione restrittiva della riforma (e pertanto estensiva della fattispecie d'abuso d'ufficio) «Il richiamo alla discrezionalità risulta irrilevante in tutti i casi di abuso di ufficio in cui la violazione di una regola di condotta prevista da una norma di legge dovesse sostanziarsi nella preventiva totale rinuncia da parte del pubblico agente dell'esercizio di ogni potere discrezionale; ovvero laddove la violazione della regola di condotta dovesse intervenire in un momento del procedimento nel quale è possibile affermare che ogni determinazione dell'amministrazione è oramai espressione di un potere caratterizzato dall'essere in concreto privo di qualsivoglia margine di discrezionalità» (Cass. pen. VI, n. 8057/2021). Secondo siffatta impostazione, dunque, il legislatore della novella, stabilendo che l'abuso di ufficio sia configurabile solo nel caso di “violazione di specifiche regole di condotta [...] dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, ha inteso far riferimento non solamente ai casi in cui la violazione ha ad oggetto una specifica regola di condotta connessa all'esercizio di un potere già in origine previsto da una norma come del tutto vincolato, ma anche ai casi riguardanti l'inosservanza di una regola di condotta collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto dalla legge come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell'adozione dell'atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l'abuso di ufficio (Cass. pen. VI, n. 8057/2021).

Le pronunce successive hanno confermato tale interpretazione, precisando i confini dell'abolitio criminis parziale sancita dalla novella del 2020, nel senso che «La nuova formulazione dell'art. 323 c.p., modificato exd.l. n. 76/2020, art. 23, convertito dalla l. n. 120/2020, pretende che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario sia connotata dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, fissate dalla legge e disegnate in termini completi e puntuali. Ne deriva la limitazione di responsabilità penale del pubblico funzionario, e dunque una parziale abolitio criminis, in relazione alle condotte commesse prima dell'entrata in vigore della riforma mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità» (Cass. pen. V, n. 13250/2021).

Tra le questioni che il delitto di abuso di ufficio pone, assume particolare rilevanza il problema degli effetti sulla tipicità del reato dell'abrogazione o della modifica della norma di legge amministrativa violata dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di un pubblico servizio; occorre cioè verificare se si tratti di una norma extra-penale integratrice della fattispecie criminosa e se quindi dia luogo ad un'ipotesi di successione mediata della fattispecie penale o meno.

La giurisprudenza ritiene al riguardo che la violazione di legge costituisca un mero presupposto di fatto per l'integrazione della fattispecie in esame, senza che lo specifico contenuto della regola violata possa ritenersi integrativa della norma incriminatrice. Ne consegue che la sussistenza di tale requisito di fatto deve essere valutata con riferimento al momento storico in cui sia avvenuta la violazione di legge, avuto riguardo alla normativa amministrativa vigente al tempo in cui il reato fu commesso. Non sarebbe dunque configurabile una successione mediata di norme penali e permane dunque la responsabilità del reo, anche a seguito dell'abrogazione o della modifica della norma violata (Cass. pen. VI, n. 18149/2005).

La formulazione dell'art. 323 c.p. è rimasta invece immutata in relazione alla condotta di omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto e negli altri casi prescritti dalla legge. Tale espressa previsione non occorre nel caso di concreto conflitto di interessi, cioè proprio o relativo a un prossimo congiunto che imponga, quanto meno per gravi motivi di convenienza, di astenersi dal compimento dell'atto (Cass. pen. VI, n. 26702/2003).

Tanto la violazione di legge quanto l'omessa astensione devono intervenire in occasione dell'esercizio da parte del pubblico ufficiale di un potere riferibile all'ufficio ricoperto («nello svolgimento delle funzioni o del servizio»), restando indifferenti ai fini della norma i fatti commessi fuori da tale ambito.

