Codice Civile art. 831 - Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto.Beni degli enti ecclesiastici ed edifici di culto. [I]. I beni degli enti ecclesiastici sono soggetti alle norme del presente codice, in quanto non è diversamente disposto dalle leggi speciali che li riguardano (1). [II]. Gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano. (1) V. artt. 9 ss. l. 27 maggio 1929, n. 848; l. 20 maggio 1985, n. 222. InquadramentoL'art. 831 c.c. contiene due diverse statuizioni, tra di loro funzionalmente connesse, l'una di carattere generale, la seconda specifica, e che presuppone la prima. Il primo comma ha ad oggetto i beni degli enti ecclesiastici considerati nel loro insieme. Affermandone la loro soggezione al sistema del diritto comune; ma al contempo la norma prevede un rinvio alle leggi speciali che concernono gli enti e i beni ecclesiastici. Nel secondo comma, una volta individuate le norme che regolano le cose deputate all'esercizio della libertà religiosa, la disposizione de qua rappresenta in modo specifico il regime di un bene giuridico, gli edifici del culto cattolico, statuendone a carico di questi un preciso onere di destinazione. Premessa una certa perplessità sulla collocazione sistematica di tali norme, la ragione per cui il legislatore del Codice civile vigente ha collocato l'art. 831 al titolo I («Dei beni»), capo II («Dei beni appartenenti allo Stato, agli enti pubblici e agli enti ecclesiastici») del libro terzo («Della proprietà»), è stata rinvenuta (v. Del Giudice, 331-332; Resta, 142-143; Finocchiaro, 359-360) nel fatto che la disciplina da esso prevista pone edifici di culto, in una situazione analoga a quella dei beni demaniali e del patrimonio indisponibile di Stato e di altri enti pubblici territoriali e non che, perseguendo un fine di pubblico interesse, non possono essere sottratti alla loro destinazione. Si tratterebbe di beni strumentali al raggiungimento del fine della confessione e consentono, al contempo, la funzionalizzazione sociale della proprietà di cui all'art. 42 cost. Dunque, la gestione di tali beni è sottratta a gran parte dei poteri di controllo e vigilanza statali; ma è garantita la condizione giuridica degli enti confessionali, soggetti titolari di detti beni. Le «leggi speciali» in materia di beni ed enti ecclesiastici.È dunque principio generale del nostro ordinamento che gli edifici di culto e gli altri beni degli enti ecclesiastici siano sottoposti al diritto comune proprio dei beni patrimoniali. Tuttavia, tali beni destinati al culto religioso godono di un particolare regime giuridico. Infatti, le «leggi speciali» a cui rinvia il primo comma dell'art. 831, sono coerenti con la funzione propria di tali beni di servire direttamente al culto divino a seguito della loro consacrazione ovvero benedizione; ovvero, e più genericamente, di essere beni strumentali e adeguati alla missione pastorale della Chiesa. L'elemento discriminante tra l'applicazione della normativa civilistica e quella «speciale» è dato dalla natura dell'attività compiuta dall'ente. In tal senso, infatti, la tutela prestata dall'art. 20 cost., così come anche richiamato dall'art. 7 dell'Accordo del 1984 fra Stato e Chiesa cattolica modificativo del Concordato del 1929, tale per cui la soggettività di un ente è riconosciuta essenzialmente a motivo della sua caratterizzazione religiosa. Tra queste norme «speciali» bisogna innanzitutto annoverare l'art. 7 dell'Accordo del 18 febbraio 1984 fra Stato italiano e Santa Sede, reso esecutivo mediante l. 25 marzo 1985, n. 121; e le norme approvate in data 8 agosto 1984 dalla Commissione paritetica per disciplinare la materia degli enti e dei beni ecclesiastici, per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano, e degli interventi del medesimo nella gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici. Tali ultime norme sono state rese esecutive dalle l. 20 maggio 1985, n. 206, di autorizzazione alla ratifica