Decreto del Presidente della Repubblica - 8/06/2001 - n. 327 art. 42 bis - Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico (1)

Francesco Caringella

Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico (1)

 

1. Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene.

2. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira. In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.

3. Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'articolo 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma

4. Il provvedimento di acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'articolo 20, comma 14; è soggetto a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'articolo 14, comma 2.

5. Se le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del bene.

6. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti, privati o pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia.

7. L'autorità che emana il provvedimento di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei conti mediante trasmissione di copia integrale.

8. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo.

(1) Articolo aggiunto dall' articolo 34, comma 1, del D.L. 6 luglio 2011 n. 98

Inquadramento

La norma in esame disciplina l'espropriazione postuma, nella quale il provvedimento ablatorio interviene a valle dell'occupazione, così realizzando un'inversione rispetto allo schema classico di cui all'art. 23 del d.P.R. n. 327/2001.

L'art. 42-bis accomuna tutte le ipotesi di occupazione illegittima del fondo, dettando una disciplina destinata ad applicarsi sia nei casi in cui siano stati annullati l'atto che abbia apposto il vincolo preordinato all'esproprio, la dichiarazione di pubblica utilità o il decreto espropriativo, sia quando il comportamento della pubblica amministrazione si collochi al di fuori di un procedimento di espropriazione.

L'espropriazione invertita, con cui l'Autorità espropriante acquisisce il bene al suo patrimonio indisponibile, configura un'extrema ratio, eccezionale rispetto alla regola della restituzione e percorribile solo in assenza di ragionevoli alternative. A tal fine, la norma subordina l'adozione del provvedimento ablatorio postumo al ricorrere di una serie di requisiti e condizioni.

In primo luogo, si richiede una motivazione rafforzata in riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico da valutarsi mediante un giudizio di comparazione con i contrapposti interessi privati e mettendo in luce l'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.

In secondo luogo, l'Autorità espropriante è tenuta a corrispondere un indennizzo patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per cento del valore venale del bene. Quanto all'eventuale periodo di occupazione senza titolo, il privato ha diritto, a titolo risarcitorio, a un interesse pari al cinque per cento annuo sul valore di mercato, salva la prova del maggior danno.

La previsione dell'erogazione di un indennizzo in luogo del risarcimento implica la qualificazione del comportamento occupativo posto in essere dall'amministrazione quale «atto lecito dannoso». Ne deriva l'incompatibilità di una siffatta costruzione normativa con l'impostazione seguita dalla giurisprudenza nazionale e convenzionale, costante nel ravvisare nell'occupazione senza titolo gli estremi di un comportamento illecito. La norma in commento darebbe così luogo a un'inversione logica, facendo discendere la liceità della condotta realizzata dall'amministrazione dal tipo di sanzione irrogata (Punzo).

Infine, a norma dell'art. 42-bis, assume rilievo centrale la decorrenza non retroattiva del provvedimento di esproprio, che evoca una scissione netta tra l'atto ablatorio legittimo e l'occupazione illecita. L'inciso «non retroattivamente» vale a fugare ogni dubbio circa l'efficacia ex nunc dell'atto di cui all'art. 42-bis che, lungi dal voler sanare l'effetto traslativo già prodottosi con l'occupazione, configura un titolo di acquisto autonomo, adottato all'esito di apposito procedimento.

Il provvedimento non avrebbe funzione sanante del comportamento illecito, ma agirebbe quale atto autonomo e distinto, omogeneo a quello di esproprio, di cui fa le veci nei casi in cui l'amministrazione abbia già utilizzato il bene per ragioni di pubblico interesse (Varrone).

Dall'occupazione appropriativa all'introduzione dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001

L'occupazione appropriativa (o accessione invertita) è un istituto di origine pretoria, in forza del quale la pubblica amministrazione acquista a titolo originario la proprietà del fondo che abbia occupato senza titolo, determinandone l'irreversibile trasformazione, pur in mancanza di un legittimo provvedimento di esproprio.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, ravvisata l'incompatibilità tra la titolarità in capo al privato di un diritto di proprietà formale sul suolo e la titolarità in capo alla pubblica amministrazione di un diritto di proprietà sostanziale sull'opera, sono giunte ad affermare il principio secondo cui in presenza di un'occupazione illegittima, l'irreversibile trasformazione del fondo determina l'estinzione del diritto di proprietà del privato, con conseguente insorgenza del diritto di quest'ultimo al risarcimento del danno.

Trattandosi di un illecito aquiliano ex art. 2043 c.c., il diritto alla tutela risarcitoria può essere fatto valere nel termine quinquennale di prescrizione decorrente dall'irreversibile trasformazione del fondo ovvero dalla scadenza del termine di occupazione autorizzata nel caso in cui la trasformazione fosse avvenuta in epoca anteriore.

Il Supremo Consesso giustifica l'acquisto a titolo originario della proprietà in capo alla pubblica amministrazione, ricorrendo all'istituto dell'accessione di cui all'art. 934 c.c., il quale viene riletto alla luce dell'art. 42 cost. avendo riguardo alla prevalenza dell'interesse pubblico all'uso del bene per scopi generali rispetto al diritto di proprietà del privato. Si perviene così a statuire l'inversione dell'istituto civilistico, facendo leva sulla forza attrattiva esercitata dall'opera pubblica sul suolo privato (Cass. S.U., n. 1464/1983).

La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha chiarito che l'operatività dell'occupazione acquisitiva postula l'adozione della dichiarazione di pubblica utilità. In mancanza di essa, pertanto, si verserà nella diversa ipotesi dell'occupazione usurpativa, trattandosi di un mero illecito comportamentale, inidoneo, in quanto tale, a giustificare l'effetto traslativo (Corte cost. n. 191/2006).

In ragione delle evidenti difformità rispetto al principio di legalità sostanziale di conio convenzionale, si è imposto il superamento dell'istituto dell'occupazione appropriativa, ritenuta violativa del divieto di espropriazioni indirette di cui all'art. 1, Primo Protocollo Addizionale, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

La Corte di Strasburgo ha infatti chiarito che l'ingerenza pubblica nella proprietà privata deve avvenire nel rispetto delle condizioni previste dalla legge. Ne deriva l'inammissibilità di un meccanismo che oltre a essere privo di un fondamento normativo chiaro e prevedibile, finisca per premiare l'autore dell'illecito riconoscendogli l'acquisto della proprietà (Corte Edu, 23 novembre 2000, ex re di Grecia c. Grecia; 1 marzo 2001, Malama c. Grecia).

A fronte della bocciatura dell'occupazione appropriativa da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo, il legislatore è intervento per porre rimedio alla prassi invalsa nella giurisprudenza. In tale contesto si inserisce l'aggiunta, operata dal Decreto Legislativo 27 dicembre 2002, n. 302, dell'art. 43 del d.P.R. n. 327/2001, disciplinante l'acquisizione in sanatoria. Detto istituto consentiva all'amministrazione di acquistare in sanatoria la proprietà del bene utilizzato per scopi di interesse pubblico e modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità.

Nonostante l'art. 43 fosse stato introdotto al fine di assicurare la conformità dell'ordinamento italiano alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, la giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha continuato a ravvisare delle criticità, evidenziando come detto meccanismo di acquisizione della proprietà fosse viziato in via originaria, in quanto fondato su un fatto illecito (Corte Edu, 29 marzo 2006, Scordino c. Italia; 19 ottobre 2006, Gautieri e altri c. Italia).

I rilievi critici svolti dalla giurisprudenza convenzionale sono stati sottoposti al vaglio della Corte Costituzionale. In tale occasione, la Consulta è giunta a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 43 del Testo Unico in materia di espropriazioni per eccesso di delega ex art. 76 cost. (Corte cost. n. 293/2010).

La soluzione adottata dalla Corte Costituzionale muoveva dall'assunto secondo cui la delega al Testo Unico sulle espropriazioni, contenuta nella l. n. 59/1997, consentiva il mero riordino formale delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia.

Al contrario, l'istituto dell'acquisizione sanante, proprio perché caratterizzato da una forte componente innovativa, si poneva in linea di discontinuità rispetto al previgente contesto normativo e giurisprudenziale, con conseguente violazione dell'art. 76 della nostra Carta Fondamentale (Patroni Griffi, 2).

Al fine di colmare il vuoto normativo conseguente alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 43, il legislatore, con il d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella l. n. 15 luglio 2011, n. 111, ha enucleato una nuova disciplina, confluita nell'art. 42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni.

L'espropriazione invertita nella prospettiva CEDU

L'art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001 ricomprende nel suo ambito applicativo i due vecchi istituti dell'occupazione appropriativa e dell'occupazione usurpativa, entrambe ritenute dalla Corte europea dei diritti dell'uomo violative del divieto di espropriazioni indirette.

Il provvedimento ablatorio, che interviene a valle dell'occupazione senza titolo e della conseguente irreversibile trasformazione del fondo, rappresenta il modo di acquisto della proprietà in favore dell'Autorità espropriante.

Se detta impostazione trova conferma nel dato normativo, maggiori perplessità sorgono con riguardo al titolo e, dunque, alla reale ragione giustificativa dell'acquisizione.

In altri termini si tratta di verificare se la causa sostanziale (e non solo formale) dell'acquisto trovi il proprio fondamento nell'espropriazione o se, al contrario, quest'ultima rappresenti una mera formalità, destinata a intervenire in una situazione già definita in via di fatto con l'occupazione.