La giurisprudenza ha ritenuto immune da qualsiasi effetto abrogativo, a seguito della novella del 2020, la condotta di mancata astensione in caso di conflitto di interessi, che prescinde dalla natura degli atti o dei comportamenti realizzati e dalle fonti che li disciplinano (Cass. pen. VI, n. 7007/21). Secondo la Corte, infatti, «La riforma del delitto di abuso d'ufficio operata con l'art. 23 del d.l. n. 76/2020, convertito dalla l. n. 120/2020, ha sì determinato un fenomeno di abolitio criminis parziale ma non ha abrogato il disvalore penale della condotta di mancata astensione in ipotesi di conflitto di interessi, la quale può manifestarsi sia mediante l'adozione di atti e provvedimenti amministrativi che attraverso attività materiali o comportamenti comunque riferibili all'ufficio ricoperto dal pubblico ufficiale o dall'incaricato di pubblico servizio» (Cass. pen. VI, n. 10067/2021).

Del pari, è stato evidenziato che la regola introdotta dal d.l. n. 76/2020, che ha circoscritto la rilevanza penale delle condotte di abuso di ufficio a quelle tenute “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità” non ha valenza di principio generale estensibile anche alle diverse fattispecie di concussione, corruzione ed induzione indebita, trovando detti reati nell'ambito della discrezionalità il proprio terreno di elezione, in ragione della maggior ampiezza del raggio d'azione riconosciuto al funzionario dalle norme di settore (Cass. pen. VI, n. 8036/2021).

Tanto premesso in ordine alla condotta criminosa, deve darsi atto, sul piano della struttura della fattispecie, che l'abuso di ufficio è un reato d'evento, individuato alternativamente, in un ingiusto vantaggio patrimoniale per sé o per altri o in un danno ingiusto altrui.

Il vantaggio rilevante ex art. 323 c.p. deve essere, per espressa previsione di legge, economicamente valutabile e coincide con ogni operazione che comporti un apprezzabile miglioramento della sfera economica del beneficiario, anche in senso giuridico, ad esempio per effetto della nascita di un diritto di credito o di un diritto di opzione, secondo un'accezione economico-giuridica di patrimonio.

Non vi è invece alcun riferimento al carattere patrimoniale del danno ingiusto provocato a terzi dalla condotta del reo, che pertanto può assumere anche natura non patrimoniale (Romano, 259).

Il legislatore descrive invece entrambi gli eventi con l'aggettivo «ingiusto», ritenuto da parte della dottrina (Fiandaca, Musco, 242) pleonastico.

In ogni caso l'ingiustizia del vantaggio patrimoniale o del danno altrui non può desumersi dalla illiceità della condotta del pubblico ufficiale, costituendo autonomo elemento costitutivo del reato, che richiede pertanto una «doppia ingiustizia», della condotta e dell'evento (Cass. pen. VI, n. 62/2002).

Un ulteriore ordine di questioni attiene invece alla struttura del reato e, in particolare, alla possibilità di punire l'abuso d'ufficio in forma omissiva c.d. impropria, ex art. 40, cpv. c.p. Tale eventualità è sicuramente esclusa con riferimento alle ipotesi di vantaggio o danno ingiusti cagionati per omessa astensione, dal momento che la fattispecie è di per sé formulata in forma omissiva, c.d. propria.

Con riferimento invece alla violazione di legge, si è posto il problema di stabilire se tale modalità di causazione dell'evento tipico sia compatibile con la clausola generale di equivalenza ex art. 40, cpv. c.p.

In secondo luogo, occorre verificare se in capo al pubblico ufficiale sussista un obbligo giuridico di impedire l'evento, consistente nella percezione di un vantaggio patrimoniale ingiusto ovvero nella causazione di un danno ingiusto altrui.

Sul punto, la giurisprudenza ha osservato che la violazione di legge può derivare dalla violazione di un obbligo di agire, sicché «Il delitto di abuso d'atti d'ufficio può essere integrato anche attraverso una condotta meramente omissiva» (Cass. pen. VI, n. 10009/2010).

In ordine invece alla possibilità di punire il delitto ai sensi del combinato disposto dell'art. 323 c.p. con l'art. 40, cpv. c.p., deve invece ritenersi che la forma vincolata del reato in esame non consente di ricondurre la fattispecie alla categoria dei cc.dd. reati causali puri, con conseguente incompatibilità con la forma omissiva c.d. impropria.