del protocollo che le ha approvate, e la l. 20 maggio 1985, n. 222. Accanto alle fonti di derivazione bilaterale, abbiamo quelle di diritto comune (normative e regolamentari) che, in modo sia diretto sia incidentale, riguardano la normativa sugli enti e sui beni ecclesiastici. Senza volerle qui elencare tutte, il d.P.R. 13 febbraio 1987, n. 33, quale modificato dal d.P.R. 1 settembre 1999, n. 337, che detta il regolamento di attuazione della medesima l. n. 222 del 1985. Vi sono poi le norme canoniche, alcune delle quali, assumono una diretta rilevanza nell'ordine dello Stato. Il secondo comma dell'art. 831 c.c. effetta un espresso riferimento agli «edifici destinati all'esercizio pubblico del culto cattolico». La destinazione di una chiesa al pubblico si desume dal fatto che l'edificio è stabilmente adibito al culto e non ad altri scopi, e dalla sua dipendenza dall'autorità ecclesiastica che ne esercita liberamente i poteri, assumendone anche i necessari doveri ai sensi del can. 1213. Naturalmente è necessario che la destinazione al pubblico, limitatrice del diritto del proprietario ai sensi dell'art. 831 c.c., sia effettiva. Non è cioè sufficiente la benedizione o la consacrazione canonica, ma a questa si deve aggiungere la reale usufruibilità dell'edificio o luogo da parte dei fedeli, o comunque dei soggetti interessati per l'effettivo svolgimento dell'attività cultuale e religiosa (Cass. n. 359/1953). Così, il proprietario dell'edificio (autorità ecclesiastica, ente morale, privato...) può porre dei vincoli di orario; può altresì permettere il compimento di attività diverse da quelle di culto e comunque compatibili con la sacralità del luogo. Tali limitazioni debbono venir meno allorché nell'edificio si compiano quelle attività cultuali che ne costituiscono la ragion d'essere, sì che chiunque, senza dover vantare alcun titolo di ammissione, possa accedervi. Di converso, l'autorità ecclesiastica deve garantire una necessaria continuità all'attività e non limitarsi a una sporadica officiatura dedicata a una specifica ricorrenza liturgica. La chiesa deve inoltre, e pertanto, essere nell'esclusiva disponibilità della persona giuridica competente, non potendo essere oggetto di un contratto che attribuisca a terzi diritti e facoltà sull'edificio di culto. Pertanto, non può essere né bene strumentale di attività commerciale né utilizzata in alcun modo a fine di lucro. La proprietà degli edifici di culto.Un edificio di culto può appartenere a un ente ecclesiastico (diocesi, parrocchia, ente chiesa), a un ente pubblico, a una persona giuridica privata oppure a una persona fisica. Nel caso di persona fisica o un ente civile, è possibile che le parti stipulino una convenzione per la concessione in uso dell'edificio di culto che ne determina le condizioni. In tal caso, da un lato il proprietario non può sottrarre l'edificio alla destinazione di culto ex art. 831, comma 2 c.c.; d'altro lato, spetta all'autorità ecclesiastica la regolamentazione dell'esercizio e della cura del culto, dato il principio che il soggetto che celebra la liturgia può essere soltanto una comunità di fedeli in comunione con il vescovo diocesano, non essendo ipotizzabile che il proprietario civile dell'edificio abbia la responsabilità del culto. Nell'ordinamento canonico precedente al codice del 1983, tutte le chiese legittimamente dedicate al culto divino tramite consacrazione o benedizione erano persone morali per disposizione stessa del diritto. Non era necessario un formale decreto, ma era sufficiente per l'attribuzione della personalità giuridica il rito della dedicazione (can. 99 Codex iuris canonici 1917). Il codice del 1983 prevede, invece, che le nuove chiese siano persone giuridiche pubbliche se costiuite come tali con decreto dell'autorità ecclesiastica. Le chiese denominate rettorie (can. 556), sono destinate al culto pubblico per i fedeli di tutta la diocesi. La loro finalità pastorale specifica è determinata dal Vescovo, e può anche ricomprendere funzioni sostanzialmente parrocchiali (can. 558 e 560). Debbono, infatti, essere erette in persona giuridica canonica pubblica. L'acquisto della personalità giuridica dell'ente parrocchia, a norma dell'art. 29 della l. n. 222/1985, ha comportato l'estinzione della personalità giuridica della chiesa parrocchiale, determinando il trasferimento del suo patrimonio alla parrocchia, che succede all'ente estinto in tutti i rapporti attivi a passivi. Quanto detto si applica anche nel caso di estinzione di chiese cattedrali, con il conseguente trasferimento dei patrimoni alle rispettive diocesi. Pertanto, la chiesa cattedrale che non ha personalità giuridica deve essere considerata annessa all'ente diocesi e, quindi, amministrata dal Vescovo diocesano. La chiesa cattedrale con personalità giuridica propria è, invece, un ente a sé stante, quindi, può essere retta e amministrata dal capitolo cattedrale. Le altre chiese non annesse a altri enti possono essere riconosciute come enti ecclesiastici ove aperte al culto pubblico e dotate dei mezzi sufficienti per la gestione e manutenzione. Originariamente l'art. 29, lett. a del Concordato dell'11 febbraio 1929 impediva che potessero essere riconosciute come enti ecclesiastici anche «le chiese pubbliche aperte al culto», ma prive di personalità, o perché mai l'avessero avuta, oppure perché appartenenti agli enti ecclesiastici soppressi. Pertanto, l'interpretazione di tale norma (v. Cons. St., n. 2096 /1958) era nel senso che una chiesa potesse essere riconoscibile solo quando fosse di proprietà pubblica e non quando di proprietà di un privata che, attraverso la deputatio ad cultum, l'avesse destinata al culto pubblico ai sensi dei can. 1154 e 1161 dell'allora vigente Codice di diritto canonico. Dunque, è stata superata grazie all'art. 11 della l. n. 222/1985 ogni contraria interpretazione, ammettendo il riconoscimento dell'ente giuridico chiesa a prescindere dalla proprietà dell'edificio sacro. Pertanto, un privato può essere proprietario di un edificio di culto qualificabile come ente ecclesiastico. Tuttavia, il diritto di proprietà risulta compresso, in quanto la deputatio ad cultum ne determina una destinazione di competenza esclusiva dell'autorità ecclesiastica. Il proprietario pertanto è tenuto (etiam invitus) a concedere in uso l'edificio, a titolo di esercizio del culto, all'ente ecclesiastico designato dal vescovo. Fermo restando che il diritto di proprietà, per la sua assolutezza ed elasticità, tende a riespandersi ogniqualvolta la facoltà di godimento del titolare del bene non sia in contrasto con le essenziali esigenze di culto (Finocchiaro, 360-361). La destinazione al culto: rilevanza e disciplina.L'onere di destinazione al culto è caratteristica intrinseca ed essenziale del bene. Infatti, l'art. 831, comma 2 c.c., gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possano essere sottratti alla loro destinazione, sino a che, in concreto, la destinazione non sia cessata. Per quanto poi concerne le leggi sulla cessazione della destinazione al culto a cui fa riferimento la normativa del codice civile, si intendono quelle previste dal diritto canonico (in tal senso Jemolo, 308-309). Infatti, l'art. 19 della l. n. 222/1985, afferma che ogni mutamento sostanziale nel fine, nella destinazione e nel modo di esistenza di un ente ecclesiastico civilmente riconosciuto acquista rilevanza civile mediante riconoscimento con decreto: l'ordinamento, dunque, presuppone che per le vicende più incive di di un ente ecclesiastico, come la destinazione al culto, sia richiesto un atto emanato nell'ordine della Chiesa. L'attività di culto, inoltre, rientra fra quelle proprie ed esclusive dell'ordine della Chiesa. L'art. 7 cost. tutela la libertà di organizzazione della Chiesa, ribadita nell'art. 2 dell'Accordo del 1984. Infatti, non dettare norme in quest'ambito significa non intromettersi negli interna corporis di una confessione, rispettandone l'autonomia e la sovranità e, al contempo, garantire che lo Stato assuma posizioni contrarie alla sua intrinseca laicità. Nello stesso senso, si esprime l'Istruzione in materia amministrativa della Conferenza Episcopale Italiana (2005), ai sensi del cui n. 124 «la tutela della destinazione al culto e la riserva delle relative facoltà all'autorità ecclesiastica competente per territorio costituisce una costante della legislazione statale, che garantisce l'immodificabilità della destinazione al culto (cfr. art. 831, comma 2 c.c.) fino a quando non sia disposta dall'autorità ecclesiastica la riduzione a uso profano dell'edificio di culto, a norma del can. 1222». Orbene, ciò non comporta che che non vi possa essere un atto che certifichi agli effetti civili la determinazione confessionale. In modo analogo nel caso di soppressione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e degli enti religiosi ebraici, in cui l'estinzione ha efficacia civile mediante l'iscrizione nel registro delle persone giuridiche del provvedimento dell'autorità religiosa competente che sopprime l'ente o ne dichiara l'avvenuta estinzione (v. art. 20, § 1 l. n. 222/1985; art. 21, § 3 l. n. 101/1989). In tale ipotesi lo Stato considera efficace il contenuto dell'atto giuridico religioso presupponendolo. In tal senso la giurisprudenza (Cons. St. n. 2234/2005), la quale ha stabilito, con riferimento all'art. 5 della l. n. 121/1985 (requisizione, occupazione, espropriazione di un edificio aperto al culto), che la qualificazione dei beni finalizzati nel senso voluto dalla norma assume rilevanza nell'ordinamento statale perché introduce una disciplina derogatoria speciale; la verifica dei presupposti va quindi effettuata alla luce del Codice di diritto canonico, essendo la deputatio ad cultum un atto proprio dell'Autorità ecclesiastica. Specificamente, essa deve essere provata mediante un «apposito documento, da redigere contestualmente alla dedicatio o benedictio e conservare nei modi indicati, come previsto e richiesto dal canone 1208, documento che non ammette equipollenti». Pertanto, «in difetto del documento richiesto che deve avere il contenuto sopra illustrato, per i manufatti in questione non può ritenersi sussistente la dedicatio ad cultum pubblicum». In particolare, la disciplina canonica sulla Cessazione della deputatio ad cultumLa destinazione al culto pubblico cesserà, pertanto, in conformità alle norme canoniche. In generale, ai sensi del can. 1212 del Codice di diritto canonico, un luogo sacro perderà la sua dicatio in quanto distrutto nella sua totalità (o in gran parte) oppure in conseguenza della destinazione a usi profani in modo permanente, sia che questo avvenga tramite decreto dell'ordinario, sia che avvenga de facto. Per quanto riguarda in modo specifico le chiese, il vescovo diocesano può ridurle a un uso profano che non sia indecoroso, qualora una chiesa non può più essere dedicata al culto, né è possibile restaurarla, sia quando sussistino altre gravi ragioni. In quest'ultima ipotesi, il vescovo diocesano, prima di emanare il decreto interpellare il consiglio presbiterale, per un parere obbligatorio, ma non vincolante, poi deve raccogliere il consenso di quanti rivendicano legittimamente diritti su di essa e, infine, deve valutare il danno che può subire il bene delle anime da tale atto (can. 1222). Il mancato rispetto di una di tali fasi comporta l'invalidità del decreto e, quindi, la nullità. Dunque, un edificio, ancorché destinato in concreto al culto divino, ma non benedetto o dedicato, non è un luogo sacro per il diritto della Chiesa e, come tale, non soggiace alla previsione di cui all'art. 831 c.c. Per l'applicazione della normativa di cui all'art. 831 c.c ., però, le parti interessate non debbano provate solo la dedicazione o la benedizione, ma che l'edificio sia in actu destinato all'esercizio pubblico del culto. La dedicazione o la benedizione sono, pertanto, presupposti