L'art. 42 cost.

La disamina impone di procedere a una lettura comparata dell'art. 42, comma 3, cost., con l'art. 1, del Primo Protocollo Addizionale, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

L'art. 42, comma 3, della nostra Carta Fondamentale, collocato nel Titolo III, dedicato ai «Rapporti economici», stabilisce il principio della riserva di legge, l'obbligo dell'indennizzo e il vincolo dei motivi di interesse generale («La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale»).

Con riferimento al primo profilo, in assenza di un preciso riferimento alla qualità della legge, è pacifico che la norma costituzionale ponga una riserva relativa di legge, tale per cui il potere ablatorio deve essere attribuito direttamente dalla legge o da un atto amministrativo adottato sulla base di quest'ultima (vedi, per l'applicazione del principio della riserva di legge, l'art. 2 del T.U.Espr., secondo cui l'espropriazione può essere disposta nei soli casi previsti dalle leggi e dai regolamenti).

Quanto al secondo punto, emerge come l'art. 42, comma 3, cost., pur prevedendo l'obbligo di indennizzare la vittima del provvedimento espropriativo, non richiede anche che detta somma sia giusta, a differenza di quanto previsto dall'art. 834 c.c. («Nessuno può essere privato in tutto o in parte dei beni di sua proprietà, se non per causa di pubblico interesse, legalmente dichiarata, e contro il pagamento di una giusta indennità»).

La misura dell'indennizzo rappresenta uno degli snodi più problematici dell'istituto espropriativo.

L'obbligo di indennizzo deve essere adempiuto sia in presenza di un'espropriazione formale che sancisca la perdita della proprietà, sia a fronte di un'espropriazione sostanziale (o di valore o larvata) che ne azzeri il valore economico, imponendo un vincolo innaturale, distonico e incompatibile con le caratteristiche e la natura del bene. In quest'ultimo caso, infatti, il bene oggetto dell'espropriazione, pur restando nella formale titolarità del privato, risulta svuotato del suo contenuto.

Corollario della sostanziale equiparazione tra espropriazione piena o integrale ed espropriazione larvata è l'affermazione di un'espropriazione di nuovo conio, in quanto non più incentrata sul momento classico della traslazione, ma sul sacrificio imposto al privato.

Il terzo presupposto indefettibile del potere ablatorio è rappresentato dai motivi di interesse generale. Occorre dunque che la legge indichi le ragioni di interesse pubblico in base alle quali potrà essere disposta l'espropriazione, fermo restando il limite della proporzionalità tra l'interesse da perseguire e lo strumento prescelto.

L'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

L'istituto espropriativo delineato alla luce dei principi costituzionali ha nel tempo assunto un nuovo volto, in ragione della forte incidenza delle fonti normative di matrice sovranazionale e del conseguente obbligo di adeguamento ai vincoli internazionali (art. 117 cost.).

L'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali («Ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni. Nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale. Le disposizioni precedenti non portano pregiudizio al diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l'uso dei beni in modo conforme all'interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende») deve essere letto in combinato disposto con l'art. 6 del testo base della Convenzione, disciplinante il principio di legalità procedurale («Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile o sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti»).

Il punto nevralgico che ha dato origine a un serrato confronto tra la giurisprudenza nazionale e la Corte di Strasburgo riguarda proprio la diversa qualificazione del diritto di proprietà operata a livello sovranazionale.

Nella prospettiva convenzionale, infatti, la proprietà assume rango di diritto fondamentale. Si tratta di una scelta ben lontana dall'impostazione costituzionale e fondata sull'esigenza di valorizzare l'having come tratto qualificante del valore dell'uomo (Caringella, 708-709).

A differenza della riserva relativa di legge di cui all'art. 42, comma 3, cost., l'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo subordina l'esercizio del potere espropriativo a un principio forte di legalità sostanziale. In tale ottica, dunque, non rileva l'esistenza formale della legge, adottata secondo il metodo parlamentare, quanto piuttosto la qualità sostanziale della stessa, ben potendo trattarsi anche di una norma di matrice giurisprudenziale.

L'espropriazione può considerarsi legittima solo in presenza di una legge che fissi in modo chiaro, preciso e prevedibile i presupposti del potere, il procedimento nella buona e giusta forma, le conseguenze dell'esproprio e una piena ed efficace tutela giurisdizionale.

In ossequio al principio di legalità sostanziale di conio convenzionale è necessaria la presenza di una norma puntuale e accessibile che stabilisca i presupposti e i fini del provvedimento espropriativo, disciplini il giusto procedimento, assicuri la rapida definizione della procedura e individui la misura dell'indennizzo (Corte Edu, 30 giugno 2005, Jahn c. Germania).

In altri termini assume rilievo centrale la qualità della legge, che tuteli il diritto di proprietà onde evitare che il privato si trovi esposto al mero arbitrio della pubblica amministrazione.

A tal fine è richiesta una garanzia sostanziale, assicurata mediante la compiuta individuazione dei presupposti del potere ablatorio e, dunque, delle ragioni di interesse generale.

Ad essa si aggiunge una garanzia procedurale rappresentata dall'espletamento di un procedimento che tuteli il pieno contraddittorio e l'efficace difesa, funzionali a incidere sulle determinazioni dell'amministrazione.

In forza del principio di legalità sostanziale, l'espropriazione è legittima e idonea a giustificare l'effetto traslativo, a condizione che venga disposta all'esito di un procedimento regolato dalla legge, nel corso del quale il privato abbia avuto modo di interloquire con l'amministrazione facendo valere le proprie ragioni (Caringella, 720).

Quanto alle conseguenze dell'esproprio, assume rilievo centrale la tutela economica (garanzia patrimoniale), consistente nella corresponsione di un indennizzo pieno, comprensivo anche del pregiudizio morale (prix d'affectiòn), proprio in ragione della qualificazione della proprietà come diritto fondamentale.

Infine, con riferimento alla tutela giurisdizionale, deve essere assicurato il diritto a un ricorso effettivo prodromico all'instaurazione di un giusto processo secondo modelli di full jurisdiction (garanzia processuale).

Corollario della qualificazione della proprietà come diritto fondamentale e della lettura forte del principio di legalità è il divieto dell'espropriazione indiretta (expropriatiòn indirecte, o de fait o substantielle), considerata violazione strutturale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

Nella logica convenzionale l'espropriazione è indiretta non solo quando l'illecito abbia prodotto in via diretta l'acquisto del bene in favore della pubblica amministrazione, ma anche quando il provvedimento amministrativo intervenga a valle di un'occupazione illecita per sanarne gli effetti. In quest'ultimo caso, infatti, l'espropriazione, lungi dall'essere la causa effettiva e sostanziale della traslazione, costituisce il mero atto dichiarativo di un effetto ablativo, il quale trova la propria ragion d'essere nelle conseguenze irreversibili determinate dall'occupazione (Corte Edu, 30 ottobre 2003, Belvedere Alberghiera c. Italia; Corte Edu, 11 dicembre 2003, Carbonara-Ventura c. Italia; Corte Edu, 29 luglio 2004, Scordino c. Italia).

Il punto di equilibrio raggiunto dalla giurisprudenza costituzionale in materia di indennizzo.

Delineato l'istituto ablativo nella duplice prospettiva costituzionale e convenzionale, merita particolare attenzione la tutela economica da accordarsi alla vittima dell'espropriazione.

L'indennizzo ha da sempre rappresentato uno degli aspetti più critici della materia, tenuto conto del diverso rango che il diritto di proprietà assume sul piano sovranazionale e della conseguente capacità di resistere con maggior forza a vicende ablative o limitative.

Muovendo dalla qualificazione della proprietà come diritto fondamentale, si perviene al riconoscimento di un indennizzo pieno, esteso anche al pregiudizio morale, e riconosciuto in misura pari al valore venale del bene.

In casi eccezionali, quando sussistano ragioni di riforma economico-sociale, si ammette che l'indennizzo possa essere determinato in misura inferiore rispetto a detto parametro, purché venga assicurato un ragionevole legame con il valore del bene (adequacy).

Infine, la tutela economica deve essere accordata in un tempo ragionevole (Corte dir. uomo Zubani 7 agosto 1996; Nasotu c. Grecia 16 gennaio 2003; Scordino 29 luglio 2004; Seyhmus Yasar c. Turchia 8 novembre 2005; 17 maggio 2005; 6 marzo 2007).

Un punto di equilibrio è stato raggiunto dalla Corte Costituzionale che è pervenuta alla declaratoria di illegittimità costituzionale delle disposizioni nazionali in materia di indennizzo, nella parte in cui individuavano criteri di calcolo per l'esproprio di aree edificabili (Corte cost. n. 348 e Corte cost. 349/2007, sull'art. 37 T.U. Espr.) e non edificabili (Corte cost. n. 186/2011, sull'art. 40, commi 2 e 3, T.U. Espr.) molto lontani dal valore venale del bene.

L'indennizzo non può essere determinato in misura irrisoria o simbolica, dovendo al contrario assicurare un serio e adeguato ristoro alla vittima dell'espropriazione. Ciò in quanto il sacrificio imposto al privato in nome dell'interesse pubblico non può tradursi in una mortificazione del diritto di proprietà.

La Consulta, operando un'interpretazione conforme della Costituzione ai canoni convenzionali, ha così sanato il contrasto tra l'art. 42 della nostra Carta Fondamentale e l'art. 1 del Primo Protocollo Addizionale della Convenzione europea dei diritti dell'uomo.