L'elemento soggettivo

L'elemento soggettivo del delitto è stato modificato, come anticipato, nel 1997, eliminando il dolo specifico introdotto nella formulazione del 1990 e sostituendolo con il dolo generico che deve configurarsi, per espressa previsione di legge, nella forma del dolo intenzionale.

Tale previsione ha determinato l'impossibilità di punire la condotta di abuso d'ufficio a titolo di dolo eventuale o diretto, richiedendo che il conseguimento del vantaggio patrimoniale ingiusto o la causazione del danno ingiusto altrui costituiscano l'obiettivo primario perseguito dal reo. Ne consegue che se l'evento tipico è una conseguenza accessoria dell'operato dell'agente, diretto a perseguire, in via primaria, l'obiettivo di un interesse pubblico di preminente rilievo, riconosciuto dall'ordinamento e idoneo ad oscurare il concomitante favoritismo o danno per il privato, non è configurabile il dolo intenzionale e pertanto il reato non sussiste (Cass. pen. VI, n. 7384/2011).

Più di recente, la Corte di Cassazione altresì ha affermato che la prova del dolo intenzionale, che qualifica la fattispecie criminosa in esame, può essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assume specifico rilievo la violazione del dovere di astensione gravante sui pubblici ufficiali e sugli incaricati di pubblico servizio, non rilevando la compresenza di una finalità pubblicistica, salvo che il perseguimento dell'interesse pubblico costituisca l'obiettivo esclusivo o primario dell'agente (Cass. pen. V, n. 37517/2020).

La necessità di accertare l'intensità massima del dolo del reo ha condotto la giurisprudenza ad elaborare una serie di indici sintomatici, ravvisati nell'evidenza della violazione di legge, come tale perciò immediatamente riconoscibile dall'agente, anche in ragione della propria specifica competenza professionale; nella motivazione del provvedimento, nel caso in cui essa sia qualificabile come meramente apparente o come manifestamente pretestuosa e infine nei rapporti personali eventualmente accertati tra l'autore del reato e il soggetto che dal provvedimento illegittimo abbia tratto ingiusto vantaggio patrimoniale (Cass. pen. VI, n. 41365/2006).

Consumazione e tentativo

La consumazione delitto di abuso d'ufficio, stante la sua natura di reato di danno, va individuata nel tempo e nel luogo in cui si verifica il vantaggio patrimoniale in capo al soggetto agente ovvero il pregiudizio ai terzi. In entrambi i casi la consumazione può slittare in avanti fino all'ultimo atto aggravatore dell'offesa, come nel caso in cui il vantaggio o il danno si verifichino lungo un apprezzabile arco temporale. Non pone questioni interpretative la configurabilità del tentativo.

Questioni applicative

In relazione alle applicazioni più recenti della fattispecie in esame, particolare interesse presentano le sentenze intervenute in ordine al dovere di astensione del pubblico ufficiale.

1) Quali sono i presupposti in presenza dei quali l'omessa astensione può assumere rilevanza penale?

In particolare, la Corte di Cassazione ha precisato, riguardo i presupposti per assegnare rilevanza penale all'omessa astensione per grave inimicizia, che il dovere di astenersi presuppone che tra il pubblico agente ed il destinatario dell'atto amministrativo sussistano motivi di rancore personale, mentre tale requisito non è integrato in presenza di manifestazioni di disistima e di critica professionale (Cass. pen. VI, n. 16782/2021).

2) Quando l'omessa astensione da parte del Pubblico Ministero assume rilevanza penale?

In ambito giudiziario, la giurisprudenza si è altresì soffermata sull'omessa astensione da parte del Pubblico Ministero, affermando che la violazione dell'obbligo di astensione da parte del pubblico ministero non integra di per sé il requisito del danno ingiusto, in quanto il difetto di imparzialità assume rilevanza solo a condizione che si traduca in accuse pretestuose e palesemente insussistenti, nonché in iniziative del tutto prive di fondamento, strumentali rispetto al perseguimento di finalità persecutorie o, comunque, improntate ad un iniquo esercizio dei poteri processuali. Tantomeno, precisa la Corte, la mera violazione dell'obbligo di astensione non comporta neppure la nullità o inutilizzabilità degli atti acquisiti, potendo incidere solo sulla attendibilità delle prove (Cass. pen. VI, n. 26429/2021).