della destinazione e possono costituire una presunzione della stessa, ma la prova sarà data dall'effettivo esercizio del culto pubblico conseguente ai suddetti atti. La legittimazione processuale.Per quanto concerne la legittimazione processuale all'azione per l'effettiva destinazione del bene al culto pubblico in sede petitoria o possessoria, dobbiamo distinguere se la chiesa abbia o meno personalità giuridica. Se la chiesa è persona giuridica, la legittimazione processuale è attribuita ex art. 75 c.p.c. il rettore ovvero il suo legittimo superiore. Dal combinato disposto degli art. 75, comma 3 c.p.c. e 36, comma 2 c.c., si evince che se l'ente non è riconosciuto come ente morale (come nel caso delle chiese annesse ad altra persona giuridica, ai sensi dell'art. 11 e 30 della l. n. 222/1985), può stare in giudizio nella persona a cui, secondo statuto o accordo, ne è conferita la direzione e la presidenza. La giurisprudenza ha altresì ammesso (Pret. Padova, 25 maggio 1987) che legittimato ad agire possa essere qualunque fedele, da solo o insieme ad altri, reputando che l'interesse coinvolto (cioè di poter esercitare il proprio culto in modo pubblico) sia analogo ai c.d. interessi collettivi. Tuttavia, tale ricostruzione è contraria alla realtà della comunità ecclesiale cattolica, destinataria della tutela di cui all'art. 831 c.c. Infatti, titolare dell'interesse leso non è la comunità intesa in modo generale, bensì la comunità dei fedeli cattolici interessati (Berlingò, 192). Limiti del diritto di proprietà dei luoghi di culto: atti ablativi reali.L'art. 831, comma 2, c.c. riguarda ogni vicenda giuridica dell'ente stesso e delle sue pertinenze, disponendo che può essere alienato, pignorato, sequestrato, oggetto di esecuzione immobiliare, dato in locazione, acquisito per usucapione, con il solo limite del rispetto dello scopo di culto pubblico. La possibilità di pignoare l'edificio, però, non comprende i beni mobili destinati al culto che si trovano in esso. Infatti, l'art. 514 n. 1 c.p.c. prevede, in via di eccezione a tale regola generale, che siano assolutamente impignorabili «le cose [mobili] sacre e quelle che servono all'esercizio del culto». Lo Stato rinvia per la qualifica di cosa sacra o che serve all'esercizio del culto, a quella elaborata dal diritto della Chiesa, cioè per cose sacre si intendono quelle «che sono state destinate al culto divino con la dedicazione o la benedizione» (can. 1171). Vi sono ulteriori specifiche limitazioni previste in via convenzionale tra Stato italiano e Stato della Chiesa. Infatti, con il Concordato del 1929, gli edifici aperti al culto sono stati esentati (art. 9) da requisizioni e occupazioni. Inoltre, era previsto il divieto di demolizione di cui all'art. 10 del Concordato, ciò comportava che la chiesta aperta al culto non poteva essere sottoposta a espropriazione per pubblica utilità, se non previo accordo con l'ordinario della diocesi. L'Accordo del 1984 tra Stato italiano e Chiesa cattolica riprende sostanzialmente la disciplina del 1929, limitando il potere della Pubblica Amministrazione in materia di atti ablativi reali. L'art. 5 prevede che gli edifici aperti al culto non possono essere requisiti per grave necessità pubblica, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni, e comunque previo accordo con la competente autorità ecclesiastica. Questioni applicative.1) Si può estendere la disciplina dell'art. 831 agli enti delle confessioni religiose diverse dalla cattolica? L'art. 831, comma 1 c.c . si limita a indivare i beni afferenti agli «enti ecclesiastici». La ratio della norma, quale si può dedurre anche dalla Relazione del Guardasigilli al Codice civile. Nella sua formulazione originaria essa riguarda solo gli enti della Chiesa cattolica. Invero, la relazione ministeriale, al momento di indicare le «leggi speciali» di cui all'art. 831, comma 1, ricorda «le norme dell'art. 30 del Concordato tra la Santa Sede e l'Italia, e degli articoli 12 e seguenti della l. 27 maggio 1929, n. 848, contenente disposizioni sugli enti ecclesiastici e sulle amministrazioni dei patrimoni civili destinati ai fini di culto» (Codice civile, Relazione del Ministro Guardasigilli preceduta dalla relazione al disegno di legge sul «Valore giuridico della carta del lavoro», Roma 1943, n. 401, 247). Dunque, nella relazione si da per scontato che solo tali enti avrebbero potuto qualificarsi ecclesiastici. Con l'entrata in vigore della l. 11 agosto 1984, n. 449, recante le norme per la regolamentazione dei rapporti fra lo Stato italiano e la Tavola Valdese, tale certezza è venuta meno. Invero, l'art. 12 della suddetta legge qualifica gli enti di quest'ultima confessione come «ecclesiastici valdesi». Insomma, è considerato ecclesiastico e come tale qualificato, l'ente che abbia una sua immedesimazione con una confessione religiosa. L'ecclesiasticità assurge da caratteristica specifica a rango di categoria generale, tanto che, in dottrina, non si è dubitato ad affermare che il carattere ecclesiastico potrebbe ormai essere considerato quale termine subordinato al «fine di religione o di culto» (Berlingò, 18). Pertanto, una interpretazione evolutiva del primo comma dell'art. 831, considera incluso nella definizione di ente ecclesiastico non solo gli enti della Chiesa cattolica, ma altresì quelli delle altre confessioni religiose, sia che esse abbiano stipulato intese con lo Stato ai sensi dell'art. 8, comma 3 cost.; sia che di tale intese siano prive, e siano pertanto sottoposte al regime previsto dalla l. n. 1159/1929 (Finocchiaro, 363; Bettetini, 11). Il secondo comma dell'art. 831 riguarda, invece, solo gli edifici dedicati all'esercizio del culto pubblico cattolico. A questo riguardo va osservato che l. n. 101/1989 ha sottoposto gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto ebraico a una garanzia analoga a quella prevista dall'art. 831, comma 2 c.c. Tali edifici, anche se appartengono a privati, non possono infatti essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata con il consenso della Comunità competente o dell'Unione. Dal punto di vista delle fonti del diritto, tale estensione dell'art. 831 c.c. agli edifici del culto ebraico, essendo prevista da una legge rinforzata o, comunque, garantita dall'art. 8, comma 3 cost., ha una resistenza alla modificazione, alla deroga e all'abrogazione maggiore di quella dell'art. 831, comma 2 c.c., che, essendo posta da una legge ordinaria, può essere modificata, derogata o abrogata da una legge ordinaria successiva (Finocchiaro, 363-364). BibliografiaAlbisetti, Brevi note in tema di «deputatio ad cultum publicum» e art. 42 della Costituzione, in Il diritto ecclesiastico, 1976, II, 133-146; Berlingò, Enti e beni religiosi in Italia, Bologna, 1992; Bettetini, Gli enti e i beni ecclesiastici. Art. 831, Milano, 2005; Del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Milano, 1955; Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, a cura di Bettetini e Lo Castro, Bologna, 2009; Floris, Apertura e destinazione al culto, in Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, a cura di Persano, Milano 2008, 57 ss.; Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano 1961; Marano, La proprietà, in Gli edifici di culto tra Stato e confessioni religiose, a cura di Persano, Milano 2008, 37 ss.; Minelli, La rilevanza giuridica della «Deputatio ad cultum» (art. 831 Codice Civile), in Enti ecclesiastici e controllo dello Stato. Studi sull'Istruzione CEI in materia amministrativa, a cura di J.I. Arrieta, Venezia, 2007, 257 ss.; Petroncelli, La «deputatio ad cultum publicum». Contributo alla dottrina canonica degli edifici pubblici di culto, Milano, 1937, 145-169; Resta, sub art. 831, in Della proprietà (art. 810-956), Comm. SB, Bologna, 1976; Scavo Lombardo, Aspetti del vincolo civile protettivo della «deputatio ad cultum publicum», in Il diritto ecclesiastico 1950, 250-292. |