L'intervento salvifico della Corte Costituzionale sull'art. 42-bis del Testo Unico Espropri.

Con la sentenza n. 71/2015 la Corte Costituzionale ha respinto le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni, sollevate in ordine agli artt. 2,3,24,42,97,113 e 117, comma 1, cost.

L'espropriazione postuma consente alla pubblica amministrazione, che abbia utilizzato senza titolo un bene privato per scopi di interesse pubblico, di acquisirlo al proprio patrimonio indisponibile, così evitando di restituirlo al proprietario.

In primo luogo, secondo la Consulta, detto istituto non violerebbe l'art. 3 cost., in quanto la differenza di trattamento tra il privato, tenuto alla restituzione del bene, e l'amministrazione, legittimata a procedere al relativo acquisto, risulterebbe giustificata dalla diversità delle funzioni («la P.A. ha una posizione di preminenza in base alla Costituzione non in quanto soggetto, ma in quanto esercita potestà specificamente ed esclusivamente attribuitele nelle forme tipiche loro proprie. In altre parole, è protetto non il soggetto, ma la funzione, ed è alle singole manifestazioni della P.A. che è assicurata efficacia per il raggiungimento dei vari fini pubblici ad essa assegnati»).

L'art. 42-bis rappresenta lo strumento con cui la pubblica amministrazione, pentendosi dell'illecito, si reimmette nel circuito della legalità dando avvio a un procedimento in contraddittorio, erogando un indennizzo pieno e adottando un provvedimento motivato circa l'assenza di alternative ragionevoli («Con l'adozione di tale atto, quest'ultima riprende a muoversi nell'alveo della legalità amministrativa, esercitando una funzione amministrativa ritenuta meritevole di tutela privilegiata, in funzione degli scopi di pubblica utilità perseguiti, sebbene emersi successivamente alla consumazione di un illecito ai danni del privato cittadino»).

In secondo luogo, si esclude la violazione anche dell'art. 42, comma 3, cost., in forza del quale il legittimo esercizio del potere espropriativo postula la sussistenza di una dichiarazione di pubblica utilità che evidenzi le ragioni di interesse pubblico. L'art. 42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni, infatti, introduce un procedimento ablatorio semplificato, che è suscettibile di inglobare sia la dichiarazione di pubblica utilità che il decreto di esproprio, sintetizzando in un unico atto l'espletamento dell'intera procedura espropriativa.

Né può ravvisarsi una censura sotto il profilo del divieto convenzionale delle espropriazioni indirette. La norma in esame, infatti, giustifica l'effetto traslativo in forza di un provvedimento ablatorio che, oltre a rappresentare il modo di acquisto della proprietà, ne costituisce il titolo. In tale prospettiva, quindi, l'illecito rappresenta solo il presupposto storico, mentre il provvedimento espropriativo trova la propria causa giuridica nella valutazione attuale degli interessi in gioco.

Ne deriva che l'atto formale intervenuto a valle non agirebbe in sanatoria, rappresentando invece il risultato di una scelta autonoma rimessa alla pubblica amministrazione. Sotto tale profilo, ai fini della legittimità costituzionale della norma, la discrezionalità amministrativa deve comunque estrinsecarsi nel rispetto dell'obbligo giuridico di far venir meno l'occupazione illecita.

A tal fine l'amministrazione è chiamata a effettuare una valutazione comparata degli interessi in conflitto più intensa rispetto a quella cui sarebbe tenuta nell'ambito di un normale procedimento espropriativo. L'atto acquisitivo sarà adottabile solo ove siano state escluse altre opzioni, inclusa la cessione volontaria, e non sia possibile la restituzione del bene, previa riduzione in pristino.

La Consulta, inoltre, prende posizione sul rapporto tra l'art. 42 -bis e il vecchio art. 43 del Testo Unico sulle espropriazioni.

Quanto al primo aspetto, il provvedimento ex art. 42-bis opera con efficacia ex nunc, con la conseguenza che l'acquisto della proprietà non retroagisce al momento dell'illecito, ma si verifica al momento dell'adozione dell'atto acquisitivo («se pure il presupposto di applicazione della norma sia «l'indebita utilizzazione dell'area» – ossia una situazione creata dalla pubblica amministrazione in carenza di potere (per la mancanza di una preventiva dichiarazione di pubblica utilità dell'opera o per l'annullamento o la perdita di efficacia di essa) – tuttavia l'adozione dell'atto acquisitivo, con effetti non retroattivi, è certamente espressione di un potere attribuito appositamente dalla norma impugnata alla stessa pubblica amministrazione).

Sotto il secondo profilo, si rileva come il riferimento al termine «indennizzo» assuma significato tecnico, idoneo a evidenziare il carattere lecito della fonte dell'obbligazione. A tale somma, forfetariamente liquidata nella misura del dieci per cento del valore venale del bene, si applica, per il periodo di occupazione senza titolo, l'interesse del cinque per cento annuo, riconosciuto a titolo risarcitorio.

Le diverse terminologie evocano la differente natura, rispettivamente lecita e illecita, dell'obbligazione gravante sulla pubblica amministrazione, con ciò dimostrando la netta scissione tra l'espropriazione legittima e l'occupazione illecita (Corte cost. n. 71/2015).

La sentenza con cui la Consulta ha salvato l'art. 42-bis dalla declaratoria di illegittimità costituzionale ha suscitato diversi dubbi circa la sua compatibilità con i canoni convenzionali, primo fra tutti il principio di legalità sostanziale.

In primo luogo, si è osservato come gli elementi innovativi introdotti dall'art. 42-bis siano inidonei a recidere il legame sostanziale esistente tra il provvedimento espropriativo e il comportamento illecito. In caso di trasformazione irreversibile, infatti, l'atto acquisitivo interviene come mera formalità, rappresentando l'unica alternativa praticabile. Il provvedimento espropriativo, dunque, finirebbe per ratificare la situazione di fatto conseguente alla condotta illecita, sino a premiare il relativo autore con l'attribuzione della proprietà.

Inoltre, nella fattispecie descritta dall'art. 42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni la dichiarazione di pubblica utilità, lungi dal consentire al privato un'effettiva partecipazione al procedimento, risulterebbe inglobata nel provvedimento di espropriazione, costituendone la motivazione.

Altro profilo che assume rilievo centrale ai fini dell'adeguamento ai vincoli internazionali riguarda il tempo. Mentre il Testo Unico con riferimento all'espropriazione ordinaria individua termini specifici per ciascuna fase della procedura, anche ai fini dell'adozione ed esecuzione del provvedimento finale, nulla prevede in tema di espropriazione invertita. Proprio l'assenza di tempi certi induce a dubitare della compatibilità dell'art. 42-bis rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dal momento che più passa il tempo, più l'espropriazione diventa inevitabile.

In definitiva, si è rilevato come tutti i requisiti enucleati dalla norma in esame, quali la ricorrenza delle ragioni di pubblica utilità, la corresponsione di un ristoro pieno (indennitario e risarcitorio) e la sussistenza di una motivazione rafforzata circa l'assenza di ragionevoli alternative, pur essendo necessari per assicurare la legalità sostanziale, non appaiano tuttavia sufficienti.

Così come non può ritenersi sufficiente l'esistenza di una legge che attribuisca alla pubblica amministrazione il potere di esproprio da esercitarsi a valle dell'occupazione illecita. Ciò in quanto l'irreversibilità delle conseguenze prodotte dal comportamento occupativo è tale da rendere l'atto acquisitivo una mera sanatoria dell'illecito (Caringella, 746 ss.).

Anche la Corte Edu sez. I, 5 dicembre 2023, Domenica Sorasio e altri c. Italia ha riconosciuto la legittimità  dell'art- 42 bis.  La Corte di Strasburgo ha, così, avuto occasione di riconoscere, seppur con un ragionamento ritagliato sul caso concreto, la satisfattività e conformità a Convenzione (art. 1, primo protocollo) del sistema normativo italiano in ragione del carattere eccezionale del provvedimento, del suo carattere on retroattivo, del risarcimento del danno da periodo precedente di occupazione e della satisfattorietà della compensazione economica sul paino patrimoniale e non patrimoniale. Ha osservato, in particolare, la Corte che, se è vero che casi precedenti riguardanti espropri di beni effettuati in assenza di una valida procedura di espropriazione, la Corte di Strasburgo ha ritenuto che la tutela debba riflettere l'idea dell'eliminazione totale delle conseguenze dell'ingerenza contestata con la restituzione del terreno ( Corte eur. diritti dell'uomo, Papamichalopoulos e altri c. Grecia, 31 ottobre 1995; 29 marzo 2006, Scordino c. Italia); tuttavia, la Corte ha anche ammesso, in determinate circostanze (ad esempio quando la restituzione non era possibile), che un risarcimento corrispondente al pieno valore del terreno alla data in cui se ne era persa la proprietà possa costituire una forma appropriata di riparazione (si veda Corte eur. diritti dell'uomo, 22 dicembre 2009, Guiso-Gallisay; 22 gennaio 2009, Stojanovski e altri c. ex Repubblica jugoslava di Macedonia);

L'inammissibilità della rinuncia abdicativa quale alternativa all'espropriazione invertita: Ad. plen. nn. 2 e 4/2020

In tempi recenti, la giurisprudenza amministrativa si è interrogata circa la possibilità di ammettere, nei casi che consentirebbero l'adozione di un provvedimento espropriativo postumo, ulteriori modalità di acquisto della proprietà, aggiuntive rispetto alla cessione volontaria.

Secondo la tesi prevalente, accolta dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, nelle ipotesi regolate dall'art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, l'illecito permanente della pubblica amministrazione è destinato a venir meno solo in conseguenza dell'acquisizione del bene o della sua restituzione, salva la possibilità di concludere un contratto traslativo tra le parti (Cons. St., Ad. plen., n. 2/2020, secondo cui per le fattispecie disciplinate dall'art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, l'illecito permanente dell'Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l'acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata; in particolare non può essere configurata, nel nostro ordinamento giuridico, una rinuncia abdicativa quale atto implicito ed implicato nella proposizione, da parte di un privato illegittimamente espropriato, della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario derivante dall'illecito permanente costituito dall'occupazione di un suolo da parte della P.A., a fronte della irreversibile trasformazione del fondo).

Alla stregua di quanto affermato dai Giudici di Palazzo Spada, deve escludersi la configurabilità di una rinuncia abdicativa quale atto implicito, ricavabile dalla proposizione della domanda di risarcimento del danno per equivalente monetario da parte del privato.

Depone in tal senso, in primo luogo, il principio di legalità che, in materia di espropriazioni, è richiamato con forza sia dal disposto costituzionale (art. 42 cost.), sia dal sistema convenzionale (art. 1, primo protocollo addizionale, della CEDU). Detto parametro impone una base legale certa, chiara e prevedibile affinché possa operare l'effetto traslativo della proprietà in capo all'Autorità espropriante.

Inoltre, si esclude che siffatto istituto possa avere cittadinanza nel nostro ordinamento giuridico, in quanto, oltre a non trovare un adeguato fondamento normativo, deriverebbe da un mero contegno processuale. La domanda risarcitoria, infatti, pur denunciando un illecito, non sarebbe in grado di esprimere una volontà univoca di rinuncia al bene.

Sotto il profilo sistematico, soccorre a favore della tesi abbracciata dal Consiglio di Stato il principio di tipicità dei casi di rinuncia ai diritti reali, dal cui novero esula la rinuncia abdicativa alla proprietà esclusiva mediante un atto unilaterale espresso e, a maggior ragione, mediante un mero comportamento processuale. Ne deriva che, in assenza di un accordo tra l'Autorità e il privato, solo l'atto formale di espropriazione, adottato all'esito di un procedimento, è idoneo a far conseguire la proprietà del bene alla mano pubblica.

Dai rilievi svolti dal Supremo Consesso amministrativo si ricava che anche ove si ammettesse l'effetto abdicativo della rinuncia, quale è la perdita della proprietà, non potrebbe comunque pervenirsi all'affermazione di un effetto traslativo in favore dell'Autorità espropriante. L'art. 827 c.c. stabilisce che i beni immobili che non sono in proprietà di alcuno spettino al patrimonio dello Stato. Tuttavia, l'acquisto a titolo originario opererebbe in favore dello Stato e non in capo all'Autorità espropriante, attuale occupante, che rimarrebbe pertanto estranea alla vicenda traslativa.

Nessuna norma inoltre conferisce al privato il diritto potestativo di determinare l'attribuzione della proprietà in favore della pubblica amministrazione. Per converso, l'art. 42-bisdel d.P.R. n. 327/2001 attribuisce in via esclusiva alla stessa la scelta tra l'acquisizione del bene e la sua restituzione. Pertanto, in sede di giurisdizione di legittimità, né il giudice amministrativo né il soggetto espropriato possono sostituire le proprie valutazioni a quelle che la norma in esame riserva alla discrezionalità dell'Autorità espropriante. L'istituto dell'espropriazione invertita evoca una concezione di potere-dovere, tale per cui la pubblica amministrazione è tenuta a valutare l'opportunità di acquisire il bene o restituirlo al privato secondo una logica di doverosità della funzione autoritativa, coerente con i principi di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 cost.

In caso di inerzia dell'amministrazione e di ricorso avverso il silenzio ex art. 117 c.p.a., il giudice può nominare, già in sede di cognizione, un commissario ad acta che provvederà a esercitare i poteri di cui all'art. 42-bis del Testo Unico sulle espropriazioni o nel senso della acquisizione dell'immobile o nel senso della sua restituzione. Nel caso in cui il privato agisca invece per la tutela, restitutoria o risarcitoria, prevista dal Codice civile, il giudice sarà chiamato a pronunciarsi tenuto conto del carattere doveroso della funzione assegnata dall'art. 42-bis alla pubblica amministrazione.

Né può giungersi a una diversa soluzione facendo leva sulla trascrivibilità della sentenza di condanna al risarcimento del danno e, quindi della rinuncia abdicativa implicita a favore dell'Autorità espropriante. In assenza di un provvedimento formale, infatti, mancherebbe la forma scritta richiesta dall'art. 1350, comma 1, n. 5) c.c. per gli atti di rinuncia relativi ai beni immobili, e necessaria per procedere alla trascrizione ex art. 2643, comma 1, n. 5), c.c. Sotto altro profilo, si è osservato come ai fini della trascrivibilità è necessario che l'atto sia di per sé idoneo a determinare l'effetto traslativo in capo all'Autorità espropriante, effetto che, in ossequio al principio consensualistico e al divieto di arricchimento ingiusto, non può essere desunto da una domanda risarcitoria stante l'assenza della manifestazione della volontà amministrativa.

Il Consiglio di Stato giunge a negare che il privato possa agire per il risarcimento del danno prima che sia stato adottato il formale provvedimento di esproprio. Ciò in quanto la tutela risarcitoria implica l'effettiva perdita della proprietà ed è incompatibile con la permanenza di tale diritto in capo al privato. Ne deriva che fino a quando l'amministrazione non decida nel senso dell'acquisizione del bene o della sua restituzione, al privato si impone di mantenere la proprietà.

Con riferimento al versante processuale, si ammette la formulazione di istanze di tutela coerenti con il quadro normativo e giurisprudenziale vigente al momento della decisione della causa in appello, quali la conversione della domanda, la rimessione in termini per errore scusabile ai sensi dell'art. 37 del Codice del processo amministrativo o l'invito alla precisazione della domanda, previa sottoposizione della relativa questione processuale al contraddittorio delle parti ex art. 73, comma 3, del Codice del processo amministrativo. Ciò al fine di evitare che la vittima dell'illecito, che abbia proposto, nel giudizio di primo grado, la domanda in base alle coordinate legislative e pretorie allora esistenti, rimanga priva di tutela (Cons. St., Ad. plen., nn. 2/2020 e 4/2020).

Critiche dottrinali alla tesi contraria alla rinuncia abdicativa e ricostruzioni alternative.

Diversi sono stati i rilievi critici svolti in dottrina con riguardo alla tesi dell'Adunanza Plenaria (Cons. St., Ad. plen., nn. 2 e 4/2020) che ha negato la configurabilità della rinuncia abdicativa.

In primo luogo, la soluzione adottata dal Supremo Consesso amministrativo stride con lo statuto unitario della proprietà. Si è osservato che se è pacifica la rinuncia abdicativa con riguardo agli altri diritti reali, le stesse considerazioni dovrebbero valere anche per la proprietà.

In secondo luogo, detta impostazione comporta anche un'eterogenesi dei fini, dal momento che la ratio della riserva di legge costituzionale e del principio di legalità convenzionale mira a tutelare il diritto di proprietà e non già a menomarne l'esercizio. Emerge dunque l'assurdità di un'interpretazione siffatta in quanto riduttiva della portata delle garanzie poste a presidio del diritto di proprietà.

Inoltre, alla luce di un argomento di ordine costituzionale, deve essere rimarcata la funzione sociale della proprietà (art. 42, comma 2, cost.) che implica la coerenza tra la titolarità formale e la titolarità sostanziale. In altri termini, se il bene è asservito a una funzione di interesse generale, esso deve essere di proprietà pubblica.

A ciò si aggiunga che, in applicazione delle riflessioni svolte dall'analisi economica del diritto, il bene deve appartenere al soggetto che meglio riesca a valorizzarne il significato economico, facendolo fruttare anche a beneficio della collettività.

Anche laddove si ritenessero insuperabili le obiezioni rivolte alla configurabilità della rinuncia abdicativa e fatte proprie dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, continuerebbe a destare forti perplessità la soluzione atta a negare la possibilità di agire per il risarcimento del danno.

Ad avviso del Consiglio di Stato, il privato può solo chiedere alla pubblica amministrazione di scegliere tra l'acquisizione del bene e la sua restituzione, in applicazione dell'art. 42-bisdel d.P.R. n. 327/2001. In caso di inerzia dell'amministrazione e di ricorso avverso il silenzio, il giudice amministrativo potrà nominare un commissario ad acta. Si aprirebbe così un nuovo procedimento amministrativo, destinato all'individuazione della scelta tra i due possibili rimedi, con la conseguenza che, in caso di ulteriore inerzia, si instaurerebbe una nuova fase giudiziale (Bona, Pardolesi, 169 ss.).

Forti sono le critiche dottrinali alla costruzione giurisprudenziale fin qui esposta.

A livello costituzionale, si osserva come la proprietà sia un diritto, la cui lesione impone una tutela che è il risarcimento del danno, ove la restituzione non sia più possibile. In ossequio agli artt. 42, comma 2, 103 e 113 della nostra Carta Fondamentale, alla vittima di un illecito devono pertanto essere assicurare adeguate e rapide forme di ristoro.

