Comunione de residuo: al coniuge non imprenditore spetta solo un diritto di credito

Nelson Alberto Cimmino
27 Maggio 2022

Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella c.d. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all'altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell'azienda.
Massima

Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella c.d. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all'altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell'azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

Il caso

Tizio e Caia contraevano matrimonio nel 1974 ed il loro regime patrimoniale era quello della comunione legale dei beni.

Nel corso degli anni venivano acquistati diversi fondi e solo nell'ultimo di tali atti, concluso nel 1988, si dava atto che il relativo immobile era stato acquistato dai coniugi in regime di comunione legale, in quanto negli altri atti, invece, risultava essere unico acquirente ed intestatario il solo Tizio, poiché la moglie Caia, pur intervenuta alla stipula, aveva dichiarato che gli immobili oggetto degli acquisti non rientravano nella comunione dei beni in quanto da considerarsi necessari per l'esercizio della professione del marito, e ciò in conformità all'art. 179, lett. d), c.c.

Sul presupposto dell'assunta erroneità di quest'ultima dichiarazione e dell'applicabilità dell'art. 178 c.c., in luogo del citato art. 179 lett. d), c.c., ed essendo successivamente intervenuta pronuncia di separazione giudiziale con sentenza passata in giudicato, Caia citava in giudizio Tizio sostenendo che, poiché si era sciolta la comunione legale tra coniugi, gli immobili acquistati da Tizio erano da considerarsi caduti ipso iure in comunione, ragion per cui l'attrice dichiarava di vantare un diritto di comproprietà sui predetti immobili, nonché su quanto sugli stessi edificato, in ragione del 50%.

Sulla base di tale premessa in fatto, Caia citava dunque in giudizio Tizio chiedendo la divisione di tutti i beni aziendali intestati al convenuto.

All'esito dell'istruttoria, l'adito Tribunale dichiarava che l'attrice era proprietaria del 50% dei beni immobili oggetto del contendere, dovendosi applicare nella fattispecie, il disposto dell'art. 178 c.c., disponendo altresì la prosecuzione del giudizio per le conseguenti operazioni divisionali.

Tizio proponeva appello.

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado (che confermava con riferimento all'applicazione dell'art. 178 c.c. ed all'esistenza della comunione de residuo), dichiarava che, per effetto dello scioglimento dell'anzidetta comunione de residuo, a Caia si sarebbe dovuto riconoscere solo una ragione di credito e non una situazione di contitolarità reale sui beni risultanti dalla comunione de residuo, ed esattamente un diritto di credito corrispondente al 50% del valore dei beni.

Caia ricorreva in Cassazione.

La questione

Per effetto dello scioglimento della comunione legale dei beni, sui beni destinati all'esercizio dell'impresa compresi nella c.d. comunione de residuo (art. 178 c.c.) al coniuge non imprenditore spetta un vero e proprio diritto reale di comproprietà (per cui sui beni stessi si costituisce una comunione ordinaria), oppure un mero diritto di credito pari alla metà del valore dell'azienda al momento dello scioglimento della comunione?

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte, pronunciandosi a Sezioni Unite, supera i diversi orientamenti di dottrina e giurisprudenza ed opta per la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo, riconoscendo un diritto di compartecipazione sul piano appunto creditizio, pari alla metà dell'ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo, ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività.

I giudici di Piazza Cavour ricordano che a seguito della novella di cui alla legge n. 151/1975, la comunione legale è divenuto il regime patrimoniale legale dei coniugi.

La scelta di tale regime risponde alla considerazione della famiglia come consortium omnis vitae, nonché ad una specifica esigenza di tutela del coniuge economicamente e socialmente più debole, e ciò in funzione complementare rispetto al sistema degli obblighi nascenti dal matrimonio stesso ed incidenti, direttamente o indirettamente, sul patrimonio dei coniugi.

Tuttavia, se la finalità dell'istituto è quella di garantire l'uguaglianza delle sorti economiche dei coniugi in relazione agli eventi verificatisi dopo il matrimonio, il legislatore ha avuto anche ben presente l'esigenza di assicurare al singolo coniuge un adeguato spazio di autonomia nell'esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali, ed in generale nella gestione dei propri redditi da lavoro come pure dei frutti ricavati dai beni personali.

L'obiettivo era dunque quello di fornire una disciplina che operasse un necessario ed equilibrato bilanciamento fra alcuni principi, tutti di rango costituzionale e, come tali, meritevoli in ugual modo di tutela, quali la tutela della famiglia, il principio di pari uguaglianza dei cittadini, la libertà di iniziativa economica e la remunerazione del lavoro.

Il legislatore ha così previsto, accanto ai beni che ricadono in comunione immediata, e che entrano cioè nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, una serie di beni che ricadono in comunione de residuo, restando quindi personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale, ma che sono attratti alla disciplina della comunione legale nella misura in cui gli stessi siano sussistenti al momento dello scioglimento della comunione (essendovi poi una serie di beni che nascono come personali e restano tali anche una volta cessata la comunione legale).

In particolare, i beni che ricadono nella comunione de residuo sono indicati dall'art. 177, lettere b) e c) (i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati allo scioglimento della comunione ed i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati) e dall'art. 178 (i beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente solo se sussistono al momento dello scioglimento di questa) del Codice civile.

Affinché possa insorgere il diritto dell'altro coniuge su detti beni è però necessario che gli stessi siano effettivamente e concretamente esistenti nel patrimonio dei coniugi al momento dello scioglimento, di guisa che l'instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto nell'an, in quanto subordinato alla circostanza della sussistenza del residuum al momento dello scioglimento della comunione legale, ed incerto altresì nel quantum, poiché la contitolarità riguarderebbe esclusivamente quella parte di beni che residuino alla cessazione del regime patrimoniale legale.

I giudici sottolineano pertanto che la disciplina dei beni personali e quella specificamente dettata per i beni oggetto della c.d. comunione de residuo testimoniano l'evidente emersione, pur all'interno di un regime ispirato alla tutela di esigenze solidaristiche tra i coniugi, della necessità di attribuire rilevanza anche a legittime aspirazioni individuali, che non potrebbero essere del tutto mortificate, e ciò in quanto il matrimonio presuppone comunque il riconoscimento della persona e della sua sfera di autonomia come valore primario che gli istituti giuridici sono chiamati ad attuare, soprattutto ove l'attività individuale si rivolga all'esercizio dell'attività di impresa o professionale.

Inoltre, e con specifico riferimento ai beni di cui all'art. 178 c.c., si pone anche la finalità di non coinvolgere il coniuge non imprenditore nella posizione di responsabilità illimitata dell'altro, assicurando a quest'ultimo la piena libertà d'azione nell'esercizio della sua attività d'impresa.

È evidente come il legislatore abbia inteso garantire, finché dura la comunione legale, al coniuge imprenditore il potere di gestione dell'impresa, investendo a suo piacimento gli utili, e disponendo nel modo più libero dei beni e degli utili aziendali. Ne deriva che i beni oggetto della comunione de residuo, ed in particolare quelli di cui all'art. 178 c.c., non possano considerarsi comuni, almeno fin tanto che non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale (e non rilevando a tal fine la sola cessazione della destinazione dei beni all'impresa ovvero il venir meno della qualità di imprenditore in capo al coniuge).

Per le ragioni sopra evidenziate, ritiene dunque il Collegio che sia da prediligere (in quanto maggiormente rispondente allo spirito della norma) la tesi della natura creditizia del diritto sui beni oggetto della comunione de residuo, tesi che, senza vanificare in termini patrimoniali l'aspettativa vantata dal coniuge sui beni in oggetto, garantisce la permanenza della disponibilità dei frutti e dei proventi e dell'autonomia gestionale, quanto all'impresa, in capo all'altro coniuge, evitando un pregiudizio altresì per le ragioni dei creditori, consentendo in tal modo la sopravvivenza dell'impresa, e senza che le vicende dei coniugi possano avere una diretta incidenza sulle sorti della stessa.

Al contrario, i giudici sottolineano i notevoli inconvenienti che si presenterebbero aderendo alla diversa tesi della natura reale del diritto spettante al coniuge non imprenditore.

L'insorgenza di una comunione anche sui beni mobili ed immobili confluiti nell'azienda, con la contitolarità che ne discende pone evidenti problemi nei rapporti con i terzi che abbiano avuto rapporti con l'impresa individuale del coniuge, i quali vedrebbero dal momento dello scioglimento della comunione legale, i beni non più appartenenti per l'intero all'imprenditore, ma in comunione con l'altro coniuge, con la conseguente diminuzione della garanzia patrimoniale ai medesimi offerta, effetto questo che potrebbe anche scoraggiare i creditori dal continuare a riporre fiducia nella gestione successiva allo scioglimento della comunione legale.

Inoltre, proprio la situazione di contitolarità sui beni oggetto della comunione de residuo imporrebbe, nella loro successiva gestione, il rispetto delle regole dettate per i beni comuni, con il concreto rischio di paralisi nell'esercizio dell'attività di impresa, anche laddove si reputi che la qualità di imprenditore resti sempre in capo al solo coniuge che l'aveva prima dello scioglimento del regime della comunione legale.

Ancora, la Cassazione evidenzia che appare priva di intrinseca razionalità la tesi che afferma la natura reale del rapporto in quanto qui si avrebbe un incremento dei legami economici fra i due coniugi proprio quando e, anzi addirittura, proprio “perché” si sono prodotte vicende che, secondo la stessa previsione legislativa, ne dovrebbero invece comportare la cessazione.