3) Quali sono gli elementi di innovazione del decreto legge n. 76/2020 sulla formulazione previgente?

Secondo pacifica giurisprudenza, la sostituzione della previgente formulazione riferita alla «violazione di norme di legge o regolamento» con il più restrittivo riferimento alla violazione di «specifiche regole di condotta fissate dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità» ha implicato una parziale abolitio criminis, ex articolo 2, coma 2, c.p., con particolare riferimento alle superate condotte di violazione di regolamenti, di principi generali e di norme relative a poteri discrezionali (Cass. pen. VI, 442/21; Cass. pen. VI, 3274/20 e Cass. pen. VI, 37517/20).

Come ha già riconosciuto la Corte di cassazione (Cass. pen. F., n. 32174/2020), l' abolitio criminis non interessa i fatti riconducibili alla modalità alternativa della condotta di abuso d'ufficio descritta dall'art. 323 c.p. e non modificata dalla riforma: l' omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.

Aggiungiamo un secondo punto fermo: la parziale abolitio criminis – come ha riconosciuto in un obiter dictum la citata sentenza della Cassazione – riguarda unicamente i fatti commessi «in violazione di norme di legge o di regolamento» e, in particolare, quelli soli realizzati attraverso:

a) la violazione di norme di regolamento;

b) la violazione di norme di legge dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse;

c) la violazione di regole di condotta, anche di fonte primaria, che lascino residuare margini di discrezionalità.

Secondo la disciplina generale, l'abolizione del reato, ai sensi dell'art. 2, comma 2 c.p. e dell'art. 673 c.p.p., comporta l'archiviazione dei procedimenti in fase di indagine, il proscioglimento nei processi in corso e la revoca delle sentenze di condanna passate in giudicato, con conseguente cessazione dell'esecuzione delle pene, principali ed accessorie, e degli effetti penali della condanna (si pensi ad esempio all'incandidabilità ai sensi del d.lgs. n. 235/2012).

Va, peraltro, osservato che la portata innovativa è stata oggetto di una sorta di riduzione teleologica per effetto di una giurisprudenza di stampo conservativo che ha ritenuto applicabile anche la nuova formulazione a ogni caso di violazione del dovere di astensione, allo sviamento di potere e alla ribellione ad auto-vincoli amministrativi (Cass. VI, 442/2021).

La Corte ha, in particolare, ripreso la distinzione tra eccesso di potere c.d. intrinseco – che consiste nel «cattivo uso del potere discrezionale»: il pubblico ufficiale, pur avendo scelto una delle possibili opzioni che la norma attributiva del potere discrezionale gli consentiva, ha ottenuto un risultato non conforme agli interessi della P.A. – ed eccesso di potere c.d. estrinseco – che invece si sostanzia in un uso distorto del potere, esercitato al di fuori dei presupposti di attribuzione e piegato a scopi estranei al modello legale – per affermare che solo il primo risulta oggi escluso dall'area dell'illecito penale (Cass. pen. VI, 442/2021).

V'è da osservare, però, che la riforma, nel ridurre l'area dell'illiceità penale alla violazione di quelle norme «dalle quali non residuino margini di discrezionalità» ha inteso circoscrivere l'abuso penalmente rilevante alla violazione di un dovere vincolato nell'an, nel quid e nel quomodo dell'attività, di conseguenza sancendo l'irrilevanza del c.d. sviamento di potere, che consiste proprio in un utilizzo distorto della discrezionalità Tale conclusione è peraltro confortata dalla sbandierata intentio legis – che, come è noto, era quella di rassicurare il pubblico funzionario, garantendogli di operare in uno spazio libero dal sindacato della magistratura – la quale costituisce, almeno per le leggi di recente introduzione, criterio interpretativo di primo piano. Il giudice penale si trova così stretto nella morsa di un testo legislativo di tenore – a noi pare – inequivocabile nell'escludere ogni spazio al sindacato della magistratura sull'esercizio della discrezionalità amministrativa; e che, tuttavia, se interpretato alla lettera, rischierebbe di produrre risultati ingiusti e paradossali, perché costringerebbe a rivolgere lo sguardo alle violazioni più insignificanti, quelle che ineriscono all'attività amministrativa meramente esecutiva, lasciando, invece, impuniti gravi episodi di distorsione del potere pubblico per fini odiosi (in primis, ritorsivi). Addirittura, nel dibattito intorno alla riforma non è parso peregrino ravvisare una frizione tra il nuovo art. 323 e il principio di eguaglianza (3 Cost.), per la sperequazione sopra esposta, e inoltre perché si finirebbe per consegnare al pubblico funzionario un potere uti domino sulla cosa pubblica, ben più ampio di quello riconosciuto al privato nell'esercizio dei propri diritti individuali. Si tratterebbe, in ogni caso, di una questione che difficilmente potrebbe essere accolta dalla Corte costituzionale, in quanto produttiva di effetti in malam partem (Pagella).