Quanto all'argomento di ispirazione convenzionale, la Corte europea dei diritti dell'uomo ha più volte chiarito che il concetto di perdita della proprietà deve essere esteso, oltre ai casi in cui il privato perda la titolarità formale del bene, anche alle ipotesi in cui la pubblica amministrazione ne impedisca il potere di utilizzo, così privando il soggetto della titolarità sostanziale. Ne deriva che il proprietario viene spogliato del suo diritto dominicale, anche quando il comportamento della pubblica amministrazione sia tale da privare il bene del relativo valore economico.

Sul versante processuale, inoltre, posto che il privato non può agire per il risarcimento del danno fino a quando la pubblica amministrazione non abbia esercitato il potere discrezionale cui è preposta, l'art. 42-bis finirebbe per tradursi in un mero presupposto ai fini dell'azionabilità della tutela del privato dinnanzi al giudice ordinario. In tal modo si assisterebbe a un'inversione delle logiche del processo, con la conseguente trasformazione di un interesse oppositivo in un interesse pretensivo.

Infine, da un punto di vista sistematico, emerge come in presenza di un illecito occupativo, spetta alla vittima la scelta tra la restituzione del bene e il risarcimento del danno. Sul punto può farsi riferimento agli artt. 936 («Quando le piantagioni, costruzioni od opere sono state fatte da un terzo con suoi materiali, il proprietario del fondo ha diritto di ritenerle o di obbligare colui che le ha fatte a levarle. Se il proprietario preferisce di ritenerle, deve pagare a sua scelta il valore dei materiali e il prezzo della mano d'opera oppure l'aumento di valore recato al fondo. Se il proprietario del fondo domanda che siano tolte, esse devono togliersi a spese di colui che le ha fatte. Questi può inoltre essere condannato al risarcimento dei danni. Il proprietario non può obbligare il terzo a togliere le piantagioni, costruzioni ed opere, quando sono state fatte a sua scienza e senza opposizione o quando sono state fatte dal terzo in buona fede. La rimozione non può essere domandata trascorsi sei mesi dal giorno in cui il proprietario ha avuto notizia dell'incorporazione») e 938 («Se nella costruzione di un edificio si occupa in buona fede una porzione del fondo attiguo, e il proprietario di questo non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui ebbe inizio la costruzione, l'autorità giudiziaria, tenuto conto delle circostanze, può attribuire al costruttore la proprietà dell'edificio e del suolo occupato. Il costruttore è tenuto a pagare al proprietario del suolo il doppio del valore della superficie occupata, oltre il risarcimento dei danni») del Codice civile (Bona, Pardolesi, 169 ss.).

Ne deriva che, al pari di un soggetto privato, anche la pubblica amministrazione è tenuta alla restituzione dell'immobile che abbia occupato in assenza di un titolo. Trattasi della «property rule», destinata a operare tutte le volte in cui manchi un apposito precetto normativo.

In dottrina si sono registrati alcuni tentativi volti a individuare una soluzione alternativa, funzionale ad assicurare al privato un'adeguata e rapida tutela.

Si è osservato che, a prescindere dall'ammissibilità di una rinuncia abdicativa implicita, a fronte della violazione del diritto, al privato compete in ogni caso l'azione di restituzione, reale (art. 948 c.c.) o personale (art. 2043-2058 c.c.), oltre al risarcimento del danno. Solo in tal modo verrebbe assicurata al soggetto, vittima di un illecito in corso, una protezione adeguata ed effettiva del suo diritto di proprietà.

Dal canto suo, l'Autorità espropriante, pur a fronte dell'istanza di tutela formulata dal privato, potrà adottare il provvedimento ex art. 42-bis del d.P.R. n. 327/2001, così rimanendo libera di valutare gli interessi in conflitto e l'opportunità dell'acquisizione del bene alla mano pubblica (Bona, Pardolesi, 169 ss.).

La Corte di Cassazione, Sez. I, del 6 giugno 2022 (nn. 18142, 18143, 18167, 18168) non ha , in effetti, condiviso la posizione della Plenaria,  rilevando che  l'esclusione della rinuncia abdicativa nelle ipotesi di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione rappresenta un grave vulnus per il diritto di proprietà del privato:   l'Adunanza Plenaria, escludendo la possibilità per il privato di azionare i rimedi civilistici comuni, in sostanza ha ravvisato una “modalità conformativa della proprietà privata rimessa all'autorità amministrativa alla quale soltanto sarebbe riservata, ai sensi dell'art. 42 bis., la decisione di acquisire la proprietà dell'immobile, previo pagamento dell'indennizzo, o di restituirlo previa rimessione allo stato pristino, salva la residua possibilità per il privato di reagire introducendo un giudizio, con esito incerto e dilatato nel tempo, al solo fine di compulsare la stessa autorità ad assumere detta decisione”. Secondo la Corte l'adesione all'impostazione della giurisprudenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato implica l'esposizione del proprietario danneggiato ai rischi insiti nella titolarità del bene in una situazione determinata dal comportamento illecito dell'autorità amministrativa; il proprietario, di fatto, verrebbe privato della possibilità di avvalersi del rimedio principale per far cessare immediatamente la prosecuzione degli effetti dell'illecito, ossia la rinuncia forzosa alla proprietà (soluzione alternativa alla richiesta di restituzione del bene previa rimessione in pristino se concretamente praticabile).  Il proprietario vittima del comportamento illecito dell'amministrazione ha il diritto di domandare in giudizio il risarcimento del danno, non solo, per la perdita del godimento nel periodo considerato (occupazione illegittima), ma anche per la perdita commisurata all'integrale valore del bene, alla cui titolarità il proprietario ha implicitamente (seppur forzosamente) rinunciato proponendo la domanda risarcitoria per equivalente. A sostegno della propria posizione la Suprema Corte richiama anche l'orientamento della dottrina (per lo più gius-privatistica) secondo la quale non vi sono ostacoli logici e giuridici a che il proprietario - fintanto che la pubblica amministrazione non abbia esercitato il potere di acquisizione sanante - possa chiedere in giudizio e ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del bene coattivamente trasferito in capo all'autore della lesione. Conf.  Cassazione civile sez. I - 30/03/2023, n. 8958, secondo cui il proprietario, che abbia implicitamente rinunciato alla proprietà del bene proponendo domanda risarcitoria per equivalente, in ipotesi di occupazione acquisitiva, ha diritto all'integrale ristoro del danno, che ricomprende non solo la perdita del godimento del bene nel periodo di occupazione illegittima, ma anche quella relativa all'integrale valore dello stesso, ciò perché una sottintesa conformazione della proprietà privata non è desumibile dal D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42-bis, il cui disposto, fino a quando non venga esercitato dalla pubblica amministrazione il relativo potere acquisitivo, non è idoneo a paralizzare i comuni rimedi civilistici attribuiti dall'ordinamento al proprietario. (Nella specie, il tribunale ha chiaramente interpretato la proposizione della domanda risarcitoria per equivalente, in termini di rinuncia implicita alla proprietà del compendio immobiliare, con il conseguente diritto dell'istante all'integrale ristoro del danno). 

Questioni applicative.

1) La giurisdizione delle obbligazioni patrimoniali conseguenti all'art. 42-bis competono tutte al giudice ordinario?

Secondo Cass. S.U., n. 20691/2021 , sono devolute al giudice ordinario e alla corte di appello, in unico grado, secondo una regola generale dell'ordinamento di settore per la determinazione giudiziale delle indennità espropriative, le controversie sulla determinazione e corresponsione dell'indennizzo dovuto per l'acquisizione del bene utilizzato dall'autorità amministrativa per scopi di pubblica utilità ex art. 42 -bis t.u. del 2001, in considerazione della natura intrinsecamente indennitaria del credito vantato dal proprietario del bene e globalmente inteso dal legislatore, come un «unicum» non scomponibile nelle diverse voci, con l'effetto non consentito di attribuire una diversa e autonoma natura e funzione a ciascuna di esse; di conseguenza, l'attribuzione di una somma forfettariamente determinata a «titolo risarcitorio» (pari all'interesse del cinque per cento annuo sul valore venale del bene, a norma del comma 3 dell'art. 42-bis) vale unicamente a far luce sulla genesi di uno degli elementi (il mancato godimento del bene per essere il cespite occupato «senza titolo» dall'amministrazione) che vengono in considerazione per la determinazione dell'indennizzo in favore del proprietario, il quale non fa valere una duplice legittimazione, cioè di soggetto avente titolo ora a un «indennizzo» (quando agisce per il pregiudizio patrimoniale, e non patrimoniale, conseguente alla perdita della proprietà del bene), ora a un «risarcimento» di un danno scaturito da un comportamento originariamente contra jus dell'amministrazione; appartengono invece alla giurisdizione del giudice amministrativo le controversie nelle quali sia dedotta la illegittimità in sé del provvedimento di acquisizione, per insussistenza dei requisiti previsti dalla legge, anche ai fini della valutazione delle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione, in relazione ai contrapposti interessi privati e all'assenza di ragionevoli alternative alla sua adozione.

