Codice Civile art. 825 - Diritti demaniali su beni altrui.

Francesco Caringella

Diritti demaniali su beni altrui.

[I]. Sono parimenti soggetti al regime del demanio pubblico i diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, quando i diritti stessi sono costituiti per l'utilità di alcuno dei beni indicati dagli articoli precedenti o per il conseguimento di fini di pubblico interesse corrispondenti a quelli a cui servono i beni medesimi.

Inquadramento

L'art. 825 c.c. assoggetta allo stesso regime giuridico del demanio pubblico anche i diritti reali che spettano allo Stato, alle Province e ai Comuni su beni appartenenti ad altri soggetti, anche privati.

La norma distingue alternativamente tale possibilità nel caso in cui i diritti siano statti costituiti per l'utilità di beni demaniali di cui agli articoli precedenti, oppure nel caso in cui i diritti spettanti agli enti territoriali siano volti al conseguimento di un pubblico interesse corrispondente a quello a cui servono i beni demaniali.

La medesima disposizione è prevista per le Regioni all'art. 11, comma 2, l. n. 281/1970.

Nella prima ipotesi la dottrina li definisce come diritti demaniali su beni altrui in senso stretto (Police, 435). Infatti, la disposizione prevede la costituzione per l'utilità di beni demaniali (v. art. 822 c.c.) denominati tradizionalmente servitù prediali pubbliche (Centofanti, 207).

Quest'ultime consistono in un potere diretto dell'ente territoriale sulla cosa altrui, imponendo, quindi, una limitazione al godimento libero del bene da parte del titolare; tale limitazione è giustificata in virtù della utilità del bene demaniale. Esempi ricorrenti sono quelli della servitù costituita su un fondo privato a favore di un acquedotto pubblico che lo attraversi.

Nella seconda ipotesi, invece, si tratta di diritti di uso pubblico, anche noti come servitù di uso pubblico. Sono diritti reali parziali di godimento, costituiti non per l'utilità di un bene demaniale, ma in favore di una determinata collettività (Police, 435). Dunque, consistono nell'obbligo di pati posto al proprietario del bene gravato per il conseguimento di fini di pubblico interesse.

Una menzione particolare spetta ai common goods, in particolare gli usi civici, i quali sebbene non previsti costituiscono un peso sulla proprietà privata di singoli a favore della comunità, soddisfano, così, un interesse pubblico qualificato e adempiendo anche all'utilità e la funzione sociale della proprietà, in un'ottica solidaristica exartt. 2 e 42 cost.

Le servitù prediali pubbliche

Come anticipato, per servitù prediali pubbliche si intende quella categoria di diritti reali demaniali su beni altrui che esauriscono la loro ragion d'essere nel rapporto funzionale con un bene demaniale, essendo i primi sottoposti al vincolo per l'utilità dei secondi.

Le servitù prediali pubbliche sono quindi diritti reali su beni di proprietà privata necessariamente collegati a beni di proprietà della p.a. (Bianca).

Le servitù pubbliche non sono sostanzialmente diverse dall'istituto delle servitù prediali di cui agli artt. 1027 ss. c.c.; infatti, l'art. 1032 c.c. prevede, tra i modi di costituzione, che, nei casi determinati dalla legge, la servitù può anche essere costituita con atto dell'autorità amministrativa, salvo indennizzo.

Quanto ai modi di costituzione delle servitù prediali pubbliche, oltre i vincoli di asservimento imposti ex lege, si deve indicare, oltre l'ipotesi di costituzione coattiva tramite provvedimento ablatorio reale o sentenza, anche l'ipotesi dell'istituto dell'immemorabile.

In particolare, l'istituto dell'immemorabile, costituisce una presunzione di legittimità dell'esercizio attuale di un diritto il cui fondamento è ravvisabile nel decorso di un tempo talmente lungo che si sia perduta memoria dell'inizio di una determinata situazione di fatto. Comporta, dunque, non un modo di acquisto del diritto, ma una presunzione di corrispondenza dello stato di fatto allo stato di diritto e, pertanto, si considera legittimo l'esercizio di diritti.