Né va trascurato il fatto che il passaggio automatico dei beni comuni de residuo dalla titolarità e disponibilità esclusive del coniuge al patrimonio in comunione si tradurrebbe in una menomazione dell'autonomia e della libertà del coniuge stesso, che il legislatore ha, invece, inteso salvaguardare nella fase precedente allo scioglimento, con il rischio che la conflittualità tra coniugi, che spesso caratterizza alcune delle fattispecie che determinano le cessazione del regime patrimoniale legale, possa riverberarsi anche nella gestione e nelle scelte che afferiscano ai beni aziendali caduti nella comunione de residuo.

Il carattere poi ordinario della comunione che verrebbe in tal modo a determinarsi, oltre ad incidere sulle regole gestionali della stessa, porrebbe il problema dei potenziali esiti esiziali per la stessa sopravvivenza dell'impresa, posto che, in assenza di una specifica previsione che contempli una prelazione a favore del coniuge già imprenditore, all'esito della divisione, ove il complesso aziendale non risultasse comodamente divisibile, ben potrebbe chiederne l'attribuzione il coniuge non imprenditore, ovvero, in assenza di richieste in tal senso da parte dei condividenti, si potrebbe addivenire alla alienazione a terzi.

Non trascurabile appare poi la scarsa razionalità che implicherebbe la natura reale del diritto in esame, nel caso di morte del coniuge non imprenditore, che determinando del pari lo scioglimento della comunione legale, verrebbe a creare la comunione sui beni di cui all'art. 178 c.c. tra il coniuge imprenditore e gli eredi dell'altro coniuge, che ben potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare ristretto.

D'altronde non appare facilmente conciliabile con la natura reale del diritto la previsione secondo cui cadano in comunione anche gli incrementi, che per la loro connotazione, in parte anche immateriale (si pensi alla componente spesso rilevantissima dell'avviamento), mal si prestano a configurare una comunione in senso reale sui medesimi.

Peraltro – ricorda la Cassazione – poiché si ritiene che la comunione non insorga automaticamente sull'azienda o sugli incrementi, bensì sul “saldo attivo del patrimonio aziendale” cioè su un'entità astratta costituita dal valore monetario del complesso dei beni che costituiscono l'azienda stessa dedotte le passività, ciò implica l'impossibilità di una reale contitolarità di diritti sui beni in oggetto, dovendosi invece propendere per la soluzione che attribuisce al coniuge non titolare del diritto reale una (eventuale, una volta effettuati i dovuti calcoli) pretesa di carattere creditorio.

Priva di solidità risulta l'obiezione secondo cui l'attribuzione di un mero credito pecuniario vanificherebbe l'aspettativa del coniuge non imprenditore alla partecipazione all'ulteriore aumento di valore dei beni aziendali intervenuto dopo lo scioglimento della comunione legale, potendosi agevolmente opporre a tale deduzione il rilievo per cui, proseguendo la gestione dell'impresa da parte del coniuge che già lo faceva prima, non è giustificabile alcuna aspettativa del coniuge non imprenditore, essendo venute meno, con la cessazione del regime della comunione legale, quelle esigenze solidaristiche che erano a fondamento della pretesa di compartecipazione alle fortune del coniuge imprenditore.

In conclusione – afferma la Suprema Corte - la tesi della natura reale deve essere rigettata (a favore della opposta tesi del diritto di credito) in considerazione dei rischi che essa è in grado di arrecare alla stessa sopravvivenza dell'impresa del coniuge.

Va quindi affermato il seguente principio di diritto: Nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio, e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all'altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell'azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data”.

Osservazioni

In passato la giurisprudenza si è più volte espressa (con orientamenti discordanti) sul tema della natura del diritto spettante al coniuge non imprenditore in sede di scioglimento della comunione legale sui beni destinati all'esercizio dell'impresa oggetto della c.d. comunione de residuo.

La pronuncia in commento chiarisce definitivamente la natura giuridica della comunione de residuo nell'ipotesi dettata dall'art. 178 c.c. privilegiando l'orientamento secondo cui la comunione de residuo ha natura di mero diritto di credito e non attribuisce al coniuge non imprenditore alcuna automatica ragione nei confronti dei beni aziendali, essendo la sua posizione subordinata al previo soddisfacimento dei creditori dell'impresa (Trib. Camerino 5 agosto 1988).

In tal senso si era anche affermato che la quota societaria del coniuge non cade in comunione legale ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., ma in quella ex art. 178 c.c., di talchè quello che potrebbe essere acquistato dal coniuge non socio, al momento dello scioglimento della comunione, sarebbe solo un credito virtuale alla eventuale e futura liquidazione della quota societaria (Trib. Grosseto 28 ottobre 2016, n. 835).