Secondo la Suprema Corte, la ricostruzione in termini indennitari e le modalità di determinazione dell'indennizzo, anche per la pregressa occupazione illegittima del bene, nel procedimento di cui all'art. 29 d.lgs. n. 150/2011, dinanzi alla corte d'appello, in unico grado di merito, non sono suscettibili di arrecare un deficit di tutela né per l'amministrazione, per esserle preclusa la introduzione di azioni di rivalsa nei confronti di terzi, nell'ipotesi di concorso di più enti nella realizzazione dell'opera pubblica, trattandosi di una limitazione coerente con la natura del procedimento, ferma restando la facoltà di rivalersi in separato giudizio ordinario sul soggetto corresponsabile della pregressa occupazione illegittima; né per il privato, per essergli consentito di agire nei confronti della sola autorità che utilizza il bene immobile per scopi di interesse pubblico, essendo tale autorità, cui è affidato il pagamento dell'indennità, il suo creditore, né essendo precluso al privato di avviare un autonomo giudizio di danno, a tutela dei suoi diritti, per il periodo di occupazione illegittima, prima dell'adozione del provvedimento di cui all'art. 42-bis da parte della pubblica amministrazione. La qualificazione in termini indennitari dell'indennizzo per la pregressa occupazione «senza titolo», nella misura del cinque per cento annuo sul valore venale del bene all'attualità, non è foriera di un deficit di tutela per le parti, avendo il legislatore previsto una clausola di salvaguardia che fa salva la prova di una diversa entità del danno, la cui applicazione è rimessa all'incensurabile valutazione del giudice di merito, il quale può modulare l'importo determinato dal legislatore in via forfettaria – in melius o in pejus – in sintonia con le istanze e le prove offerte dalle parti nel caso concreto.

2) Può il commissario ad acta sostituire la pubblica amministrazione nell'adozione del provvedimento ex art. 42-bis?

La giurisprudenza è stata anche chiamata a verificare se, in sede di giudizio di ottemperanza per l'esecuzione di un giudicato di annullamento di una procedura espropriativa o di un giudicato restitutorio, il giudice amministrativo dell'esecuzione possa imporre alla P.A. l'adozione di un provvedimento di acquisto in sanatoria ex art. 42 -bis.

L'emersione di una pluralità di soluzioni ha implicato la devoluzione all'Adunanza Plenaria, che ha preso posizione con la decisione 9 febbraio 2016, n. 2.

Nel fornire risposta al quesito in esame, i Giudici di Palazzo Spada hanno rifuggito da qualsivoglia automatismo applicativo, chiarendo invece che le soluzioni concretamente percorribili mutano a seconda della natura del giudicato amministrativo che viene in rilievo nelle diverse fattispecie concrete.

è, infatti, la natura del giudicato a veicolare la natura dei poteri della P.A. e del commissario ad acta in sede di esecuzione del dictum giudiziale.

Pertanto, in presenza di un giudicato espressamente restitutorio , che obblighi l'Amministrazione procedente alla riconsegna del bene illegittimamente ablato, né l'Amministrazione né il commissario ad acta possono adottare il provvedimento acquisitivo. Tanto si desume implicitamente dalla previsione del comma 2 dell'art. 42-bis nella parte in cui consente all'autorità di adottare il provvedimento durante la pendenza del giudizio avente ad oggetto l'annullamento della procedura ablatoria (ovvero nel corso del successivo eventuale giudizio di ottemperanza), ma non oltre, e quindi dopo che si sia formato un eventuale giudicato non soltanto cassatorio ma anche esplicitamente restitutori.

Il commissario ad acta è del pari impedito nell'adozione dell'atto acquisitivo nell'ipotesi in cui il giudicato sia di natura esclusivamente caducatoria, limitato all'annullamento della procedura espropriativa: in situazioni di tal fatta, invero, la restituzione del bene costituisce normale conseguenza dell'effetto conformativo del giudicato di annullamento. L'adozione del provvedimento di cui all'art. 42-bis, pur ammessa in modo espresso da tale ultima norma, è infatti esercizio di un potere di amministrazione attiva non precluso dal giudicato (e, quindi, consentito alla P.A.), non certo attuazione, possibile per il commissario, dell'obbligo derivante dal giudicato.

L'adozione del provvedimento è invece possibile, e anzi doverosa, nell'ipotesi in cui la sentenza passata in giudicato ponga espressamente, in via esclusiva o alternativa rispetto ad altre prescrizioni, l'obbligo puntuale per la P.A. di determinarsi ex art. 42 -bis.

Va peraltro precisato che il potere di condanna del giudice, in fattispecie di tal fatta, incontra il limite invalicabile di cui all'art. 34, comma 1, lett. c, e, comma 2, c.p.a, che inibisce al giudice il potere di condannare la P.A. all'adozione di provvedimenti discrezionali e di esprimersi in ordine a poteri amministrativi non ancora esercitati.

È, invece, possibile che il giudice amministrativo, adito in sede di cognizione, condanni l'Amministrazione, nell'ambito di un giudizio sul silenzioexart. 31 e 117 c.p.a, a dare una risposta all'istanza di parte, definendo il procedimento ex art. 42-bis. Vista la natura discrezionale della determinazione omessa, la condanna deve essere generica e il procedimento ad esito libero, riservato esclusivamente alle valutazioni discrezionali e infungibili della P.A. in ordine all'acquisizione o meno del bene illegittimamente occupato.

Né, in caso di perdurante inerzia della P.A. condannata, l'eventuale determinazione suppletiva assunta del commissario ad acta in sede di ottemperanza comporterebbe un'indebita ingerenza nelle prerogative della P.A. procedente. Sul punto, invero, la Plenaria rammenta che l'effettività della tutela giurisdizionale e il carattere poliforme del giudicato amministrativo, impongono di darvi esecuzione secondo buona fede e senza che sia frustrata la legittima aspettativa del privato alla definizione stabile del contenzioso e del contesto procedimentale: in tali casi, la totale inerzia dell'autorità o l'attività elusiva di carattere soprassessorio posta in essere da quest'ultima, consentiranno al giudice adito in sede di ottemperanza di intervenire, secondo lo schema disegnato dagli art. 112 e ss. c.p.a., direttamente o (più normalmente) di nominare un commissario ad acta che procederà, nel rispetto delle prescrizioni e dei limiti prima illustrati, a valutare se esistono le eccezionali condizioni legittimanti l'acquisizione coattiva del bene ex art. 42-bis.

Occorre precisare, come palesato dall'Adunanza Plenaria 25 maggio 2021, n. 8 , che la nomina del Commissario ad acta in sede di ottemperanza non esclude la competenza concorrente della Pubblica Amministrazione surrogata.

3) Si può imporre, tramite l'istituto di cui all'art. 42-bis T.u. Espr., una servitù di passaggio in caso di giudicato restitutorio civile?

Il Consiglio di Stato, Ad. plen. 18 febbraio 2020, n. 5, ha affermato il principio secondo cui il giudicato amministrativo o civile, inerente all'obbligo di restituire un'area al proprietario da parte dell'Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l'emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42-bis, comma 6, d.P.R. n. 327/2001, poiché quest'ultimo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.

Secondo il Supremo Consesso di Palazzo Spada, l'effetto preclusivo, in quanto derivante, come si è detto, da un'espressa condanna alla restituzione del bene, si realizza con riguardo al provvedimento ex art. 42-bis, comma 2, comportante l'acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica (in particolare, al patrimonio indisponibile della medesima) e non può, quindi, inibire anche l'adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6. Quanto a questo secondo aspetto, la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi determinati dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).

Appare, dunque, evidente come, se oggetto del petitum è il recupero del bene alla piena proprietà e disponibilità del soggetto privato originariamente proprietario, non rientra nell'ambito oggettivo del giudicato, e dunque non si pone in contrasto con lo stesso, un provvedimento che, senza incidere sulla titolarità del bene, imponga sullo stesso ex novo (e, quindi, ex nunc ) una servitù, trattandosi di ipotesi affatto diversa da quella inibita dal giudicato e assolutamente coerente con, e anzi presupponente, il mantenimento della proprietà in capo al privato.

A tali fini, si osserva per completezza, che il comma 6 dell'art. 42 -bis (in base al quale «le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro diritto reale») non va interpretato solo nel ristretto senso di consentire all'amministrazione l'emanazione di un provvedimento quando «è stata» imposta una servitù, poi venuta meno. Deve, invece, ritenersi che, una volta venuto meno il titolo di proprietà del bene (o di sua legittima disponibilità), la pubblica amministrazione, alla quale è riconosciuto il potere di avvalersi dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, in considerazione di quanto «modificato» sul bene appreso per la realizzazione dell'opera pubblica, può limitare l'esercizio del potere, e, quindi, procedere con limitazioni parziali delle facoltà e/o dei poteri connessi al diritto reale del privato, e, dunque, emanare decreti di imposizione di servitù, in luogo della piena acquisizione del bene medesimo (con corrispondente perdita dell'altrui diritto di proprietà).

Non solo ciò risulta «inferiore» negli effetti a quanto la norma consentirebbe, ma è anche coerente con il principio secondo il quale l'azione amministrativa deve comportare il minor sacrificio possibile delle posizioni giuridiche dei privati, in relazione all'obiettivo di interesse pubblico perseguito ed al suo concreto conseguimento.

4) È configurabile un giudicato implicito sull'occupazione appropriativa con effetti negativi sulla tutela del privato (Cons. St., Ad. plen., n. 6/2021)?

La tutela del privato vittima di occupazione illecita è resa ancora più impervia dal principio affermato da Cons. St., Ad. plen. 9 aprile 2021, n.6, secondo cui, in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l'equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione – formatosi su una sentenza irrevocabile contenente l'accertamento del perfezionamento, ratione temporis , della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva – alle parti e ai loro eredi o aventi causa è precluso il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, sia dell'azione (di natura personale e obbligatoria) di risarcimento del danno in forma specifica attraverso la restituzione del bene previa rimessione in pristino, sia dell'azione (di natura reale, petitoria e reipersecutoria) di rivendicazione, sia dell'azione ex artt. 31 e 117 c.p.a. avverso il silenzio serbato dall'amministrazione sull'istanza di provvedere ai sensi dell'art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001).

La Cassazione, aderendo alla tesi del giudicato implicito, ha infatti ritenuto che, ai fini della produzione di tale effetto preclusivo, non è necessario che la sentenza passata in giudicato contenga un'espressa e formale statuizione sul trasferimento del bene in favore dell'amministrazione, essendo sufficiente che, sulla base di un'interpretazione logico-sistematica della parte-motiva in combinazione con la parte-dispositiva della sentenza, nel caso concreto si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie della cd. occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto».

Va peraltro soggiunto che, secondo CGA, IV Sez., 19 febbraio 2021, n. 125 , il privato ha titolo a ottenere dalla P.A. espropriante le necessarie trascrizioni onde rendere conoscibile e opponibile a terzi l'intervenuto passaggio di proprietà ed evitare i fastidi derivanti – in termini di pagamento tasse, formulazione dichiarazione redditi, e quant'altro – dalla condizione apparente per cui il bene in oggetto figurerebbe ancora nel compendio di pertinenza del privato espropriato; a tale risultato si può pervenire mediante accordo ricognitivo dell'avvenuto trasferimento della proprietà in virtù dei giudicati civili, ovvero mediante un decreto di esproprio (ora per allora), ovvero ancora attraverso un provvedimento ex art. 42-bis T.U. espr. (con esclusione di qualsiasi corresponsione di somme o indennità di sorta, ove la questione economica sia stata definita con i giudicati civili che abbiano riconosciuto al privato il diritto al risarcimento del danno per la perdita della proprietà degli immobili).

5) C'è spazio per l'ulteriore alternativa dell'usucapione?

Ciò posto per la rinuncia abdicativa, in giurisprudenza ci si è chiesti anche se sia fatta salva, in ogni caso, la possibilità, per la P.A., di usucapire il bene illegittimamente occupato. Ci si domanda, cioè, se l'usucapione possa rappresentare una ragionevole alternativa all'art. 42 -bis, anche in considerazione delle difficoltà che obiettivamente gli enti pubblici potrebbero incontrare, in sede di applicazione della nuova disciplina, laddove si trovassero nella situazione di giustificare, dal punto di vista erariale, una spesa per espropri non eseguiti.

Secondo un primo orientamento, il T.U. Espr. non escluderebbe la possibilità che la Pubblica Amministrazione acquisti il bene occupato per usucapione, in presenza dei presupposti e requisiti di cui all'art. 1158 c.c. e tanto sia per le vecchie occupazioni usurpative pure (in questo caso il termine per l'usucapione decorre dall'inizio del possesso); sia per il caso dell'occupazione che nasce legittima ex art. 22-bis (per il possesso posteriore alla scadenza del periodo di occupazione autorizzata quinquennale, con l'integrazione dell'interversione del possesso ex art. 1141, comma 2, c.c.); che per quello dell'annullamento giurisdizionale dell'espropriazione (in virtù della retroattività dell'annullamento, il possesso utile inizia a decorrere dall'immissione in possesso in virtù del decreto poi annullato).

In tutti questi casi, il giudice amministrativo, chiamato a pronunciarsi sull'azione restitutoria, potrebbe quindi esaminare l'eccezione di avvenuta usucapione.

Onde evitare che l'usucapione si traduca in un'espropriazione indiretta è necessario, secondo questo approccio, che la condotta sia non violenta e che sia possibile, per la prescrizione acquisitiva, individuare il momento dell' interversio possessionis, concretizzantesi in un'effettiva attività indirizzata al proprietario-possessore, da questi percepibile in modo di consentirgli di reagire al possesso dell'amministrazione e recuperare il bene.

Una soluzione di tal fatta, peraltro, consentirebbe alla P.A. espropriante un rilevante risparmio di spesa, dovendosi risarcire all'originario proprietario del bene usucapito solo il danno non patrimoniale da mancato utilizzo per il ventennio.

Va soggiunto che l'acquisto della proprietà per usucapione da parte della P.A. cancellerebbe sia la pretesa restitutoria da parte del privato che quella risarcitoria, in quanto l'istituto dell'usucapione opera ex tunc, coprendo cioè anche il periodo di occupazione illegittima, che pertanto non andrebbe risarcito (cioè verrebbe meno ab origine il connotato di illiceità del comportamento della P.A. che occupava sine titulo il bene poi usucapito).

Con riferimento ai rapporti tra usucapione e giurisdizione l'indirizzo in esame specifica che deve ritenersi che il Giudice amministrativo possa esaminare ai sensi dell'art. 8 C.P.A. l'eccezione (di tipo riconvenzionale) di usucapione avanzata in via incidentale dall'Amministrazione, trattandosi di una questione incidentale relativa a diritti la cui risoluzione è necessaria per pronunciare sulla questione principale.

Al giudice ordinario, per contro, sono devolute tutte le controversie relative all'accertamento del possesso ventennale ininterrotto, necessario per l'usucapione in quanto ove l'interesse dei ricorrenti fosse da correlarsi unicamente al dedotto diritto di proprietà, derivante dall'acquisto a titolo originario per intervenuta usucapione, sulla controversia deve pronunciarsi il giudice ordinario. Nel caso in cui l'amministrazione resistente proponga, quindi, non una mera eccezione, ma una vera e propria domanda riconvenzionale, il giudice amministrativo dovrebbe declinare la giurisdizione in favore del giudice ordinario, stante il noto principio dell'inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione (Cass. S.U., n. 9185 /2012).

L'orientamento giurisprudenziale sin qui ricostruito non convince.

Numerosi e insuperabili sono infatti gli aspetti di criticità.

Esso, invero, appare in contrasto con la stessa previsione di cui all'art. 42-bis T.U., che descrive un'unica modalità – a parte il contratto o l'accordo – con cui la P.A. può acquistare un bene occupato illegittimamente.

È poi contrario alla ratio legis della norma in questione prevedere che l'Amministrazione, che si sia impossessata illegittimamente di un bene immobile privato, possa usucapirlo: ciò appare senz'altro incompatibile con i principi enunciati dalla CEDU sopra riportati, in quanto, senza la necessaria base legale e l'indispensabile provvedimento formale, si risolve nell'inammissibile creazione di una forma di espropriazione indiretta (aggravata dal protrarsi nel tempo dell'illecito possessorio) per effetto della quale la pubblica amministrazione acquista la proprietà del bene grazie a una condotta illecita protrattasi nel tempo. Verrebbe in gioco un'espropriazione larvata, senza le necessarie garanzie CEDU, per non parlare della connotazione violenta della condotta occupativa, se l'alterazione dello stato di fatto è avvenuta contro la volontà, anche solo presunta, dell'originario possessore.

Infine, l'effetto retroattivo dell'usucapione paralizzerebbe qualsiasi tutela del privato, anche risarcitoria, provocando un vulnus ingiustificato al suo diritto di proprietà, in quanto determina la perdita dell'iniziale connotazione di illiceità.

In definitiva, secondo queste critiche, in assenza di accordi o contratti anche transattivi, il provvedimento ex art 42 -bis è l'atto esclusivo che giustifica l'acquisto da parte della p.a., non surrogabile con la rinuncia e neanche con l'usucapione.

Tali rilievi critici hanno fatto breccia anche in giurisprudenza, che nelle ultime espressioni ha escluso che i beni illecitamente occupati dall'Amministrazione siano dalla stessa usucapibili: invero, predicare che l'apprensione materiale del bene da parte dell'Amministrazione al di fuori di una legittima procedura espropriativa o di un procedimento sanante (art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001) possa essere qualificata idonea ad integrare il requisito del possesso utile ai fini dell'acquisto per usucapione, rischierebbe di reintrodurre nell'ordinamento interno forme di espropriazione indiretta o larvata, peraltro non onerose per l'Amministrazione, dal momento che la c.d. retroattività reale dell'usucapione estinguerebbe anche ogni pretesa risarcitoria. Tanto, secondo i Giudici di Palazzo Spada (Cons. St. IV, n. 5430/2020), sia alla luce dell'ampia nozione di violenza del possesso elaborata dalla giurisprudenza laddove si è sostenuta la presunzione di volontà contraria del possessore ove manchi la prova di una manifestazione univoca di consenso, quanto soprattutto in relazione alla assai dubbia compatibilità con l'art. 1 del protocollo Addizionale della CEDU.

(6) Qual è il soggetto obbligato, ex latere debitoris, a rifondere il privato del danno patito a causa dell'occupazione illegittima dell'immobile.