4) Il nuovo abuso d'ufficio è configurabile in caso di discrezionalità tecnica?

Cass. pen. VI, n.14214/2021 la Corte ha affermato, in modo inequivocabile, che:

– ai fini dell'integrazione della nuova fattispecie di abuso d'ufficio «in luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionano sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti subprimarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali»;

– ulteriore conseguenza di tale, evidente, limitazione dell'ambito di applicabilità della norma, è che laddove il pubblico funzionario eserciti una legittima forma di discrezionalità, la sua condotta non potrà avere rilevanza penale in quanto essa è esclusa dalla nuova formulazione «qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privatidell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto».

Con tale pronuncia, infatti, la Corte ha ulteriormente specificato i principi espressi nella precedente sentenza, specificando ulteriormente i confini della «discrezionalità» che escludono la configurabilità del reato.

La Corte ha, infatti, rigettato il ricorso presentato dalla parte civile avverso la sentenza della Corte di Appello di Messina che, in riforma di quella di primo grado, aveva assolto gli imputati dal reato di abuso di ufficio, contestato ai componenti della commissione deputata alla selezione indetta dall'Università Ospedaliera del Policlinico di Messina per il conferimento di un incarico. In particolare, i commissari sono stati accusati di «indebito favoritismo», in quanto avrebbero intenzionalmente procurato un ingiusto vantaggio patrimoniale ad A.V. che facevano risultare prima nella graduatoria, con danno per il secondo arrivato. La Suprema Corte, nel dichiarare inammissibile il ricorso e confermare l'assoluzione con la formula «perché il fatto non sussiste» della Corte di Appello ha specificato che:

– «gli atti amministrativi connotati da un «margine di discrezionalità» tecnica sono esclusi dalla sfera del penalmente rilevante e, quindi, alla luce della nuova normativa del 2020, non costituiscono più abuso di ufficio»;

– «nella discrezionalità tecnica la scelta della Amministrazione si compie, infatti, attraverso un complesso giudizio valutativo condotto alla stregua di regole tecniche: il caso classico è quello del giudizio delle commissioni sul merito della produzione scientifica di un candidato, rispetto al quale l'incoerenza del giudizio valutativo rispetto alla regola tecnica che lo sorregge non è più suscettibile di integrare la fattispecie tipica, a meno che la regola tecnica non sia trasfusa in una regola di comportamento specifica e «rigida», di fonte primaria; ma anche in tal caso permane l'insindacabilità del «nucleo valutativo» del giudizio tecnico «.

La Corte ha infine precisato, con riferimento alla «specifica regola di condotta» rilevante ai fini della violazione della norma, che «inoltre, rispetto al nuovo articolo 323 c.p., il divieto di favoritismi privati, per quanto deducibile in via indiretta dal principio di imparzialità, non può considerarsi oggetto di un'espressa previsione da parte della norma costituzionale di cui all'art. 97, come oggi espressamente prescritto.».

La pronuncia in commento, di univoca lettura, depone pertanto per un'unica possibile interpretazione in ordine alla delimitazione dei confini della novella del luglio 2020 che, di fatto, ha escluso la rilevanza penale delle condotte tipiche di cui all'art. 323 c.p. in tutte le aree in cui vi sono margini di «discrezionalità amministrativa, anche tecnica», e, in particolare, nelle procedure per l'assegnazione di posizioni all'interno della P.A., contraddistinte, in ogni caso, dall'insindacabilità del giudizio tecnico, non potendo essere integrata la fattispecie dalla violazione del «divieto di favoritismi» che discende anche dall'art. 97 Cost..

Conf. Cass. pen. VI, 442/2021 e Cass. pen. VI, 32174/2020, secondo cui «in luogo del generico richiamo della previgente disciplina alla indeterminata violazione «di norme di legge o di regolamento», si pretende oggi che la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionano sia connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l'azione amministrativa, che per un verso siano fissate dalla legge (non rilevano dunque i regolamenti, né eventuali fonti sub-primarie o secondarie) e per altro verso siano specificamente disegnate in termini completi e puntuali». Ulteriore conseguenza di tale, evidente, limitazione dell'ambito di applicabilità della norma, è che laddove il pubblico funzionario eserciti una legittima forma di discrezionalità, la sua condotta non potrà avere rilevanza penale in quanto essa è esclusa dalla nuova formulazione «qualora le regole comportamentali gli consentano di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica: intesa, questa, nel suo nucleo essenziale come autonoma scelta di merito – effettuata all'esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati – dell'interesse primario pubblico da perseguire in concreto» e «sempreché l'esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici».

Una volta delineati i confini della nuova norma e tracciate le differenze con la precedente formulazione, è di tutta evidenza, come sottolineato nella motivazione, che le condotte commesse prima dell'entrate in vigore della riforma del luglio del 2020 che non integrano la nuova fattispecie non possono essere punite. E ciò in quanto con l'entrata in vigore della nuova disciplina è stata attuata «una parziale abolitio criminis in relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della riforma, che non siano più riconducibili alla nuova versione dell'art. 323 cod. pen., siccome realizzati mediante violazione di norme regolamentari o di norme di legge generali e astratte, dalle quali non siano ricavabili regole di condotta specifiche ed espresse o che comunque lascino residuare margini di discrezionalità».

Rapporti con altri reati

Come si è avuto modo di anticipare, l'art. 323 c.p. esordisce con una clausola di riserva («salvo che il fatto non costituisca più grave reato») che ne determina la natura residuale rispetto alle più grave violazioni perpetrate dal soggetto agente mediante violazione di legge e con conseguente vantaggio indebito o danno ingiusto altrui.

Abuso d'ufficio e falso ideologico

Con particolare riferimento invece al rapporto tra abuso d'ufficio e delitto di falso ideologico,exart. 479 c.p., la giurisprudenza ha sostenuto, tradizionalmente, che i due delitti si ponessero in concorso materiale, in quanto offensivi di beni giuridici diversi (Cass. pen. V, n. 7581/1999).

Più di recente, la Corte di Cassazione ha tuttavia ritenuto che quando il reato di falso ideologico in atto pubblico costituisca la modalità con cui operi il pubblico ufficiale nel conseguire il vantaggio patrimoniale ingiusto o arrecare a terzi un danno ingiusto, stante il carattere residuale e sussidiario del delitto in esame, il reo dovrebbe rispondere del solo del reato di falso, purché la contestata condotta di abuso si sia interamente esaurita nella commissione di un fatto qualificabile come falso in atto pubblico (Cass. pen. VI, n. 13849/2017).

Abuso d'ufficio e corruzione

Con riferimento infine al rapporto tra abuso di ufficio e corruzione c.d. impropriaexart. 319 c.p., la giurisprudenza sostiene che, allorquando la realizzazione dell'atto abusivo costituisca l'oggetto dell'accordo corruttivo, troverà applicazione, come anticipato, la sola fattispecie di cui all'art. 319 c.p., più grave rispetto al delitto di abuso di ufficio.

Bibliografia

Fiandaca-Musco, Diritto Penale - Parte speciale, I, Milano, 2002; Fiore, Abuso d'ufficio, in Fiore, Amarelli (a cura di), I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Torino, 2018; Romano, Il «nuovo» abuso d'ufficio e l'abolitio criminis parziale, in Penaledp.it, 2021; Romano, I delitti contro la pubblica Amministrazione, in Commentario sistematico, Milano, 2006.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario