Codice Penale art. 328 - Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione (1).

Angelo Salerno

Rifiuto di atti d'ufficio. Omissione (1).

[I]. Il pubblico ufficiale [357] o l'incaricato di un pubblico servizio [358], che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio [366, 388 5] che, per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità, deve essere compiuto senza ritardo, è punito con la reclusione da sei mesi a due anni.

[II]. Fuori dei casi previsti dal primo comma il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio, che entro trenta giorni dalla richiesta di chi vi abbia interesse non compie l'atto del suo ufficio e non risponde per esporre le ragioni del ritardo, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a 1.032 euro. Tale richiesta deve essere redatta in forma scritta ed il termine di trenta giorni decorre dalla ricezione della richiesta stessa.

(1) Articolo dapprima modificato dall'art. 17 l. 13 aprile 1988, n. 117, e successivamente così sostituito dall'art. 16 l. 26 aprile 1990, n. 86.

competenza: Trib. collegiale

arresto: non consentito

fermo: non consentito

custodia cautelare in carcere: non consentita

altre misure cautelari personali: v. 2892 c.p.p.

procedibilità: d'ufficio

Inquadramento

L'art. 328 c.p. punisce il delitto di omissione e ritardo di atti d'ufficio, configurando due distinte fattispecie, che si configurano rispettivamente mediante omessa adozione, ai sensi del comma primo, di un provvedimento, da compiersi senza ritardo «per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene e sanità» ovvero, ai sensi del secondo comma dell'articolo, di ritardo superiore ai trenta giorni, a decorrere dalla diffida dell'interessato, nell'adozione di un atto dell'ufficio, senza esporre le ragioni del ritardo stesso.

Il bene giuridico tutelato dalle due fattispecie disciplinate dall'articolo in esame consiste in entrambi i casi nel buon andamento della Pubblica Amministrazione, sotto il profilo della efficienza dell'attività amministrativa.

Il soggetto attivo e passivo

Il soggetto attivo del delitto di omissione o ritardo di atti d'ufficio è il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio responsabile dell'adozione del provvedimento, individuato secondo le norme vigenti in materia di procedimento amministrativo e ai provvedimenti organizzativi dell'ente di riferimento (Cass. pen. VI, n. 9426/1999).

Al riguardo si sono posti, in giurisprudenza, due ordini di problemi applicativi, il primo dei quali riguarda il caso in cui l'adozione del provvedimento amministrativo richieda il necessario concorso di più uffici appartenenti alla medesima Amministrazione: gli atti o le attività interne non si considerano idonee a determinare, in caso di ritardo o rifiuti, effetti penali, occorrendo che l'oggetto della condotta criminosa presenti natura di atto esterno, come nel caso del provvedimento finale o di quegli atti che, precedendo il provvedimento finale, si presentano come atti necessari, dotati di autonoma rilevanza (Cass. pen. VI, n. 9426/1999).

Più complessa la questione del ritardo o di omissione del compimento di un atto d'ufficio da parte di un organo collegiale: in tal caso, secondo la giurisprudenza di legittimità, il reato si configura non a carico del solo soggetto che dell'organo collegiale ha la rappresentanza esterna ma a carico dei singoli componenti dello stesso, e presuppone, da un lato, una richiesta ai suddetti indirizzata da parte dell'interessato e, dall'altro, la mancata spiegazione da parte dei singoli delle ragioni della condotta ad essi ascrivibile, che ha determinato l'omissione o il ritardo dell'atto collegiale (Cass. pen. VI, n. 2320/1997).

Il soggetto passivo del reato, secondo la giurisprudenza di legittimità, va invece individuato, nelle ipotesi di cui al primo comma dell'art. 328 c.p., nella sola pubblica amministrazione, in quanto il bene protetto dalla fattispecie è il buon andamento della Pubblica Amministrazione, pur potendo coincidere anche con un interesse privato; quest'ultimo è invece pacificamente tutelato nelle ipotesi del comma secondo, insieme al buon andamento della Pubblica Amministrazione (Cass. pen. VI, n. 32019/2003).

La condotta criminosa

Come anticipato, l'art. 328 c.p. prende in considerazione due distinte condotte criminose.

La prima consiste nell'indebito rifiuto di compiere atti di ufficio qualificati, strumentali al soddisfacimento di preminenti ragioni di interesse pubblico espressamente tipizzate dalla legge nelle ragioni di giustizia, di sicurezza pubblica, di ordine pubblico, di igiene o sanità.

L'omissione penalmente rilevante deve avere ad oggetto il provvedimento conclusivo del procedimento o comunque atti antecedenti dotati di rilevanza esterna; esulano invece dall'ambito di applicazione della norma in esame gli atti meramente endo-procedimentali.

Per atto d'ufficio da adottarsi per ragioni di giustizia deve intendersi qualunque provvedimento od ordine autorizzato da una norma giuridica per la pronta attuazione del diritto obiettivo e diretto a rendere possibile o più agevole l'attività del giudice, del pubblico ministero o degli ufficiali di polizia giudiziaria (Cass. pen. VI, n. 10060/2021).

Gli atti d'ufficio per ragioni di sanità devono invece identificarsi in quegli atti doverosi e indifferibili, di natura sanitaria o comunque strettamente funzionali alla realizzazione di questi ultimi.

Rientrano invece negli atti d'ufficio da compiere per ragioni di pubblica sicurezza quelli inerenti alle funzioni di polizia, diretti cioè a mantenere la sicurezza e l'incolumità dei cittadini, a prevenire i reati.

L'ordine pubblico, invece, riguarda il mantenimento della pace sociale e del comune vivere civile. La giurisprudenza vi ha ricondotto il caso di omessa segnalazione al Prefetto, ex art. 75 d.P.R. n. 309/1990, da parte del pubblico ufficiale, della detenzione ad uso esclusivamente personale di sostanza stupefacente – che non integra quindi un delitto – sul presupposto che sussista un obbligo di riferire il fatto senza ritardo per ragioni di ordine pubblico (Cass. pen. VI, n. 31713/2003).

Così delineato il quadro di riferimento, deve darsi atto della nozione di rifiuto, che richiede una precisa manifestazione di diniego a fronte della richiesta di adempimento proveniente da un privato, da un pubblico funzionario o da un superiore gerarchico.

Non deve ritenersi necessaria una particolare forma di esternazione del diniego, che potrà altresì dedursi dal comportamento del soggetto tenuto all'adozione dell'atto.

Non è del pari necessario che sia stata avanzata una richiesta o impartito un ordine di adozione dell'atto, quando sia apprezzabile l'urgenza del suo compimento, tale per cui l'omessa adozione da parte del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio possa assumere valore di rifiuto (Cass. pen. VI, n. 12147/2009).

Il rifiuto deve inoltre risultare indebito, come richiesto dall'art. 328 c.p., e quindi privo di una legittima giustificazione, sul presupposto altresì che il soggetto agente fosse in condizione di adottare l'atto dovuto (ad impossibilia nemo tenetur).

La giurisprudenza ha escluso, ad esempio, il carattere indebito del rifiuto allorché il soggetto agente sia venuto a trovarsi in una situazione di conflitto di interessi, purché il rifiuto risulti volto a preservare posizioni giuridico-soggettive di carattere primario e bilanciabili con il buon andamento della pubblica amministrazione (Cass. pen. VI, n. 23107/2012).

In relazione invece alle condotte di ritardo, da considerarsi pluri-offensive, in quanto la norma incriminatrice, al comma secondo, tutela nel contempo l'interesse del privato (considerato persona offesa dalla giurisprudenza, v. Cass. pen. VI, 5376/2002) alla tempestiva adozione dell'atto, il legislatore ha subordinato la rilevanza penale del comportamento dilatorio a precise condizioni.

Occorre infatti, come anticipato, la messa in mora del pubblico ufficiale o dell'incaricato di un pubblico servizio, mediante una richiesta scritta, come precisato dall'ultimo inciso del comma secondo dell'art. 328 c.p., la cui ricezione determina il dies a quo del termine di trenta giorni per l'adozione dell'atto o per la comunicazione al privato delle ragioni del ritardo. Deve trattarsi di una diffida ad adempiere, non potendosi riconoscere efficacia a un mero esposto o ad una semplice segnalazione (Cass. pen. VI, n. 41225/2005).

In merito a tale alternativa, riconosciuta al soggetto agente, è stato sostenuto in dottrina che il legislatore abbia così fornito un efficace strumento al responsabile della tempestiva adozione dell'atto per eludere la responsabilità penale a fronte del ritardo maturato, senza una concreta ed efficace possibilità di sindacare la legittimità del comportamento e delle giustificazioni addotte in sede penale (Fiandaca, Musco, 264).

Presupposto logico per l'applicazione della norma incriminatrice delle condotte di ritardo è la sussistenza di un obbligo di provvedere, legato all'instaurazione di un procedimento amministrativo, in presenza di tutti i requisiti di legge.

In particolare, il soggetto istante deve risultare titolare di un interesse giuridicamente qualificato, nonché legittimato ad ottenere l'emanazione dell'atto richiesto, non potendosi altrimenti assegnare rilevanza alcuna al rifiuto (Cass. pen. VI, n. 10219/1998); non sono infatti tutelati interessi di mero fatto (Cass. pen. VI, n. 43492/2003) ovvero a fronte di istanze intempestive o rispetto alle quali la Pubblica Amministrazione possa discrezionalmente decidere se provvedere o meno (come nel caso di istanza di rivalutare provvedimenti non tempestivamente impugnati, v. Cass. pen. VI, n. 2318/2007).

In relazione alla normativa in materia di procedimento amministrativo, di cui alla già citata l. n. 241/1990, è stato evidenziato che la discrasia tra il termine di trenta giorni di cui all'art. 328 c.p. e la diversa disciplina di cui all'art. 2 della legge sul procedimento, non determini un contrasto ordinamentale.

Difatti, la dottrina ha osservato che il primo termine decorre dalla formale diffida all'adozione del provvedimento e non segue il regime del procedimento amministrativo, che ancora invece il dies a quo al momento dell'impulso di avvio del provvedimento, pubblico o privato (Segreto, De Luca, 711); la diffida deve inoltre necessariamente intervenire allorché sia inutilmente decorso il termine ex art. 2 cit. per l'adozione del procedimento, pervenendosi altrimenti a risultati paradossali, incompatibili con la funzione di extrema ratio del diritto penale.

L'elemento soggettivo

L'elemento soggettivo che deve assistere le condotte di cui all'art. 328 c.p. è il dolo generico, che richiede – nel caso di omissione – la rappresentazione dei presupposti del dovere di attivarsi, anche in relazione alla sussistenza delle ragioni di primario interesse pubblico che impongono il compimento dell'atto.

Nelle ipotesi di cui al secondo comma, la componente rappresentativa del dolo deve ricomprendere altresì l'avvenuta diffida ad adempiere inoltrata dal privato.

Il soggetto agente non potrà invece opporre, secondo la giurisprudenza maggioritaria, l'ignoranza della legge che sancisce l'obbligo di fornire risposta scritta all'istanza del privato, equiparata alla legge penale, con conseguente applicazione dell'art. 5 c.p. (ignorantia legis non excusat) (Cass. pen. VI, n. 4907/2003).

Consumazione e tentativo

La consumazione del delitto, in entrambi i casi disciplinati dall'art. 328 c.p., avviene nel tempo e nel luogo in cui si è verificata l'omissione, previa diffida e decorso del termine di legge (Cass. pen. VI, n. 40008/2010) o è stato opposto il rifiuto: si tratta, dunque, di un reato istantaneo, a nulla rilevando l'ininterrotta protrazione dell'inattività individuale e nemmeno l'eventuale desistenza.

In tal senso si è pronunciata, più di recente, la Corte di Cassazione, affermando che il rifiuto di un atto dell'ufficio, previsto dall'art. 328, comma primo, c.p., ha natura di reato istantaneo e può manifestarsi in forma continuata quando, a fronte di formali sollecitazioni ad agire rivolte al pubblico ufficiale rimaste senza esito, la situazione potenzialmente pericolosa continui a esplicare i propri effetti negativi e l'adozione dell'atto dovuto sia suscettibile di farla cessare (Cass. pen. VI, n. 1657/2020).

Stante la natura istantanea del reato in commento, il tentativo non è configurabile.

Problemi di coordinamento tra il termine della norma penale e quello di conclusione del procedimento

Il capoverso dell'art. 328 c.p. detta il termine fisso di trenta giorni entro il quale il pubblico agente deve provvedere e tale previsione ha posto problematiche di coordinamento tra detto termine e il termine di conclusione del procedimento amministrativo di cui all'art. 2 della l. n. 241/1990 sul procedimento amministrativo, che, pur rinviando all'autonomia regolamentare delle pubbliche amministrazioni la fissazione di termini diversi di conclusione dei procedimenti amministrativi delle proprie rispettive competenze, ha previsto un termine generale e residuale della durata dei procedimenti amministrativi, fissato in giorni trenta. In pratica, la previsione del termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell'art. 328 c.p. ha posto un problema di coordinamento con il termine di trenta giorni di conclusione del procedimento amministrativo di cui al citato art. 2 della l. n. 241/1990 e successive modificazioni.

Inizialmente, la giurisprudenza, sostenuta anche da parte della dottrina, in un'ottica tesa a garantire al privato la massima tutela penale ai sensi dell'art. 328, comma 2, c.p., ha affermato la coincidenza dei due menzionati termini di trenta giorni, asserendo che l'istanza del privato tesa all'ottenimento di un provvedimento amministrativo segnava l'apertura del relativo procedimento amministrativo e, al contempo, aveva natura giuridica di richiesta/presupposto per la decorrenza del termine di trenta giorni ai fini penalistici, con la conseguenza che il decorso del termine di trenta giorni senza adozione del provvedimento e senza giustificazione del ritardo perfezionava l'illecito penale, oltre all'illecito civile e/o amministrativo per inadempimento in capo al responsabile del procedimento (ex multis, Cass. pen., Sez. VI, sent. 15/07/1999, in Dir. pen. e proc., 2000, 969). Tale ricostruzione si fondava anche sulla preoccupazione che ritenere il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell'art. 328 c.p. diverso da quello di conclusione del procedimento amministrativo e decorrente dalla ricezione di richiesta scritta da poter avanzare solo successivamente alla inutile scadenza del termine amministrativo, in considerazione della potestà regolamentare delle pubbliche amministrazioni di fissare termini diversi, anche notevolmente lunghi, di conclusione di procedimenti amministrativi, potesse vanificare la ratio del reato di omissione di atti d'ufficio, favorendo abusi del potere amministrativo, il quale, attraverso la fissazione di termini eccessivamente lunghi di conclusione dei procedimenti amministrativi, poteva sostanzialmente raggirare il dettato normativo penalistico.

Tuttavia, si è seguito ritenuto che detta ricostruzione mal si conciliasse con principi generali dell'ordinamento giuridico, primo tra tutti quello della giusta separazione dei poteri dello Stato. Innanzitutto, che il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell'art. 328 c.p. non potesse coincidere con il termine di conclusione del procedimento amministrativo appariva inevitabile in quanto, come già detto, legittimamente le pubbliche amministrazioni possono fissare termini diversi e anche particolarmente lunghi in caso di procedimenti complessi o per ragioni specifiche e/o organizzative, tanto che la stessa legge sul procedimento amministrativo riserva tale potestà all'autonomia regolamentare delle pubbliche amministrazioni, avendo il termine di trenta giorni di conclusione del procedimento amministrativo di cui all'art. 2 l. n. 241/1990 esclusivamente natura generale e residuale. Pertanto, emergeva come inaccettabile ammettere un'ipotesi di responsabilità penale per omissione di atti d'ufficio laddove lo status procedimentale fosse assolutamente lecito e legittimo sul piano amministrativo.

Inoltre, la stessa natura giuridica di diffida ad adempiere, unanimemente assegnata alla richiesta del privato ex art. 328, comma 2, c.p., rende evidente che l'operatività della fattispecie penale incriminatrice in analisi presuppone la conclusione del procedimento amministrativo e la formazione di una situazione di silenzio inadempimento, perché solo in presenza di inerzia della pubblica amministrazione scatta l'interesse del privato a «mettere in mora» la pubblica amministrazione medesima nonché l'esigenza, avvertita dall'ordinamento, di sanzionare penalmente la violazione dell'obbligo di fare da parte del pubblico agente (Cass. pen. VI, 12977/1998: «In tema di richiesta di accesso ai documenti amministrativi, ai sensi dell'art. 25 della l. n. 241/1990, coincidendo il termine di trenta giorni dalla richiesta dell'interessato formulata ex art. 328, comma secondo, c.p. con il termine per il maturarsi del silenzio rifiuto, deve escludersi la configurabilità del reato di omissione di atti di ufficio se il pubblico ufficiale non compie l'atto richiesto e non risponde al richiedente, perché con il silenzio rifiuto, sia pure per una presunzione, si ha il compimento dell'atto e viene comunque a determinarsi una situazione che è concettualmente incompatibile con l'inerzia della pubblica amministrazione»).

Pertanto, non può revocarsi in dubbio che il termine di trenta giorni di cui al comma 2 dell'art. 328 c.p. è diverso dal termine di conclusione del procedimento amministrativo, qualunque esso sia ed anche in caso di termine di conclusione di giorni trenta. Il privato interessato all'esito del procedimento amministrativo deve attendere l'inutile scadenza del termine di conclusione del procedimento amministrativo medesimo e, cioè, la mancata adozione del provvedimento alla scadenza del termine di conclusione del procedimento, vale a dire la formazione di una situazione di silenzio inadempimento da parte dell'amministrazione pubblica procedente e, a quel punto, può avanzare la formale intimazione scritta di cui all'art. 328, comma 2, c.p., necessaria per attivare un procedimento amministrativo ad hoc, che potrà portare, ricorrendo tutti gli elementi strutturali richiesti dalla norma, ad una responsabilità penale del pubblico agente per il reato di omissione di atti d'ufficio.

Omissione di atti d'ufficio e silenzio della P.A.

È indubbio che l'unica figura di silenzio della P.A. rilevante ai fini della potenziale operatività della fattispecie penale incriminatrice in questione è quella del silenzio inadempimento (art. 2 l. 241, in combinato disposto con gli artt. 31,117 e 133, comma 1, lett. a), n. 1, c.p.a), cioè dell'inerzia della pubblica amministrazione alla quale non è conferita dal legislatore valenza provvedimentale (silenzio-assenso o accoglimento e silenzio-diniego o rigetto). Sebbene non manchino, a tutt'oggi, opinioni contrastanti, non sembra che i casi di silenzio-assenso e silenzio-diniego possano rilevare ai fini del delitto de quo: non i casi di silenzio-assenso, che vedono il privato soddisfatto nella sua pretesa e, quindi, un problema di «interesse» ex art. 328, comma 2, c.p. non sussiste alla radice, ma neppure i casi di silenzio-diniego, avendo tale figura di silenzio natura provvedimentale, in quanto è la legge ad assegnare al silenzio della P.A. valore di provvedimento di rigetto e, pertanto, se il privato interessato riterrà illegittimo il silenzio-provvedimento di rigetto della P.A. potrà impugnarlo, secondo le regole ordinarie e generali, dinnanzi alla competente Autorità Giudiziaria (Morbelli, 1145; D'Arma 3022).

Sul punto, la giurisprudenza maggioritaria di legittimità e di merito osserva che l'obbligo di risposta imposto dall'art. 328, comma 2, c.p. non ha alcuna ragion d'essere quando è la stessa legge a regolamentare la materia riconoscendo al silenzio della P.A. l'efficacia di un provvedimento di accoglimento o di rigetto, presupponendo la fattispecie penale incriminatrice in questione una situazione di «inerzia non significativa» della P.A. medesima (ex multis, Cass. pen. VI, 1998, in Dir. pen. e proc., 1999, 1145).

Questioni applicative

1) Come si concilia la responsabilità per omissione d'atto d'ufficio con la disciplina del silenzio c.d. significativo?

Un aspetto problematico relativo all'applicazione dell'art. 328 c.p. concerne la sua operatività nei casi in cui il silenzio c.d. significativo, con particolare riferimento alle ipotesi di silenzio-rigetto.

Sul punto si è assistito a un contrasto in giurisprudenza tra l'orientamento che equipara il silenzio-rigetto ad un provvedimento in senso negativo, adottato dalla Pubblica Amministrazione, che escluderebbe la sussistenza del reato (Cass. pen. VI, n. 12977/1998), e l'opposto orientamento, secondo cui dovrebbe comunque trovare applicazione l'art. 328 c.p., quantomeno in ordine all'omessa comunicazione delle ragioni del ritardo (Cass. pen. VI, n. 5691/2000).

La giurisprudenza più di recente segue il secondo orientamento, maggioritario, secondo cui il formarsi del silenzio rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie delittuosa di cui all'art. 328, comma secondo, c.p.

Secondo la Corte di Cassazione, ad essere incriminata da tale reato non è tanto l'omissione dell'atto richiesto, quanto la mancata indicazione delle ragioni del ritardo entro trenta giorni dall'istanza del privato: in tal senso deporrebbe il tenore letterale della norma, che utilizzando la congiunzione «e» comporta una equiparazione dell'omessa risposta sulle ragioni del ritardo alla mancata adozione dell'atto richiesto (Cass. pen. VI, n. 42610/2015).

Tale soluzione si espone invero al rilievo secondo cui, allorché la legge assegna un'efficacia al decorso del tempo, il silenzio della Pubblica Amministrazione non può che equipararsi all'adozione di un provvedimento di rigetto o rifiuto, tale da escludere l'omissione e neutralizzare a monte i presupposti logici del ritardo e la necessità di motivarlo.

2) Commette il delitto di rifiuto di atto d'ufficio il medico di guardia che si sottrae al dovere di visitare un paziente?

La Corte di Cassazione (Cass. pen. VI, n. 34535/2019) è di recente intervenuta in tema di omissione d'atto d'ufficio, affermando che la discrezionalità del sanitario, in specie un medico di guardia, nel valutare la necessità o meno di visitare il paziente, non esclude la possibilità per il giudice di sindacare se tale valutazione sia stata correttamente effettuata, al fine di accertare che non trasmodi nell'assunzione di deliberazioni ingiustificate e arbitrarie, rispetto alle quali la buona fede del sanitario non è dirimente, stante la natura di reato di pericolo della fattispecie penale.

I giudici di legittimità si sono interrogati in ordine alla possibilità per il pubblico ufficiale di valutare autonomamente, nell'esercizio della propria discrezionalità tecnica, la sussistenza dei presupposti che rendono doveroso l'atto dell'ufficio, in specie la visita a domicilio da parte del medico di guardia, il cui intervento sia stato richiesto dal privato; si pone, in particolare, il problema se la valutazione in senso negativo della sussistenza di una situazione necessitata e urgente esclude il dolo del delitto di omissione di atti d'ufficio ex art. 328 c.p.

Nell'affrontare le predette questioni, la Corte di Cassazione muove dalla condotta punita ai sensi dell'art. 328, comma 1, c.p., consistente nel rifiuto di un atto dovuto per ragioni di sanità, allorché questo debba essere compiuto senza ritardo.

I giudici di legittimità ricostruiscono quindi il fondamento normativo dell'obbligo di attivarsi da parte del sanitario, individuato nel disposto dell'art. 13 del d.P.R. n. 41 del 1991, ai sensi del quale il medico che effettua il servizio di guardia deve rimanere a disposizione «per effettuare gli interventi domiciliari a livello territoriale che gli saranno richiesti» e, durante il turno di guardia, «è tenuto ad effettuare al più presto tutti gli interventi che gli siano richiesti direttamente dagli utenti».

Nella motivazione della sentenza si rileva quindi che, pur potendo il sanitario valutare, sulla base della sintomatologia riferitagli, la necessità o meno di visitare il paziente, tale discrezionalità può essere oggetto di sindacato da parte del giudice penale, chiamato ad accertare se la scelta compiuta dal medico risulti ragionevole – anche alla luce dei protocolli sanitari applicabili – ovvero costituisca un mero pretesto per giustificare l'inadempimento dei propri doveri, apparendo ingiustificata e arbitraria.

Non è stata pertanto ritenuta dirimente la sussistenza della discrezionalità da parte del sanitario nel valutare la necessità della visita richiesta, essendo risultata priva di un ragionevole fondamento la scelta operata di non visitare i pazienti, come invece tempestivamente accaduto a seguito della richiesta di intervento del servizio del 118.

Tra gli elementi valorizzati dai giudici di legittimità assumono particolare rilevanza l'assenza di alcuna domanda specifica da parte dell'imputato circa le condizioni dei bambini, nonché il numero dei pazienti, la loro giovane età e la condizione dei visitatori stranieri, in assenza dei genitori e senza conoscere la lingua italiana, quali parametri di valutazione della irragionevolezza della scelta del medico di non recarsi presso la struttura alberghiera per visitarli.

Con riferimento invece all'elemento soggettivo del delitto, la Corte di Cassazione ha evidenziato che l'invocata – ma non dimostrata – buona fede del sanitario, che avrebbe agito nella convinzione dell'inesistenza di ragioni di urgenza, non consente di escluderne la colpevolezza, trattandosi di un reato di pericolo che si perfeziona ogni volta in cui sia denegato un atto obiettivamente non ritardabile e dovuto, in rapporto alla specifica qualità del pubblico ufficiale agente; presupposti, questi ultimi, che il sanitario era tenuto a verificare ed escludere, non potendo presumerne l'insussistenza.

Alla luce delle esposte considerazioni, la Corte di Cassazione ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

La sentenza in commento affronta la questione della sindacabilità da parte del giudice penale della discrezionalità, in specie tecnica, del pubblico ufficiale, confermando l'orientamento che riconosce tale potere al fine di valutare la ragionevolezza e la non arbitrarietà delle valutazioni in concreto operate.

Nella motivazione della sentenza, i giudici di legittimità evidenziano inoltre la natura di reato di pericolo del delitto di omissione di un atto d'ufficio, negando un rilievo «dirimente» alla convinzione del sanitario circa l'insussistenza della necessità e della urgenza dell'intervento richiesto.

Tali ultimi profili attengono all'elemento soggettivo del reato, doloso, e, in particolare, al momento della rappresentazione da parte del soggetto agente circa la sussistenza delle condizioni in presenza delle quali sussiste l'obbligo, penalmente rilevante, di attivarsi nel compimento dell'atto dovuto.

Deve tuttavia rilevarsi il carattere tranchant della soluzione accolta dalla Corte di Cassazione in merito all'irrilevanza dell'invocata buona fede da parte del sanitario, in merito all'insussistenza di una situazione di urgenza, che appare riconducibile prevalentemente alla mancata dimostrazione in giudizio di tale status, dal momento che non vengono approfonditi, in punto di diritto, gli eventuali margini di operatività dell'errore sul fatto, di cui all'art. 47 c.p., in cui il medico può astrattamente incorrere.

Nel caso di specie, infatti, gli elementi addotti dall'imputato – in specie la registrazione, a propria esclusiva firma, dell'asserito intervento tardivo e la propria presenza in loco al momento dell'intervento del 118 – non trovavano alcun riscontro probatorio, precludendo a monte la possibilità di valutare le doglianze del ricorrente in punto di colpevolezza, come confermato dalla dichiarata inammissibilità del ricorso.

3) Può il sanitario invocare il diritto di obiezione di coscienza, rispetto al delitto di rifiuto di atto d'ufficio, nella fase successiva al trattamento abortivo?

Più di recente, sempre in ambito medico, la Corte di Cassazione ha ravvisato gli estremi del delitto in esame a fronte della condotta del medico che, richiesto di assistere una paziente sottoposta ad interruzione volontaria di gravidanza indotta per via farmacologica, si sia astenuto dal prestare la propria attività nella fase successiva alla somministrazione del farmaco abortivo – nella specie, non eseguendo il controllo ecografico previsto dalle linee guida – atteso che in tale ipotesi non può invocarsi il diritto di obiezione di coscienza, avuto riguardo ai limiti stabiliti per il suo esercizio dall'art. 9 della l. n. 194/1978 (Cass. pen. VI, n. 18901/2021).

Rapporti con altri reati

La fattispecie in esame pone un problema di coordinamento con il delitto di abuso d'ufficio, di cui all'art. 323 c.p., quando commesso mediante omissione o rifiuto.

La giurisprudenza si è espressa, al riguardo, nel senso dell'applicazione del delitto di cui all'art. 328, comma primo, c.p., qualora l'abuso sia stato commesso al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio ingiusto non patrimoniale, o comunque per arrecare ad altri un danno ingiusto, laddove potrà trovare applicazione l'art. 323 c.p., quale reato più grave, allorché l'abuso sia stato commesso al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale (Cass. pen. VI, n. 4402/1996; nello stesso senso, più di recente, Cass. pen. VI, n. 18360/2003).

La dottrina ha inoltre evidenziato che a seguito della riformulazione, nel 2020, dell'art. 323 c.p., la restrizione del perimetro applicativo della fattispecie di abuso d'ufficio potrebbe condurre alla ri-espansione della fattispecie di cui all'art. 328 c.p. nel caso di condotte di rifiuto od omissione non disciplinate da norme di ragno sub-primario (Gambardella, 133).

Rispetto invece al delitto di corruzione, è ammesso dalla giurisprudenza il concorso con il delitto in esame, qualora, oltre a ricevere il prezzo della corruzione, il pubblico ufficiale ometta effettivamente di compiere l'atto del proprio ufficio (Cass. pen. VI, n. 10848/1979).

Bibliografia

Fiandaca, Musco, Diritto Penale - Parte speciale, vol. I, III, Milano, 2002; Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell'abuso d'ufficio, in sistemapenale.it, n. 7/2020, Milano; Segreto-De Luca, Delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, Milano, 1999; Morbelli, Omissione di atti d'ufficio e silenzio della pubblica amministrazione, in Diritto Penale e Processo, 1999, 1145; D'Arma, Il maturare del silenzio rigetto vale ad escludere la fattispecie penale dell'omissione di atti d'ufficio?, in Cass. pen., 1997, 3022.

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