Cons. Stato,  IV, 2 novembre 2022, n. 9483  si pone in linea di continuità con l'orientamento più recente sviluppatosi in tema di (perdurante) occupazione sine titulo, distinguendosi altresì per una interessante precisazione relativa all'individuazione dei soggetti chiamati a rispondere, a titolo di responsabilità civile, per il danno da occupazione illegittima. La decisione si lascia apprezzare perché si colloca nel nuovo corso giurisprudenziale e normativo, inaugurato dalla celebre sentenza Scordino (Corte edu, Grande Camera, 6 marzo 2007), che ha reimpostato il problema dell'occupazione illegittima, giungendo a una riperimetrazione delle vie di fuga dall'illegalità percorribili dall'amministrazione.  Seguendo il prontuario rimediale già delineato dall'Adunanza Plenaria nel 2020, il collegio puntualizza, altresì, quale sia la tutela offerta dall'ordinamento al privato tutte le volte in cui l'amministrazione perduri nell'occupare abusivamente il suolo altrui. Il privato potrà senz'altro formulare la domanda di risarcimento del danno così come potrà proporre la domanda di restituzione del bene abusivamente occupato. Potrà sollecitare, poi, la pubblica amministrazione a valutare l'esercizio del potere discrezionale conferitole dell'art. 42bis T.u. espr. Potrà esperire, inoltre, l'azione avverso il silenzio, ex art. 117 c.p.a., chiedendo al g.a. la nomina di un commissario ad acta che, in luogo dell'amministrazione, esprima la scelta discrezionale - riservata alla stessa p.a. - circa la restituzione del bene o l'acquisizione sanante, alla stregua dell'art. 42-bis T.u. espr. Resta preclusa, invece, al privato la possibilità di sostituire le proprie valutazioni circa le sorti del bene occupato illegittimamente a quelle spettanti, ex lege, alla pubblica amministrazione; del pari, è negato al g.a., in sede di giurisdizione di legittimità, il potere di sostituirsi all'amministrazione e ingerirsi nell'affare pubblico, scegliendo in prima persona se optare per la restituzione o per l'acquisizione sanante.

La sentenza si lascia apprezzare, tuttavia, anche per un'altra ragione, perché mette a fuoco il soggetto obbligato, ex latere debitoris, a rifondere il privato del danno patito a causa dell'occupazione illegittima dell'immobile.

Nella specie, la responsabilità civile, di cui all'art. 2043 c.c., va imputata solidalmente sia all'amministrazione che al soggetto delegato all'espropriazione. A norma dell'art. 3 T.u. espr. si definisce “autorità espropriante”, infatti, l'autorità amministrativa titolare del potere di espropriare e che cura il relativo procedimento, ovvero il soggetto privato, al quale sia stato attributo tale potere, in base ad una norma; ne deriva, dunque, che sono responsabili civilmente, ai sensi dell'art. 2055 c.c., tanto l'amministrazione committente l'opera quanto il soggetto (pubblico o privato) al quale, unitamente alla realizzazione dell'opera, sia stata affidata, in virtù di delega, anche il potere di gestire, in nome e per conto del delegante, il procedimento espropriativo e di emanare il decreto di espropriazione. Del resto, anche in presenza di un rapporto concessorio (eventualmente di fonte legale), resta sempre fermo il potere-dovere di vigilanza dell'amministrazione concedente sull'attività del concessionario, con particolare riguardo all'esercizio di poteri pubblici – e dunque anche del potere espropriativo - da parte di questi.

(7) Quali sono le ragioni del dissenso  tra Cassazione e Consiglio di Stato sulle tutele del privato vittima di occupazione amministrativa illegittima?

 Cass, I,  6 giugno 2022, nn. 18142, 18143, 18167, 18168non ha in effetti condiviso la posizione della Plenaria 2/2020 (vei par. . 6),  rilevando che  l'esclusione della rinuncia abdicativa nelle ipotesi di occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione rappresenta un grave vulnus per il diritto di proprietà del privato[ Tali sentenze  – muovendo dall'assunto che la scelta dei rimedi a tutela della proprietà deve essere sempre riservata al privato danneggiato (Cass. n. 144/2020 e n. 301/2014) – si afferma chiaramente che l'Adunanza Plenaria, escludendo la possibilità per il privato di azionare i rimedi civilistici comuni, in sostanza ha ravvisato una “modalità conformativa della proprietà privata rimessa all'autorità amministrativa alla quale soltanto sarebbe riservata, ai sensi dell'art. 42 bis., la decisione di acquisire la proprietà dell'immobile, previo pagamento dell'indennizzo, o di restituirlo previa rimessione allo stato pristino, salva la residua possibilità per il privato di reagire introducendo un giudizio, con esito incerto e dilatato nel tempo, al solo fine di compulsare la stessa autorità ad assumere detta decisione”.  Secondo la Corte l'adesione all'impostazione della giurisprudenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato implica l'esposizione del proprietario danneggiato ai rischi insiti nella titolarità del bene in una situazione determinata dal comportamento illecito dell'autorità amministrativa; il proprietario, di fatto, verrebbe privato della possibilità di avvalersi del rimedio principale per far cessare immediatamente la prosecuzione degli effetti dell'illecito, ossia la rinuncia forzosa alla proprietà (soluzione alternativa alla richiesta di restituzione del bene previa rimessione in pristino se concretamente praticabile).

Il proprietario vittima del comportamento illecito dell'amministrazione ha il diritto di domandare in giudizio il risarcimento del danno, non solo, per la perdita del godimento nel periodo considerato (occupazione illegittima), ma anche per la perdita commisurata all'integrale valore del bene, alla cui titolarità il proprietario ha implicitamente (seppur forzosamente) rinunciato proponendo la domanda risarcitoria per equivalente. Muovendo da tale assunto, la Corte di Cassazione rigetta in toto la soluzione prospettata dal giudice amministrativo aprendo un contrasto giurisprudenziale che richiede una soluzione.  A sostegno della propria posizione la Suprema Corte richiama anche l'orientamento della dottrina (per lo più gius-privatistica: vedi par. 7) secondo la quale non vi sono ostacoli logici e giuridici a che il proprietario - fintanto che la pubblica amministrazione non abbia esercitato il potere di acquisizione sanante - possa chiedere in giudizio e ottenere il risarcimento del danno per la perdita della proprietà del bene coattivamente trasferito in capo all'autore della lesione.

Il contrasto giurisprudenziale fra le supreme magistrature ordinaria e amministrativa in tema di rinuncia abdicativa sottende la continua tensione tra autorità e libertà, ovvero fino a che punto il potere autoritativo della pubblica amministrazione esercitato nel perseguimento del pubblico interesse possa giustificare il sacrificio del diritto di proprietà del privato garantito dalla Costituzione e dalla CEDU.

Per un verso, la posizione dell'Adunanza Plenaria del 2020 in ordine alla non ammissibilità dell'istituto dell'abdicazione del diritto di proprietà ha l'incontestabile pregio, per un verso, di essere pienamente aderente alle disposizioni codicistiche richiamate nelle sentenze di tenore contrario e, per altro verso, di valorizzare lo spirito della disciplina dell'acquisizione sanante. L'art. 42-bis del Testo Unico Espropriazioni, invero, fornisce una base legale specifica e certa all'effetto ablativo della proprietà: da un lato la pubblica amministrazione è dotata di un potere di natura vincolata nell'an ma discrezionale nel quomodo, che le permette di ricondurre la situazione di occupazione illegittima nell'alveo della legalità; dall'altro lato, l'iniziativa procedimentale ed il successivo giudizio sul silenzio – come evidenziato dall'Adunanza Plenaria – costituiscono i mezzi con cui il privato può far valere il proprio interesse a conseguire il ristoro pecuniario rispetto alla restituzione del bene. Da altra prospettiva, le conclusioni cui giunge la Corte di Cassazione nelle recenti sentenze del 2022 non paiono potersi considerare di modesto rilievo; l'esigenza di assicurare una tutela effettiva al proprietario del bene occupato dalla pubblica amministrazione per la realizzazione di un interesse pubblico è certamente rilevante e trova conforto nelle norme della CEDU che potrebbero indurre la Corte EDU a indicare una linea interpretativa in disaccordo con l'orientamento consolidatosi nelle sentenze del giudice amministrativo.

Sulla  giurisdizione del GO sulla  domanda riconvenzionale di usucapione proposta dalla PA al fine di resistere alla domanda di restituzione di un'area occupata “sine titulo” (Cons. Stato, IV, 5872/2022); spetta invece  al GA., in quanto assorbita nella materia espropriativa di giurisdizione esclusiva, la contro-eccezione riconvenzionale proposta dal ricorrente al fine di eccepire l'inefficacia dell'acquisto derivativo eccepito dall'amministrazione occupante per resistere alla domanda restitutoria; (TAR  Bologna, I, 73/2032).

Bibliografia

Bona, Pardolesi, Rinunzia abdicativa, abdicazione dalla giustizia? Note a Cons. St. Ad. Plen., 20 gennaio 2020, n. 2, in Foro it. 2020, 3, III, 169 ss.; Caringella, Manuale ragionato di diritto amministrativo, Roma, 2021, 701 ss.; Patroni Griffi, Prime impressioni a margine della sentenza della Corte Costituzionale n. 293 del 2010, in tema di espropriazione indiretta, in federalismi.it, 20 ottobre 2010; Punzo, Mutata la forma, la sostanza è la stessa? Commento a caldo al nuovo art. 42-bis del testo unico sulle espropriazioni introdotto dal d.l. n. 98 del 6 luglio 2011, in neldiritto.it, 2011; Varrone, L'accessione invertita fa finalmente il suo ingresso nell'ordinamento di settore dalla porta principale, in giustamm.it, 30 settembre 2011.

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