In senso conforme, la Cassazione aveva in tempi non remoti sostenuto che è una caratteristica tipica della comunione de residuo che l'attivo della massa comune si arricchisca proprio nel momento in cui il vincolo di solidarietà tra i coniugi si allenta con la separazione personale dei coniugi che è causa dello scioglimento della comunione legale (art. 191 c.c.), momento quest'ultimo cui necessariamente va ancorata la stima del valore di quella massa. La compartecipazione al valore degli incrementi patrimoniali conseguiti post nuptias dall'altro coniuge è, appunto, differita al momento della separazione, non ad epoca successiva. Dunque, la partecipazione di un coniuge ad una società di persone ricade nella comunione de residuo con conseguente diritto di credito a favore dell'altro coniuge esigibile al momento della separazione personale e quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento (Cass. 20 marzo 2013, n. 6876).

Anche dal punto di vista tributario si era sostenuto in maniera inequivoca che il diritto del coniuge non imprenditore sui beni dell'impresa del coniuge imprenditore si configura come diritto personale e non reale (Cass. 9 maggio 2007, n. 10608).

È doveroso sottolineare che le argomentazioni delle Sezioni Unite richiamano in buona parte le osservazioni già espresse dai giudici di legittimità nella prima, lontana, sentenza che si occupava della comunione de residuo (Cass. 29 novembre 1986, n. 7060).

In particolare, già circa quaranta anni fa si rilevava che il legislatore della riforma del diritto di famiglia si è posto l'obiettivo fondamentale - anche se non l'unico - di far profittare ad ambedue i coniugi degli incrementi patrimoniali che nel corso del matrimonio si possono verificare come risultato, essenzialmente, dell'attività di lavoro “esterna” di uno o di ambedue coniugi. Di questi incrementi debbono profittare in pari quota ambedue i coniugi, chiunque dei due abbia lavorato all'esterno.

Ma lo stesso legislatore si è preoccupato di non sacrificare a tale fine la libertà individuale di ciascuno dei coniugi; in specie, il diritto di cui vi è un'eco costituzionale nell'art. 41 Cost. di liberamente scegliere la propria attività lavorativa. Ora, tale libertà è reale se la scelta di ciascuno non è condizionata da interferenze del coniuge, in specie se non è subordinato ad interferenze del coniuge l'acquisto dei beni che sono strumentalmente necessari per l'esercizio dell'attività scelta e la disponibilità di beni a quel fine acquistati. Il legislatore, con le norme contenute negli art. 178 e 179 lettera d) c.c. ha voluto soddisfare tale esigenza, nel doppio senso di escludere ogni potere di veto su acquisto e destinazione dei beni e di attribuire piena disponibilità di tali beni al coniuge acquirente che tali beni utilizza per il suo lavoro produttivo; piena disponibilità che è necessaria per rendere reale la libertà di scelta del tipo di lavoro.

Per quanto riguarda il coniuge imprenditore ha disposto con l'art. 178 c.c. essere sufficiente la “sua” destinazione del bene, anche se immobile o mobile registrato, al servizio dell'impresa, escludendo ogni ingerenza dell'altro coniuge.

Logicamente perché è assai frequente che l'imprenditore abbia proprio la necessità di tali beni (sede dello stabilimento, mezzi di trasporto per persona e cose, diritti di brevetto per invenzioni industriali) e, soprattutto, perché è proprio nella logica della impresa che di quei beni l'imprenditore abbia piena e totale disponibilità. Ma, proprio in considerazione del maggiore valore che di regola hanno i beni destinati ad un'impresa, è stabilito che tali beni non sianopersonali” del coniuge, bensì formano oggetto della comunione de residuo, il che significa che, allo scioglimento della comunione, del valore di essi si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore. Con questa disciplina si è cercato di contemperare le due esigenze: inquadrando i beni così acquistati nella categoria dei beni oggetto della comunione de residuo, si soddisfa, seppure parzialmente l'esigenza di tutelare l'altro coniuge al quale è riservata l'aspettativa in ordine a quei beni quando la comunione sarà sciolta. Si soddisfa d'altra parte l'esigenza fondamentale dell'imprenditore di potere fare scelte soltanto sue negli acquisti e di disporre liberamente dei beni così acquistati e destinati: è infatti sufficiente il regime di comunione de residuo per attribuire al coniuge la libera disponibilità di questi beni.

D'altronde, a questo modo, sono meglio tutelati i creditori dell'imprenditore, i quali sanno di poter contare su tutti i beni che risultano intestati all'imprenditore e facenti parte dell'azienda.

Questa protezione dei creditori appare logica proprio perché l'imprenditore è, per l'attività stessa, fisiologicamente, soggetto che ricorre al credito altrui (fornitori, banche).

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