In tutte le ipotesi di servitù prediali pubbliche i proprietari del fondo servente hanno l'obbligo di sopportare che la generalità degli utenti goda del loro bene in relazione di una dipendenza dello stesso al bene demaniale dominante, ma è corrisposto un indennizzato a favore del proprietario del fondo servente.

Per quanto concerne l'estinzione delle servitù prediali pubbliche, si deve distinguere a seconda della fonte da cui deriva il diritto reale. Infatti, nel caso di servitù pubbliche ex lege, quest'ultime si estinguono contestualmente all'estinzione del bene pubblico, seguendone le sorti. Invece, le servitù costituite in modo diverso, una volta cessata la destinazione pubblica del bene cui accedono, non si estinguono, ma rimangono imputate allo stesso ente a titolo patrimoniale (Corte cost. n. 6/1966).

In ogni caso, si deve ritenere che l'estinzione non possa derivare dal mero non uso.

Tra le più significative servitù prediali pubbliche si annovera la servitù di via alzaia, prevista ex legge a beneficio di qualunque corso d'acqua navigabile.

Infatti, l'art. 52 del r.d. 11 luglio 1913, n. 959 (testo unico delle disposizioni di legge sulla navigazione interna e sulla fluitazione) prevede che «i beni laterali ai fiumi navigabili sono soggetti alla servitù della via alzata, detta anche d'attiraglio o di marciapiede. Dove la larghezza di questa non è determinata da regolamenti e consuetudini vigenti, si intenderà stabilita a metri 5. Essa insieme alla sponda fino al fiume dovrà dai proprietari essere lasciata libera da ogni ingombro od ostacolo al passaggio d'uomini e di bestie da tiro».

Altre ipotesi di servitù prediali pubbliche, si ricordano la servitù di elettrodotto, prevista dall'art. 119 del r.d. 11 dicembre 1933, n. 1775; la servitù di scolo delle acque provenienti dalle strade e dalle ferrovie pubbliche sui terreni sottostanti (artt. 56 e 234, l. n. 2240/1865, all. F); la servitù di scarico delle acque di un lago sui fondi circostanti se eccedenti un certo livello; la servitù di passo, una species della tradizionale servitù di passaggio coattivo, che consiste nella possibilità di accedere da un bene demaniale a un altro mediante l'attraversamento di un fondo privato e la servitù di sopra passaggio, che consente che siano costruiti ponti, viadotti o cavalcavia su terreni e strade private.

Completano il quadro le servitù militari disciplinate dalla l. n. 898/1976, secondo cui i fondi posti in vicinanza delle opere destinate alla difesa militare possono subire una serie di limitazioni imposte con provvedimento dell'autorità amministrativa «nella misura direttamente e strettamente necessaria per il tipo di opere o di installazioni di difesa» (così, art. 1, l. n. 898/1976).

Inoltre, il privato proprietario del fondo gravato da servitù militari ha diritto a una indennità annua.

I diritti di uso pubblico

L'art. 825 c.c. prende in esame, oltre le servitù prediali pubbliche, anche i diritti di uso pubblico (o servitù di uso pubblico), i quali si caratterizzano per essere espressamente finalizzati al conseguimento di un fine di pubblico interesse corrispondente a quello cui servono i beni del demanio.

A differenza delle servitù prediali pubbliche, quindi, tali situazioni giuridiche sono costituite a vantaggio dell'intera collettività, comportando in capo al titolare privato del bene l'obbligo di sopportare gli oneri imposti al fondo servente.

L'oggetto del diritto di uso pubblico, in particolare, può consistere in una qualsiasi utilizzazione che la collettività tragga dal bene di proprietà privata asservito; infatti, i membri della stessa possono chiederne tutela uti singuli (Police).

In tema di legittimazione attiva e passiva a tutela di una servitù di uso pubblico, la quale sia però destinata a una indeterminata collettività di persone e che al contempo il bene sia idoneo a soddisfare un interesse collettivo, «spetta non soltanto all'ente territoriale – normalmente il Comune – che rappresenta la collettività, ma anche a ciascun cittadino appartenente alla collettività uti singulus» (Cass. n. 15931/2019; Cass. n. 333/2011).

Degli esempi di diritti di uso pubblico: diritti d'uso sopra immobili privati di interesse storico, artistico o paesaggistico, ovvero su musei, gallerie d'arte, biblioteche e archivi di proprietà privata, in cui il diritto si sostanzia nel diritto di visita pubblica gravante sul bene culturale; oppure nel caso di diritti di uso su una strada vicinale appartenente a privati, ma asservite a uso pubblico.

Queste ultime, però, debbono essere distinte dalle vie agrarie, cioè strade private formate ex collazione privatorum agrorum e realizzate per l'uso comune, ma esclusivo dei proprietari dei fondi latistanti. Sono strade destinate al transito di un determinato gruppo di soggetti, e, come tali, costituiscono una comunione avente le caratteristiche di una communio incidens, purché il transito avvenga non iure servitutis bensì iure proprietatis (Cass. n. 17111/2006).

La giurisprudenza ha individuato gli elementi necessari al fine configurare una servitù pubblica di passaggio su una strada privata, richiedendo cumulativamente che: a) sia utilizzata da una collettività indeterminata di persone, e non soltanto da quei soggetti che si trovano in un posizione qualificata rispetto al bene gravato; b) sia concretamente idonea a soddisfare, attraverso il collegamento anche in diritto alla pubblica via, esigenze di interesse generale; c) sia oggetto di interventi di manutenzione da parte della Pubblica amministrazione (Cons. St. n. 311/2021).

Il Consiglio di Stato, inoltre, ha precisato che l'iscrizione di una strada nell'elenco delle strade vicinali soggette a uso pubblico comporta una presunzione della sussistenza del diritto di pubblico transito sulla strada che può essere vinta solo con l'esperimento dell'actio negatoria servitutis di fronte al giudice ordinario, ai sensi dell'art. 20, comma 2, della l. n. 2248 del 1865, all. F); la sussistenza di tale iscrizione costituisce presupposto che fonda la legittimazione del Comune all'esercizio del potere di ripristino dell'uso pubblico stesso, estrinsecazione del potere di autotutela possessoria (Cons. St. n. 3891/2010).

Alla luce della giurisprudenza sin qui richiamata si può affermare che un'area privata può ritenersi assoggettata a uso pubblico di passaggio quando l'uso avvenga a opera di una collettività indeterminata di soggetti considerati uti cives, ossia quali titolari di un pubblico interesse di carattere generale, e non uti singuli, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato (Cass. n. 6924/2001).

Al riguardo, infatti, la destinazione pubblica di una strada vicinale, secondo la giurisprudenza, sussiste qualora la stessa possa essere percorsa indistintamente da tutti i cittadini. In sostanza, il requisito dell'uso pubblico insorge dall'inserimento della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni e tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione di esercitare il diritto di uso della strada, manifestata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica (Cons. St. n. 1266/2010).

La strada vicinale, dunque, rimane di proprietà privata, con la conseguenza il proprietario è onerato di attuare gli interventi di manutenzione e riparazione necessari, spettando al Comune un dovere di intervento nel caso di inerzia del titolare.

La Corte di Cassazione, però, ha ribadito che la responsabilità per i danni derivanti dalla mancata manutenzione di strade vicinali non può gravare sull'amministrazione comunale, atteso che i compiti di vigilanza e polizia, come il potere di disporre l'esecuzione di opere di ripristino a spese degli interessati, che ad essa competono su dette strade, non comportano anche l'obbligo di provvedere a quella manutenzione, facente carico esclusivamente ai proprietari interessati (Cass. n. 4480/2009).

Viceversa, il Comune è titolare di un potere/dovere di regolazione della circolazione e, in genere, di esercitare i poteri al fine di garantire e disciplinare l'uso della strada asservita; ne consegue che, ove ciò non sia espressamente consentito dal titolo di acquisto del diritto in parola, il Comune non può concedere ai singoli cittadini usi eccezionali e particolari su porzioni di detto immobile (Cass. n. 15661/2007).

L'art. 825 c.c. richiama il regime del demanio pubblico ex art. 823 c.c., pertanto, l'autorità amministrativa può esercitare i poteri di autotutela esecutiva (per un approfondimento si veda art. 823 c.c.) a tutela del corretto utilizzo, adottando provvedimenti di ripristino dell'uso pubblico della strada.

Per quanto concerne le modalità di costituzione dei diritti di uso pubblico, sono annoverabili: l'usucapione, la dicatio ad patriam, il testamento, l'uso ab immemorabili e la destinazione del buon padre di famiglia.

In particolare, la c.d. dicatio ad patriam postula un comportamento ad uso pubblico del proprietario che, seppur non intenzionalmente diretto a dare vita a tale diritto, metta volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al relativo uso (Cass. n. 15618/2018; Cass. n. 4207/2012). Dunque, il bene messo a disposizione deve soddisfare un'esigenza comune ai membri della collettività (uti cives).

Al contempo, però, la giurisprudenza ha specificato che «la costituzione [...] non può essere desunta dal solo fatto che il proprietario abbia consentito il passaggio pubblico su parte del proprio fondo» (Cass. n. 4597/2012).

In giurisprudenza è pacifica la possibilità che il diritto di uso pubblico venga acquistato per usucapione. Infatti, la stessa ritiene la necessità della concorrenza di contemporanea di alcune condizioni. In primo luogo, l'uso generalizzato da parte di una collettività indeterminata di individui, il cui utilizzo non avviene uti singuli, ma in qualità di uti cives, poiché portatori di un interesse generale. Dunque, l'utilizzo deve essere finalizzato a soddisfare un interesse personale esclusivo. In secondo luogo, inoltre, è necessario che il bene sia idoneo a soddisfare il fine di pubblico interesse perseguito tramite l'esercizio. In terzo luogo, infine, il protrarsi del tempo necessario al fine del maturarsi dell'usucapione (in tal senso Cass. n. 28632/2017).

Inoltre, la giurisprudenza di legittimità ritiene che sia possibile l'acquisto per usucapione anche nel caso di servitù di uso non apparenti, infatti, la Corte di Cassazione ha ribadito che «le servitù di uso pubblico possono essere acquistate mediante possesso protrattosi per il tempo necessario all'usucapione anche se manchino opere visibili e permanenti destinate al loro esercizio, essendo il requisito dell'apparenza prescritto dall'art- 1061 c.c. soltanto per le servitù prediali» (Cass. S.U., n. 20138/2011).

Per quanto riguarda l'estinzione del diritto di uso pubblico può avvenire sia in virtù di apposito provvedimento dismissivo dell'ente titolare, sia per il verificarsi di un fatto tale da renderne impossibile l'esercizio, sia per il non uso, al quale si accompagnino circostanze incompatibili con l'asservimento del bene privato al pubblico interesse, sia, infine, per un comportamento da parte della p.a. incompatibile con il permanere dell'assoggettamento del bene all'uso pubblico (Cass. n. 17037/2007).

A tale orientamento, però, si contrappone, da ultimo, una pronuncia della Corte di Cassazione in cui ai fini dell'estinzione della servitù di uso pubblico ritiene che non può derivare dal mero non uso, esigendo che l'ente territoriale, quale soggetto esponenziale della collettività dei cittadini, esprima una volontà in tal senso, o mediante l'adozione di un provvedimento che riconosca cessati l'uso e l'interesse pubblico a servirsi di un determinato bene, o attraverso un comportamento concludente, consistente nell'omesso esercizio del diritto-dovere di tutela rispetto ad atti usurpativi o impeditivi posti in essere dal privato (Cass. n. 3788/2019).

Dunque, la giurisprudenza ha ritenuto che il non uso non sia sufficiente al fine di poter dichiarare l'estinzione del diritto di uso, ma è necessario un provvedimento amministrativo ovvero l'inerzia della P.A. nell'esercizio dei poteri di tutela nei confronti di atti usurpativi.

Questioni di particolare interesse: i common goods

I common goods rappresentano la concretizzazione del passaggio da una concezione di bene pubblico in seno statico, tipico e di necessaria soggettività pubblica alla concezione oggettiva e dinamica. Infatti, i beni comuni trovano il proprio fondamento in una lettura solidaristica della proprietà, sia pubbliche che privata. Per bene comune, quindi, si intende quel bene strumento idoneo al fine di soddisfare gli interessi di tutti i cittadini.

A titolo esemplificativo i beni comuni sono: i beni naturali (cioè il prodotto della natura: ambienta, ghiacciai, paesaggio, montagna, flora e fauna); i beni culturali (bellezze storiche, archeologiche, chiese); i beni immateriali (etere, lo spazio comune del web).

Tali beni hanno in comune alcuni caratteri, tra i quali, in primo luogo, quello della loro indispensabilità, cioè sono necessari per la vita dell'uomo, sia in senso fisico, che mentale, al fine di permettere il pieno sviluppo della persona umana (art. 2 cost.). In secondo luogo, hanno carattere collettivo, in quanto appartengono a tutti. In terzo luogo, infine, tali beni sono spesso accomunati dalla scarsità delle risorse.

I common goods trovano il loro fondamento nella Costituzione, in particolare agli artt. 2 e 42, comma 2. Infatti, sono strumenti per l'affermazione della personalità umana, permettono il pieno sviluppo della persona; inoltre, la funzione sociale della proprietà (art. 42, comma 2, cost.) implica la necessità di conciliare il diritto del proprietario e l'interesse della società. La funzione sociale non è più limite esterno al diritto, ma diventa un criterio per la qualificazione del bene come pubblico (Caringella, 696).

In definitiva, il soddisfacimento di interessi pubblici non richiede che il soggetto pubblico sia proprietario, ma l'interesse pubblico deve essere soddisfatto dall'azione virtuosa dei cittadini, controllati, però, dal pubblico. L'ente pubblico compete soltanto una proprietà formale, una mera formula organizzatoria per consentire a tutti l'accesso al bene.

I beni comuni sono stati l'oggetto della celebre sentenza della Cassazione romana del 1887 riguardo a Villa Borghese, nella quale la Corte definì il diritto dei cittadini romani come diritto d'uso pubblico. Affermando, inoltre, che la titolarità di tali posizioni non era riferibile alle autorità pubbliche, bensì nei singoli componenti della popolazione romana.

La Corte di Cassazione (Cass. S.U., n. 3665/2011, ma anche Cass. n. 3811, 3665, 3811, 3812, 3936, 3937, 3938, 3939/2011) è ritornata sul tema e ha qualificato le valli da pesca della laguna di Venezia come beni comuni. Infatti, ha rilevato la demanialità delle valli ritenendo che, in virtù degli articoli 2,9 e 42 cost., fossero riconducibili alla titolarità dello Stato-collettività, piuttosto che allo Stato-apparato.

In particolare, le Sezioni Unite hanno ribadito che là dove un bene immobile, indipendentemente dalla titolarità, risulti per le sue intrinseche connotazioni, in particolar modo quelle di tipo ambientale e paesaggistico, destinato alla realizzazione dello Stato sociale come sopra delineato, detto bene è da ritenersi, al di fuori dell'ormai datata prospettiva del dominivm romanistico e della proprietà codicistica, ”comune” vale a dire, prescindendo dal titolo di proprietà, strumentalmente collegato alla realizzazione degli interessi di tutti i cittadini (Cass. S.U., n. 3665/2011).

In conclusione, i beni comuni, anche nell'assenza di un loro riferimento espresso, sono classificabili grazie a una interpretazione dell'intero sistema normativo. Dunque, in virtù delle richiamate coordinate costituzionali, si devono ritenere tali quei beni, qualsiasi sia la titolarità, strumentali alla realizzazione della persona umana, la cui utilizzazione è asservita, di fatto o ex lege, alla collettività, la quale ne fruisce liberamente, facendo salvi eventuali limiti strumentali ad evitarne il depauperamento.

L'occasione dei beni comuni sollecita la dottrina (Grasso) a riproporre, ancora una volta, consueti interrogativi.

La “proprietà” è ancora, nel nostro tempo liquido, quel «terribile diritto» che si annuncia, alle soglie della modernità, quale epifania dei rapporti sociali di dominio?

Di quali timori o tremori è venata la percezione del «tragico» che accompagna e definisce il regime (o forse la sorte) dei “beni comuni”?

Di quale assiologia si alimenta l'incerto crinale che – in una aggiornata logica di proporzionata ed orizzontale sussidiarietà delle forme di appartenenza – definisce e perimetra il confine tra pubblico e privato?

Di quale messaggio si fa latore l'art. 42, comma 1 Cost., quando proclama, con giusta e inusitata enfasi, che la proprietà è «pubblica o privata»?

L'apparente debolezza semantica del verbo essere (sempre astretto tra descrizione e deontica) sottende passiva ricezione di uno «stato del mondo» oppure evoca ingiunzioni programmatiche a non eludibili riallocazioni di valore?

E la «funzione sociale» della proprietà privata (non disgiunta dalla audace – se non mendace – promessa di democratica e generalizzata accessibilità) si è ridotta alla mera regolazione di annunziati «fallimenti del mercato» (vincolo o limite tecnico a troppo marcate esternalità negative per disposizioni o godimenti esclusivi ed escludenti) oppure serba (ancora?) i sensi di una attitudine redistributiva intesa alla rimozione dei limiti, non meno economici che sociali, al pieno sviluppo della persona (art. 3, comma 2 cost.)?

E, appunto, i ‘beni' son solo quelli che l'art. 42 dice «economici», oppure sarà proprio sul piano di emergenti forme di appartenenza a marcata valenza esistenziale che si misura, tanto arduo quanto ineludibile, l'impegno all'aggiornamento del rapporto autorità/libertà (ed anzi allora: sovranità/proprietà, demanio/dominio) quale forma di una «dialettica critica» che allenti (se non può divellere) la weberiana «gabbia d'acciaio» della dilagante razionalità economica, burocratica e tecnocratica, disegnando o prefigurando accettabili (ancorché più disincantati e certo meno rivoluzionari) percorsi di una possibile prassi emancipativa?

Usi civici

Gli usi civici debbono essere distinti dai diritti reali di uso pubblico di cui all'articolo in commento, il quale sebbene, non siano previsti espressamente. Si tratta di diritti reali di natura civica, in quanto i componenti della collettività ne fruiscono uti cives, la cui titolarità spetta a una determinata collettività (Sandulli, 814).

Dunque, anche gli usi civici sono esercitati dalla collettività su beni immobili, la cui titolarità può essere sia del Comune sia di privati, come nel caso di terre, boschi e acque, purché vi sia il fine di trarre alcune utilità di carattere primario.

Tali utilità si possono manifestare in varie forme come, ad esempio, nel diritto di raccogliere la legna, i funghi, l'erba, o nel diritto di pascolo.

Gli usi civici, quali diritti reali, sono di antichissima origine, risalendo, alcuni di essi, anche all'epoca medioevale. Hanno natura civica e la titolarità è riconducibile a una collettività determinata, anche eventualmente organizzata in associazioni agrarie, come le c.d. «università agrarie» (Police, 436).

Gli usi civici, quindi, secondo la dottrina sono in generale diritti spettanti ad una collettività, che può essere o meno organizzata in una persona giuridica a sé stante, ma comunque concorrente a formare l'elemento costitutivo di un Comune o di altra persona giuridica pubblica; pertanto, l'esercizio dei diritti spetta uti cives ai singoli membri che compongono detta collettività (Deliperi, 388).

L'uso consente il soddisfacimento di bisogni collettivi essenziali e strettamente collegati alla specifica utilità che la terra gravata dall'uso può conferire. Dunque, vi sono diritti uso civico di legnatico, di erbatico, di fungatico, di macchiatico, di pesca, di bacchiatico. Il godimento spetta alla collettività in quanto tale e non al singolo individuo o di singoli che la compongano (Deliperi).

Al fine di individuarne la portata e i requisiti, attenta dottrina (Deliperi) ha individuato gli elementi comuni a tutti i diritti di uso civico, tra i quali l'esercizio di un determinato diritto di godimento su un bene fondiario; la titolarità del diritto di godimento per una collettività stanziata su un determinato territorio; infine, la fruizione dello specifico diritto per soddisfare bisogni essenziali e primari dei singoli componenti della collettività.

Gli usi civici possono gravare su beni immobili di privati, ma anche su beni demaniali, comportando, per il proprietario del fondo che ne sia gravato, l'obbligo di sopportare che i membri della collettività godano dei suoi beni.

Caratteristica dell'uso civico è inoltre la perpetuità del vincolo a favore della collettività, quindi la sua imprescrittibilità e la sua inalienabilità. Sono, inoltre, qualificati come beni non espropriabili ex art. 4, comma 1-bis, d.P.R. n. 327/2001, a meno che non venga mutata la sua destinazione d'uso ovvero l'opera pubblica o di pubblica utilità da realizzare è compatibile con l'esercizio dell'uso civico.

Gli usi civici sono disciplinati dalla l. n. 1766/1927, dal r.d. n. 332/1928, recante il regolamento di esecuzione della legge, e dalla l. n. 1078/1930, sulla definizione delle controversie in materia di usi civici.

In particolare, la l. n. 1766/1927 ha previsto la liquidazione degli usi civici gravanti sui beni privati, rimettendo a Commissari regionali per la liquidazione degli usi civici la questioni. I Commissari in origine erano titolari sia di funzioni amministrative che giurisdizionali, attualmente, a seguito del d.P.R. n. 616/1977, le funzioni amministrative sono state delegate alle Regioni.

I proprietari di terreni gravati da uso civico si possano affrancare da tale condizione; il procedimento consta di due fasi: una prima relativa all'accertamento della sussistenza dell'uso civico; una seconda, infine, consistente nell'affrancazione dei fonti privati dagli usi, mediante scorporo, il quale consiste nel dividere il fondo gravato dagli usi in due quote, di cui una viene attribuita in proprietà alla popolazione che continuerà a usufruirne e l'altra viene attribuita, libera dagli usi, al proprietario (liquidazione con scorporo).

Un'altra procedura, invece, è la c.d. liquidazione con canone, la quale ricorre nel caso in cui i fondi gravati da uso civico siano stati migliorati con opere sostanziali e permanenti. In tale evenienza, non si procede al distacco di una parte del fondo, ma la quota virtualmente spettante alla popolazione viene convertita in un equivalente pecuniario, consistente in un canone annuo, affrancabile tramite un procedimento di competenza comunale.

Bibliografia

Bianca (diretto da), Commentario del codice civile, Gatti, Troiano (a cura di), Della proprietà, III, Roma, 2014; Caringella, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Roma, 2021; Centofanti, I beni pubblici, tutela amministrativa e giurisdizionale, Milano, 2007; Deliperi, Gli usi civici e gli altri diritti d'uso collettivi in Sardegna, in Riv. amb. XXVI, fasc. 3-4, 2011; Grasso, I terribili beni comuni, in Obiettivo magistrato.it.; Police, I beni di proprietà pubblica, in Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2019; Sandulli, Manuale di diritto amminisrativo, Napoli, 1989.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario